Bat-Ami Rivlin (1991) è una artista che vive e lavora a New York e che fa della pratica scultorea e, in particolare, dello studio attento dell’oggetto, della sua estetica, materialità e dignità esistenziale, il vero e proprio centro della sua ricerca artistica. Per certi aspetti, si potrebbe dire che si occupa di un qualcosa in netta controtendenza rispetto all’attuale, prepotente ritorno in auge di quel tipo di pittura carica di una figurazione dall’estetica fantastico-surreale e dai connotati fortemente narrativi. Queste sono categorizzazioni che non attanagliano né tanto meno mortificano le opere scultoree di Rivlin, capaci di esistere e delineare il proprio spazio di vita in una maniera a dir poco magnetica.
Con l’obiettivo di presentare ed esplorare più nel dettaglio il suo lavoro, ho avuto il piacere di confrontarmi direttamente con l’artista su alcuni degli aspetti chiave della sua pratica.
Punto di partenza per una teorizzazione del suo lavoro è la scultura. Rivlin è, prima di tutto, una scultrice in grado di confrontarsi con una gamma amplissima di materiali che vengono riproposti e investigati mediante strutture che soltanto per affinità visiva possono essere ricondotte all’universo del ready-made. Ciò che conta infatti è l’immediatezza della materia che trova concretizzazione nell’oggetto di uso comune (di derivazione industriale, materiale di scarto e così via), parte integrante e connotante della nostra esistenza a qualsiasi stadio formativo. Ecco, dunque, che sin da subito emerge un elemento chiave per l’approccio alle opere di Rivlin: il confronto diretto con gli oggetti, la loro natura materica e la loro funzionalità per come essi sono stati concepiti, svincolandosi dal rischio che labirintiche sovra-strutture narrative possano ostacolare l’immediatezza del loro esistere in qualità di elementi costituenti e delineanti del nostro essere. Adottando una prospettica “sistemica”, l’opera oggettuale di Rivlin si presenta agli occhi di chi osserva senza rivendicazione alcuna. Quel che viene sottoposto allo sguardo non rimanda a nient’altro se non a ciò che è, ovvero l’esito ultimo di un intero processo produttivo di stampo capitalistico tale per cui qualsiasi cosa viene generata per un motivo e con una funzione ben precisa. Ed è che qui che, forse, si sorpassa il concetto di ready-made comunemente inteso.
Prendendo come riferimento quanto scritto in occasione della sua personale No Can Do (12 febbraio – 11 aprile 2021) presso la M 2 3 di New York, le sculture vanno a materializzare un insieme di significati quale rappresentazione scenica di frammenti di un sistema e dei suoi “fallimenti” intrinsechi. Nello spazio espositivo gli oggetti – come ad esempio Untitled (inflatable kayak, zip ties), scultura composta da kayak gonfiabile e fascette di chiusura, o Untitled (metal gate, yellow foam, duct tape), opera costituita da una parte di recinzione, telaio in metallo, cerniere, poliisocianurato espanso, nastro adesivo e ferramenta – non perdono la loro funzionalità originaria quanto invece inscenano quel che resta dalla loro iper-tensione, rendendola paradossalmente futile e, più in grande, mettendo in luce la limitatezza di una macchina produttiva incapace di funzionare oltre le dinamiche di rigida categorizzazione e utilitarismo.
Tuttavia, il punto non è impantanarsi nella semplice retorica. Come anche spiegato da Rivlin, i suoi lavori non vogliono parlare direttamente di qualcosa. Non sono “sul” fallimento. Sono piuttosto oggetti reali, vere testimonianze ed espressioni di quel groviglio fallimentare con cui ci si misura dal primo istante di vita. A tale proposito, particolarmente calzante è il termine utilizzato in occasione della collettiva whereabouts tenutasi presso l’Hessel Museum of Art (2 aprile – 29 maggio 2022, a cura di Dominika Tylcz). Le opere non erano presentate tanto in relazione alla loro “aboutness”, quanto rispetto all’idea di “aroundness” tale per cui il vero dato su cui soffermarsi era, ed è tutt’ora, la profonda connessione tra i lavori, lo spazio ospitante e l’osservatore stesso. Un tutt’uno che diventa la reale materia costitutiva dell’assetto espositivo.
La portata della ricerca di Rivlin non si limita inoltre a considerare una prospettiva dal carattere universale. Se è pur vero che i suoi lavori si configurano come testimonianze del nostro tempo, in grado di riflettere le crepe nascoste di un intero sistema, diventa allora sensato tenere in considerazione anche la prospettiva dell’individuo, la singolarità costituente di una simile complessità. E forse, è proprio sulla base di questi presupposti che diventa possibile considerare una connessione emotiva, dalla valenza anche personale, di fronte alle sue opere. La storia di un sistema comprende inevitabilmente la storia del singolo. Universale e particolare coesistono in un’inter-relazione continua. Rispetto alla considerazione del ruolo della sfera individuale, in Thing Theory: A Roundtable On Sculpture[1], pubblicato su “Art in America”, Lydia Ourahmane parla di come il suo lavoro The Third Choir volesse porre l’accento non tanto sui semplici oggetti (20 barili di petrolio) quanto sulla macro narrazione generata dall’intero processo del loro spostamento dall’Algeria al Regno Unito – comprendente una molteplicità di soggetti e dunque di storie – e su ciò che l’oggetto in sé fosse effettivamente in grado di attivare.
