Cultura del software e sistema dell’arte
Sino ai primi anni del Duemila la videoarte (e più in generale qualsiasi produzione audiovisiva) era legata a realizzazioni artistiche di autori impegnati principalmente nella produzione di opere oggettuali da esporre in galleria. Con la digitalizzazione di tutti i segnali analogici, e la conseguente nascita di una specifica cultura del software, negli ultimi dieci anni si è andata precisando sempre più una nuova figura d’artista che si dedica esclusivamente alle produzioni audiovisive, ma spesso proviene da discipline espressive affatto diverse come la performance, il teatro, la danza, l’animazione, la grafica, la fotografia e il cinema, amalgamate, per la prima volta, in prodotti ibridi di difficile collocazione sistematica.
Questa nuova figura d’artista è ancora del tutto marginale e poco valorizzata nel sistema distributivo dell’arte contemporanea. Le opere finiscono con l’essere fruite e divulgate solo su piattaforme digitali in rete ed esposte in festival dedicati ai molteplici aspetti dell’audiovisivo, dalla video arte ai corti cinematografici ai documentari, sottolineando in questo modo la difficoltà che il sistema dell’arte manifesta nel considerare arte tout court questa tipologia di progetti.
In maniera del tutto casuale e in forme improvvisate, alcune gallerie interessate alla promozione degli audiovisivi stanno cercando una modalità sicura di immettere sul mercato opere di questo tipo. Il collezionista, per contro, teme il rischio della divulgazione delle opere ormai esclusivamente prodotte su supporti digitali vedendo vanificato il capitale investito nell’acquisto degli audiovisivi.
La critica dedicata alla ricerca su queste forme d’arte non esce da una logica di studio accademico, e il curatore, nel suo ruolo di mediatore economico tra pubblico e galleria, non esplica alcuna efficacia. Il risultato è che una potenziale fetta di mercato resta inutilizzata poiché manca una normativa di settore, un corpus convenzionale e tecnico, una disciplina che definisca un atteggiamento condiviso che possa valorizzare sul piano economico un sempre più vasto settore produttivo.
Disciplinare il rapporto tra questa tipologia di opere, e la loro immissione sicura nel mercato, implica inoltre una migliore definizione delle figure del critico e del curatore, che dovranno assumere piuttosto le mansioni di un perito che garantisca autenticità e qualità dell’opera, svincolandosi dalla mera promozione aziendale delle gallerie e porsi come garante dell’operato artistico.
Alla ricerca di un nuovo standard economico utile alla promozione della cultura del software nel sistema dell’arte, dovrà affiancarsi un nuovo standard nella archiviazione, catalogazione e fruizione delle opere audiovisive digitali. In questo frangente credo che i vari festival dedicati alla videoarte nel nostro Paese, possano rappresentare attualmente un modello diffuso di archivio che potrebbe persino consorziarsi e condividere dati sensibili relativi ad opere e autori al fine di giungere a un quadro omogeneo, seppur dinamico, della videoarte.
Dobbiamo inoltre considerare che almeno tre fattori hanno condotto questa forma d’arte a una sostanziale autonomia anche come genere: a) la digitalizzazione dei segnali analogici e la conseguente egemonia del software a larga diffusione; b) la convergenza di più discipline artistiche al suo interno; c) il festival e la rassegna museale come canali distributivi privilegiati a fronte del simultaneo abbandono del sistema dell’arte tradizionale nel rapporto galleria-collezionista.
In merito al punto c) dobbiamo porre in rilievo una caratteristica fondamentale della digitalizzazione ovvero la possibilità di divulgare capillarmente i prodotti audiovisivi grazie a Internet. Se, da un lato, tale opportunità rappresenta un vantaggio dal punto di vista della promozione del lavoro videoartistico, spesso esposto su siti personali o piattaforme dedicate come Vimeo o Youtube, dall’altro rappresenta un grave limite alla commerciabilità e alla vendita di opere in video; da qui nasce il progressivo disinteresse del sistema distributivo tradizionale che prevede il rapporto tra galleria e collezionismo con la mediazione di un critico o curatore.
Tale fenomeno ha spinto il videoartista verso festival dedicati agli audiovisivi in generale e in particolare alle opere in video, generando una moltiplicazione esponenziale di rassegne internazionali che presentano assortite sperimentazioni le quali coinvolgono dispositivi e linguaggi di varia natura, senza anteporre criteri selettivi di carattere curatoriale: temi, metafore, o sistematiche arbitrarie, lasciando completa libertà espressiva all’artista e permettendo al critico ricercatore di avere un realistico spaccato delle produzioni audiovisive per come si manifestano oggettivamente. Paradossalmente, è proprio l’abbandono del sistema dell’arte contemporanea a portare la videoarte alla sua completa autonomia espressiva e alla sua nascita come genere a sé stante.
Piero Deggiovanni
Désirée Nakouzi De Monte-Andrea Parenti, Super tasty fatty motor. Kabuki YOOOO!, 2018
APOTROPIA, Timepulse, 2017
Armenia e Sathyan Rizzo, Acta Barbatiani, 2017
Audrey Coïaniz, Linea d’ Onda, 2018
Dehors-Audela, Vacuum, 2018
Piero Deggiovanni (Lugo, 1957) è docente di Storia dell’arte contemporanea e di Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al LABA di Rimini. È critico e ricercatore nell’ambito dell’arte contemporanea, membro del comitato scientifico del Videoart Yearbook dell’Università di Bologna. Da diversi anni si dedica esclusivamente alla ricerca, concentrandosi sulla videoarte e il cinema sperimentale.
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