Gregorio Botta. Breathe Out

A quattro anni di distanza da A cosa aspira l’acqua, Gregorio Botta (Napoli, 1953) torna a Bologna per inaugurare la nuova stagione espositiva di Studio G7 con la personale Breathe Out, in cui presenta due importanti installazioni inedite, realizzate appositamente per lo spazio, e una preziosa serie di opere di piccolo e medio formato, anch’esse esito dei più recenti sviluppi della sua ricerca artistica, da sempre incentrata sull’esplorazione del sottile confine che separa pieno e vuoto e sulla dialettica tra presenza e assenza generata dall’intersezione e contrapposizione di queste suggestioni antitetiche e complementari. Come spiega il testo di Marinella Paderni che accompagna la mostra, Breathe Out è il secondo capitolo di un importante progetto, partito con la mostra parallela Breathe in inaugurata quasi in contemporanea allo Studio Trisorio di Napoli, che tratta del senso dell’esistenza umana dal punto di vista del respiro, inteso come soffio vitale e come alternata espansione verso l’interno e verso l’esterno. La riflessione dell’artista sviluppata nella tappa bolognese è quindi dedicata all’espirazione, atto fisiologico e incontrollabile immediatamente conseguente all’inspirazione, tramite il quale il nostro corpo lascia fuoriuscire ciò che è stato trattenuto. “Quando inspiriamo è come se inghiottissimo una parte del mondo” [1] dice l’artista, lasciando intuire come il successivo rilascio implichi una provvisoria condizione di leggerezza, ma anche un significato di perdita difficilmente rimarginabile.

Nelle opere in mostra Gregorio Botta mette in atto una sorta di meditazione laica che, soffermandosi sulla dimensione poetica e reale del respiro, traghetta il pensiero oltre la visione integrata dell’evidenza e prova a dare forma e consistenza all’indefinibile nostalgia per un altrove interdetto ai sensi e all’intelletto umano, a cui è concesso solamente di approssimarvisi attraverso labili intuizioni in negativo. Inspirare, trattenere il fiato ed espirare significa introiettare l’alterità che proviene dall’esterno, renderla per un attimo a sé consustanziale e separarsene immettendola nuovamente nel flusso delle ciclicità in un’ulteriore produzione di differenza. L’osmosi tra dentro e fuori generata da questo processo presenta sorprendenti analogie con l’atto del vedere, attraverso il quale l’immaginario umano si nutre della realtà esterna per poi proiettare in essa le visioni innescate da questo scambio, che diventano a loro volta il punto di partenza della nostra interpretazione del reale. L’automatismo, l’ineluttabilità e l’incontrollabilità di tali meccanismi (e la problematica idea di libertà che ne deriva) sono al centro delle opere esposte in mostra, che si presentano come altrettanti dispositivi di meditazione e mediazione attraverso i quali l’artista ci invita a sperimentare nuove possibilità di interazione con l’incommensurabile vuoto in cui siamo immersi.

Idealmente il percorso espositivo si apre con In molti luoghi ignoti, grande lastra di vetro che suggerisce l’apparizione di una porta immateriale socchiusa sul vuoto, una barriera-varco quasi perfettamente mimetizzata con l’invisibile, che i nostri occhi riescono in un primo momento a percepire solamente in relazione con gli scarni elementi che ne definiscono il posizionamento spaziale: un sottile cuneo in ferro che la sorregge dal retro, facendo al contempo presagire che l’attraversamento non sarà indolore, e una coppa di cera posta in precario equilibrio sulla sua sommità, pronta a rovesciare il nulla di cui è colma sul capo di chi avesse l’ardire di allargare il passaggio movimentando la lastra per oltrepassare la soglia. La coppa è un oggetto ricorrente nella poetica di Gregorio Botta, da sempre affascinato dal potere evocativo di questa forma costruita dalla perfetta complementarietà di pieno e vuoto, che nel suo lavoro diventa una figura simbolica carica di energia, capace di incarnare l’attesa e la tensione per un riempimento/compimento forse destinato a non avvenire mai.

