L’arte mette in disordine la vita e mai come oggi l’arte sembra aver preso i caratteri di un dramma grottesco, futile, crudele ma anche passionale, dove le cose non sono come appaiono e la bellezza è difficile, per usare un’espressione di Ezra Pound. Nel caso di Greta Bisandola, artista che vive e lavora a Padova, la bellezza consiste non solo nella “mano”, nell’abilità di realizzazione di opere d’arte figurativa, nel rendere il lavoro compiuto un carattere. La ricerca di Greta Bisandola infatti ruota intorno ai volti e ai corpi, dove l’immagine è la protagonista indiscussa, custode di mistero, significati e verità, verità che l’artista veneta cerca di afferrare attraverso la stratificazione della memoria e dei moti dell’animo dell’essere umano, senza seguire, come lei stessa afferma, un preciso progetto, decollando da un terreno di incertezza per offrire un’esperienza condivisibile, intensificando e distanziando le cose. Bisandola dunque realizza l’antico compito dell’arte, la quale “fa spazio e tempo” dando grande importanza al caso, spesso foriero di verità.
Indagando sull’uomo, ritraendo figure, la pittrice di Monselice indaga sulla pittura in quanto materia, e sul vuoto che ha lasciato lo svuotamento di significato dell’immagine, abbandonandosi alle visioni dell’inconscio, alla casualità, ai “mostri” rappresentati sulla tela: animi spossati senza status, né storia imprigionati in aspetti sgradevoli, distorti, disturbanti, tra i quali spiccano anche alcuni autoritratti della Bisandola.
Accostata a pittori come Schiele, Turner, Freud, Bisandola si sente più vicina al nipote del celebre psicoanalista, per quanto riguarda la pratica del tempo, rappresentando ciò che c’è oltre il visibile e il percepibile, oltre la deformità dei visi e dei corpi, oltre l’apparente ironia che cela la paura del non bello in quanto armonioso, sano, cercando sempre di preservare la propria identità.
Greta Bisandola ha esordito nel 2010 con una mostra personale a Palazzo Durini, Milano. Altre personali le sono state dedicate a Bassano del Grappa, Torino, Berlino, e contemporaneamente ha partecipato a diverse collettive sia in Italia che in Germania. In cantiere ci sono una collettiva al Museo Diocesano di Padova e una personale alla collezione The Bank di Bassano.
La deformità che spesso infligge ai volti e ai corpi dei soggetti delle sue opere sembra voler far emergere la sofferenza e la complessità cerebrale ed emotiva dell’essere umano, è corretta questa chiave di lettura?
Del mio lavoro, purtroppo, non possiedo la chiave e non vi è alcun intento se non quello di trovare delle corrispondenze che durante l’esecuzione si traducono soltanto in un piacere per gli occhi. Quindi io non conosco il segreto dei miei personaggi. Però posso dire che attraverso l’umano cerco di indagare la pittura. La complessità dell’umano affianca la complessità della pittura, ma sono due entità separate in un certo senso. Dipingere significa per me innanzitutto avere un’esperienza fisica con la materia. Il volto e il corpo sono grandi contenitori in tal senso.
In questo senso che significato assume per Lei, l’identità?
Sono molto legata alla figura, alla pittura quindi figurativa, anche se per me oggi l’immagine si è svuotata di tutto, non è più portatrice di un significato. Ed è proprio questo vuoto che mi interessa. C’è un sovrappiù nel lavoro dei volti che ho realizzato fino ad oggi che tenta di creare delle fratture interne alla forma per poter parlare di qualche cosa d’altro. L’identità dei miei soggetti è in eccedenza e sopra le righe, nel tentativo di frantumare sé stessa. Vuole frantumarsi perché in realtà non accetta misura, non vuole “un’identità”, vuole tutto, aspira all’infinito e quindi non può contenersi. Il soggetto si apre e insegue la materia perché è viva e si muove, è lei che rappresenta l’identità del reale, perché il mondo non aderisce mai al nostro schema. La pittura invece è materia ed è mondo.
Quando ha iniziato a dipingere e perché?
Ero una bambina, prima ho cominciato a disegnare, poi a dipingere. Il principio di tutto è un ricordo lontanissimo, una lunga strada ricca di esperienze e cambiamenti continui. Come spiegare perché una cosa accende tanta passione e ti chiama continuamente a sè, come una voce nella testa? Dipingo perché questo è il mio desiderio singolare, è il mio controcanto, forse è un atto prevaricatore nel tentativo di affermarmi. Nel desiderio c’è qualcosa che ancora non è stato scritto, qualcosa che non è ancora accaduto ma che spera di farlo, che verrà. Dunque dipingo per gettarmi in avanti con la paura che mi caratterizza perché, prendendo spunto da un’intervista a Giacometti, mi piace l’avventura.
La sua è una pittura turbolenta, tuttavia dopo aver terminato un’opera, si sente appagata dal suo lavoro, in armonia con sé stessa?
Certo, è questo il fine ultimo, sentirmi assolutamente appagata. Quando un’opera termina mi sento compiuta e nel posto giusto.
