Talvolta gli artisti, durante il processo di creazione dell’opera, vengono ispirati da intuizioni intelligibili, mentre in altri casi i quadri rappresentano solo quello che sembrano. Nel caso delle opere di Mark Rothko, in qualunque epoca le si prenda in esame, esse celano sempre un significato profondo, benché l’autore si sia sottratto a qualunque interpretazione nascosta. «Egli voleva semplicemente che il visitatore guardasse, che fosse presente, di fronte all’opera», così descrive il sentire di Mark Rothko, suo figlio Christopher, psicologo e scrittore, relativamente allo stato d’animo del padre durante il processo creativo.
Una fase artistica lunga e combattuta che viene delineata a tutto tondo dalla straordinaria mostra curata da Suzanne Pagé, visitabile alla Fondation Louis Vuitton di Parigi fino al 2 aprile 2024, dal minimale titolo “Mark Rothko”. Le opere dell’artista, collocabili temporalmente nella fase iniziale della sua carriera, erano acquerelli dalle figure allungate, tenui e sbiaditi che tanto richiamavano alla mente le sculture di Giacometti. L’evidente connubio tra le forme dei due artisti viene sottolineato anche dal fatto che siano esposte le opere di Giacometti, che Rothko stesso aveva immaginato di presentare nell’ambito di un allestimento che avrebbe dovuto effettuare per il nuovo padiglione parigino dell’Unesco. Le statue dialogano con i quadri più scuri e tetri dell’opera del pittore, quelli che una sommaria ricostruzione biografica riconduce ai periodi più bui della vita di Rothko, ma che a ben guardare rappresentano anche, a prescindere dallo stato d’animo combattuto e tumultuoso del pittore in quel periodo, l’evoluzione narrativa della ricerca da egli compiuta fin dall’inizio.
In definitiva Rothko fu sempre un combattente e un contestatore, un uomo dall’intelligenza vivace, dimostrata fin dai suoi studi a Yale, capace di rinunciare a una carriera precostituita e di cercare la sua strada. Un pittore tormentato che non si nascondeva e affrontava le ingiustizie di cui era vittima, facendo sentire la sua voce. Così avvenne quando decise di lasciare il sindacato, di cui faceva attivamente parte, per aderire al movimento No Blackout Art, secondo il quale la guerra al Nazismo doveva essere combattuta da ciascuno, con l’obbligo sociale di lottare per la propria libertà. Risulta ineludibile in questa fase mettere in evidenza quanto il fatto che egli fosse stato figlio di immigrati russi di origini ebree, lo abbia sempre legato alla Shoah e quanto tutte le riflessioni che egli possa aver compiuto in quell’America, così apparentemente ospitale e piena di possibilità per gli artisti anche stranieri, in realtà stimolavano una resistenza, neanche troppo celata, alle correnti pittoriche più eteree e lontane dai suoi riferimenti culturali.
Proprio in quell’America che gli aveva permesso di iniziare la sua carriera partecipando al progetto Federal Art Project con il quale si sovvenzionavano in pieno New Deal gli artisti emergenti, permettendo loro di sperimentare la loro arte innovativa, l’antisemitismo dilagava e per evitare di essere etichettato come parte della cultura ebraica invisa in quel momento, Mark Rothkovich decise di cambiare il proprio cognome in Rothko, come moltissimi immigrati della sua generazione. La ribellione fu pertanto ostacolata dalla voglia di affermazione e il fatto di essere entrato a far parte de “Gli irascibili”, come testimoniato dalla memorabile foto in cui appare con lo sguardo sghembo e laterale rispetto all’obiettivo, guardando di traverso la macchina fotografica, denota come si sentisse marginale in quel gruppo. Nella prima parte della sua ricerca artistica, i suoi riferimenti pittorici furono rivolti ai Surrealisti quali Ernst, de Chirico, Mirò, ispirando le “Subway Series”, una serie di quadri che prendendo spunto dalla metropolitana di New York, delineavano figure sottili e volti inquietanti. L’evoluzione successiva e fisiologica, figlia del cambiamento storico, del clima di perdita di valori e del dilagare della guerra, lo fece poi aderire ai Myth Makers, una corrente pittorica ispirata dai miti greci e dalla cultura primitiva, a cui appartenevano anche personaggi come Pollock o Gottlieb. Il riferimento alla pittura primitiva, soprattutto nella modalità di realizzazione dei colori, rimarrà la cifra di Rothko per tutta la sua carriera.
L’utilizzo di pigmenti secchi a cui mescolava un gran numero di additivi, alcuni dei quali restano ancora oscuri, il ripassare i colori dopo la fase dell’asciugatura per attribuire lucentezza e spessore alla texture, resta il modus operandi caratteristico dell’artista. Nella parte finale della sua carriera i “Multiformi”, quadri suddivisi in due o tre colori intensi, a volte intervallati da colori neutri, che spezzano la nuance dominante, totalizzano i suoi lavori. L’uso delle tonalità cambia di netto, virando dai colori caldi come l’arancio e il rosso, al blu intenso, nero e poco bianco. Chi l’ha conosciuto profondamente, come il figlio Christopher, ci esorta a stare lontano da interpretazioni cervellotiche inerenti alla modalità di pittura e il dissidio interiore che l’artista viveva fino al culmine tragico del suo suicidio. L’unico scopo di Rothko era quello di permettere allo spettatore di ripercorrere l’esperienza, che egli stesso provava nel dipingere, comunicando il suo stato d’animo attraverso i colori. Guardando i suoi quadri, seppur influenzati ugualmente da quello che è stato il suo percorso umano e professionale, non si può non ammettere che egli abbia realizzato il suo intento.
Info:
Mark Rothko
18/10/2023 – 2/04/2024
Curatori: Suzanne Pagé et Christopher Rothko con François Michaud e
Ludovic Delalande, Claudia Buizza, Magdalena Gemra, Cordélia de Brosses.
Fondation Louis Vuitton Paris
www.fondationlouisvuitton.fr/en
Globetrotter, appassionata di letteratura, amante dell’arte e della fotografia. Non parto mai per un viaggio senza portare con me un libro di un autore del luogo in cui mi recherò. Sogno da anni di trasferirmi a Parigi e prima o poi lo farò!
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