Se questa prima installazione sembra attribuire ai materiali utilizzati dall’artista proprietà evanescenti in ambigua dialettica con la loro accidentalità materica, nella scultura Senza titolo che occupa la parete opposta della galleria (composta da una sorta di ghigliottina in vetro che comprime alcune tele cerate pigmentate) diventa invece preponderante il peso del vuoto, qui interpretato come sostanza densa e soggetta alle leggi di gravità. Ciò che viene trattenuto – frammenti di tela residui di altri lavori precedenti – è uno spazio di vita già esperito che rinnova la propria forza e necessità di esistere tornando in uno stato di latenza e indeterminazione. Alla pressione esercitata da questa scultura fa da contrappunto lo slancio verso l’alto dell’installazione Hölderlin Paradise, in cui sette cerchi di vetro materializzano un movimento di aspirazione e liberazione dalla materia, un vortice di vuoto che sale portando con sé fragili fiori di terracotta appena sporcati da impercettibili tracce di terra verde di Nicosia.

Nella grande carta Il cielo è a tal punto mentale l’artista utilizza la medesima tonalità spirituale, la stessa che ricorre nelle decorazioni delle moschee islamiche, per disegnare un cerchio vuoto centrale contornato da fiori e macchie di sangue, libera derivazione del Noli me tangere affrescato da Beato Angelico nel convento di San Marco, dove dalle ferite del Cristo risorto apparso alla Maddalena sgorgano gocce di sangue che, toccando terra, si trasformano in fiori. Nella reinterpretazione in chiave astratta di Gregorio Botta il sacrificio, che nella dottrina cristiana irrora il mondo e lo rende fertile, diventa ascetica evocazione di sofferenza nell’ambito di un percorso individuale di accettazione del dolore universale. Analoghe suggestioni visive e concettuali si ritrovano nella preziosa collezione di Veroniche esposte nello studio della galleria, una serie di piccoli lavori fatti anch’essi di stratificazioni di carte semi-trasparenti con inserti di sangue, oro e foglie che giocano con la presenza sfuggente di un’immagine sempre velata che, pur premendo per emergere in superficie, non è mai pienamente rivelata allo sguardo.

Nell’indefinito senso di sacralità laica che promana dai lavori in mostra si fondono gli interrogativi esistenziali che da sempre attanagliano l’uomo e la riflessione poetica dell’artista sulla trascendenza della forma intesa come strumento che permette di entrare in relazione con ciò che non si può definire mantenendone intatta la complessità. “Ciò che è nitido e perfetto è morto, mentre ciò che deve ancora compiersi è vivo” racconta Botta di fronte alle sue carte, suggerendo come la sua ricerca sempre più appassionata e sottile delle possibili soglie dell’altrove abbia a che fare con un’incessante riconciliazione di tensioni contrastanti in cui l’opera è chiamata ad avere un peso per diventare eterea, a essere diaframma per farsi tramite di rivelazioni e a incarnarsi in un corpo proprio per potersene liberare.

[1] G.Botta, Just Measuring Unconsciousness, catalogo della mostra, Galleria Nazionale di Roma, Silvana Editoriale, Milano 2020, p. 13.

Info:

Gregorio Botta. Breathe Out
con un testo di Marinella Paderni
01.10 – 13.11.2021
Galleria Studio G7
Via Val D’Aposa 4A, 40123, Bologna

Gregorio Botta, Breathe Out, 2021, exhibition view, Courtesy l’Artista e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Alessandro Fiamingo

Gregorio Botta, Senza Titolo, 2021, vetro, lino, cera, pigmenti, ferro, cm 45×189,5×4,5, Courtesy l’Artista e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Alessandro Fiamingo

Gregorio Botta, Hölderlin Paradise, 2021, dischi di vetro, argilla, diametro cm 34 cad., dimensioni variabili, Courtesy l’Artista e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Alessandro Fiamingo

Gregorio Botta, Breathe Out, 2021, exhibition view, Courtesy l’Artista e Galleria Studio G7, Bologna. Foto Alessandro Fiamingo


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