Preso dunque atto che anche nel lavoro di Rivlin si riconosce un ruolo alla prospettiva del singolo, l’interrogativo che ci si pone è invece in merito al peso che, in concreto, assume la sfera narrativo-interpretativa. Davanti alle sue sculture ha senso cimentarsi in un processo di costante attribuzione di significati o si corre invece il rischio di eccessiva mortificazione dell’opera? Come ribadito da Rivlin, è vero che universale e particolare coesistono e si alimentano a vicenda non potendo porre freno al tentativo di interpretazione: “Categorizing the objects into utilitarian objects is in itself an interpretive act. The concern is whether that interpretation concerns the object presented, or whether it is a way of not-looking”. Vale in sostanza quanto detto prima. Ci si trova di fronte a oggetti reali che non hanno intenzione di parlare di nulla se non che manifestarsi in tutta la loro interezza e complessità.
Come accennato in relazione a whereabouts, la tematica spaziale assume un ruolo chiave per la contestualizzazione dei lavori. Un qualcosa che emerge in modo ancor più significativo anche dal suo ultimo progetto site specific EN-SITIO / PLACE-WOOD realizzato presso il Museo de la Ciudad de Querétaro in Messico (11 settembre – 26 novembre 2022) e consistente nell’installazione all’aperto di Untitled (92 tires) – composta da una serie di pneumatici usati di camion legati con chiusure zip e che, nonostante siano logorati, sono incapaci di esercitare la loro funzione – e nell’opera esposta al chiuso Untitled (duct tape, duct tape, duct tape, tires) – pneumatici di auto in disuso disposti in fila e legati con del nastro adesivo ma, di nuovo, resi del tutto inutilizzabili. Nonostante l’impiego di una gamma vastissima di materiali, la scelta di Rivlin non è casuale a riguardo ma vuole rispecchiare la complessità dell’ambiente ospitante. Gli oggetti riflettono azioni, dinamiche ed economie, e non a caso contesti differenti richiedono materiali differenti (un qualcosa che si ritrova, ad esempio, anche nell’opera presentata nel group show COLAPSO al TEA Tenerife Espacio de las Artes, 2 luglio – 26 settembre 2022).
Quasi volendo porre l’accento su una sorta di sfera socio-politica dell’oggetto che si fa portavoce dell’ambiente circostante, e come per il legame tra universale e particolare, Rivlin coglie l’essenza del dialogo continuo tra “esterno” e “interno”, divincolandosi dall’impellenza di creare qualcosa di nuovo, ma sottoponendo, invece, ai nostri sguardi bulimici, quelle che sono le componenti essenziali del nostro vivere. Oggetti, specchi e sintesi del mondo.
Gabriele Medaglini
Info:
Bat-Ami Rivlin
batamirivlin.com
[1] Thing Theory: A Roundtable On Sculpture, Gordon Hall, Abigail Lucien, Lydia Ourahmane, Michael Rakowitz, moderato da Mira Dayal, «Art in America», Settembre 2022, pp. 72-77.
Bat-Ami Rivlin, Untitled (inflatable kayak, zip ties), 2020. Ph. Shark Senesac, 2021. Courtesy l’artista e M 2 3 Gallery, New York
Bat-Ami Rivlin, Untitled (metal gate, yellow foam, duct tape), 2019. Ph. Shark Senesac, 2021. Courtesy l’artista e M 2 3 Gallery, New York
Bat-Ami Rivlin, Untitled (orange net, zip ties), 2022. Installation view, whereabouts, Hessel Museum of Art, Annandale-On-Hudsun (US), 2022. Ph. Olympia Shannon, 2022. Courtesy l’artista e Hessel Museum of Art
Bat-Ami Rivlin, Untitled (LED, cord, duct tape), 2022. Installation view, whereabouts, Hessel Museum of Art, Annandale-On-Hudsun (US), 2022. Ph. Olympia Shannon, 2022. Courtesy l’artista e Hessel Museum of Art
Bat-Ami Rivlin, Untitled (92 tires), 2022. Installation view, EN-SITIO / PLACE-HOOD, Museo de la Ciudad Querétaro (MX), 2022. Courtesy l’artista e Museo de la Ciudad Querétaro
Bat-Ami Ravlin, Untitled (duct tape, duct tape, duct tape, tires), 2022. Installation view, EN-SITIO / PLACE-HOOD, Museo de la Ciudad Querétaro (MX), 2022. Courtesy l’artista e Museo de la Ciudad Querétaro
Con una laurea specialistica in Economia e Gestione dei Beni Culturali e appassionato all’ambito dell’arte Contemporanea, alla sua dimensione economica e, più in generale, alle dinamiche caratterizzanti il mercato dell’arte, Gabriele ha maturato nel corso del tempo esperienze in contesti quali gallerie d’arte contemporanea, start-ups ed Art Advisory. Attualmente lavora nella casa d’aste Art-Rite come assistente di dipartimento di arte Moderna e Contemporanea.
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