In “Luce propria”, ha messo in evidenza anche il suo volto, è una sorta di atto di pacificazione, un desiderio di svelarsi?
Quando dipingo c’è sempre nella mia ricerca un desiderio di svelarsi, ma soprattutto a me stessa. Il lavoro più riuscito è quello che mi separa da me, quello che provoca il mio stupore, mostrandomi qualcosa che non conoscevo e non sapevo di poter fare. Uso spesso il mio volto nei dipinti, è il volto con cui ho più confidenza, quello a portata di mano. Sembrerà incredibile, ma spesso i problemi di un pittore riguardano questioni tecniche.
È stata accomunata a pittori come Lucien Freud, Turner, Bacon… A chi si sente più vicina?
Tra questi Lucian Freud, per la pratica del tempo, e perché mi sembra un “costruttore” di corpi. Fa a pezzi un volto e al tempo stesso lo mantiene unito e solido. Amo quella sua tecnica speciale che diventa un carattere.
L’umanità senza filtri che rappresenta, sfigurata e devastata, scaturisce dalla contingenza storica, contemporanea o dall’essenza stessa dell’essere umano che è immutabile?
Tutto ciò che ci riguarda e che ci circonda come esseri umani, la struttura sociale, le nostre esperienze, quello che siamo senza sapere, si manifesta e fa parte di quello che creiamo, che rimane, tutto sommato, sempre all’interno di un limite tangibile. La contingenza storica contemporanea crea per me delle dicotomie, per questo l’umanità nel mio lavoro non vuole parlare di umanità. È vero che non ci sono filtri, perché in effetti, come già ho accennato, la mia umanità vuole farsi contenitore di tutto il contenibile. Contemplare un vuoto come via d’accesso. Nasce dalla possibilità di non dover più raccontare una storia.
Natura e storia, come si relazionano questi due aspetti con le sue opere?
La storia è tutto ciò che conosciamo, ci caratterizza nostro malgrado ed è materiale da cui, per forza di cose, anch’io sento di dover attingere in qualche modo per poter andare avanti. La natura invece, nel mio lavoro, è sentita come un processo, una metamorfosi, uno spazio di riposo ma in movimento, dove la gestualità è forse più autentica, più facile. Mi sembra che si manifesti nelle mie opere in maniera isolata, ritagliata, alla pari con il resto, non crea mai un ambiente.
Secondo Lei, sulla scia del pensiero di Benjamin, l’opera d’arte oggi più che mai si afferma come rovina lasciando cadere ogni residuo di bellezza? Il bello appare come un fossile di un’epoca lontana?
La parola “bellezza” ha un carattere oggettivo, sembra parlare di un’armonia condivisa da tutti allo stesso modo. Sembra riferirsi sempre ad un modello consolidato. In più è costretta a raccontare una storia legata indissolubilmente al suo aspetto, alla sua forma come perfetta coincidenza di sé stessa, uno stretto involucro paralizzante. Oggi il brutto si fa bello perché la stortura è una tensione viva verso il reale, l’immagine non vuole raccontarsi così com’è, ma cerca altrove. Perché il compito dell’arte è rendere visibile l’invisibile, è la trascendenza. Anche la pittura figurativa sente questa necessità ecco perché in qualche modo si deforma. L’arte è vita, e la vita ha che fare con l’evento, ci coglie di sorpresa, ci sovrasta e trascina, non è condivisibile, è singolare, è unico.
Le sue opere “fanno tempo”, portano a maturazione il percepibile, realizzando l’antico compito dell’arte, si sente parte di questa mission?
Nel fare arte contemporaneo c’è un’individualità che pone l’artista solo al centro di sé stesso, di un proprio bisogno, di una propria necessità incomprensibile in qualche modo. Questo forse soprattutto in pittura. La speranza è comunque quella di lasciare qualcosa che duri nel tempo, un oggetto dotato di una certa autonomia, almeno per quanto mi riguarda, che possa ad un certo punto essere convalidata. Ma l’oggetto riuscito anche solo per chi l’ha costruito, basta e avanza, in questo senso il fare artistico è una faccenda maledettamente privata.
Progetti in cantiere e desideri da realizzare?
In cantiere ho qualche mostra, prossimamente una collettiva al Museo Diocesano di Padova e più avanti una personale alla collezione The Bank di Bassano. Il desiderio è quello di continuare a dipingere.
Info:
Greta Bisandola. Ph. credit Andrea Rosset
Greta Bisandola, Il Bambino, 90 x 90 cm, 2019, olio su tela
Greta Bisandola, Madre, 80 x 80 cm, 2014, olio su tela
Greta Bisandola, Pauline, 50 x 50 cm, 2011, olio su tela
Greta Bisandola, Sottogiardino, 40 x 70 cm, 2014 olio su tela
Greta Bisandola, Esercizio, 50 x 50 cm, 2013 olio su tela
Giornalista, blogger e social media editor campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte e organizzazione di eventi culturali. Amo il cinema, l’arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Leggo molto, sia narrativa che saggistica. Condivido il pensiero di Picasso sull’arte: “L’arte ci aiuta a riconoscere la verità”.
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