Racconta Sartre che un certo Antoine Roquentin godesse moltissimo a infilare le mani in impasti vischiosi e mollicci, ma che restasse sconvolto dal toccare un ciottolo duro, provando una nausea, nelle mani, per il tangibile. Il filosofo de La Nausée ci presentava così un personaggio che, nell’ordine dell’immaginazione materiale, non potendo accedere al ‘solidismo’, non avrebbe mai potuto mantenere nella vita un’attitudine ferma e integra. Solo un paranoico emarginato.
Ora nella sala principale di Hyperballad – bipersonale di Vittorio Zeppillo e Davide Quartucci alle Officine Brandimarte curata da Benedetta Monti – si aggirano alcuni personaggi di Davide in uno scenario paludoso: un uomo in mutande (Fishing day). Gambe spalancate, tra cui si tiene in mano la ‘canna da pesca’ per pescare dentro una latta dove resta solo un guazzetto di acqua sporca di vecchie acciughe. E lui stesso è seduto a marcire, a decomporre la sua carne bitorzoluta di poliuretano nell’attesa senza un fine. Di fronte, stivali da pioggia gialli infangati (Yellow rain boots), vuoti. Forse tutto ciò che resterà del pescatore maniaco. Ancora un uomo, in video (Puddles game), anche lui stivali e mutande, corpo di lumacone flaccido, rantola nel fango spargendo urletti e risa demenziali per tutta la sala-palude. Avviciniamo allora l’immaginario di Davide a quello di un universo filosofico dove la materia è rivelatrice dell’essere, ovvero, dove si racconta la scoperta dell’assurdità dell’esistenza umana attraverso il rapporto col materiale.
In particolare la relazione con il vischioso, che Sartre nell’ultima sezione de L’Être et le néant (1943) definisce come manifestazione qualitativa dell’essere, rivela tutta l’essenza dell’individuo attraverso i desideri e le intenzioni da esso suscitate. Così i pescatori derelitti esprimono il pieno della loro vocazione nel contatto con quel fango, che fuori dal simbolico è merda, e ne prendono le sembianze perché il vischioso chiama il vischioso, lo riconosce e lo assume in sé quando lo incontra. Specificando, però, che questa metafisica del materiale non parla di una corrispondenza a priori. La relazione con la materia rivela non ciò che si è, ma un desiderio e una volontà di divenire. Con le parole di Sartre, «il progetto di essere»[1]. In questo caso, di essere rivoltante. Fare schifo, annegare nel fango, sprezzanti, non stare dritti, non essere giusti, se la giustizia è quella dell’Uomo Padre. E, piuttosto, marcire sotto il sole.
Per effetto specchio, repulsione e disagio è anche il sentire dello spettatore a causa di questa prossimità: così anche davanti ai corpi suicidari nei dipinti di Vittorio, (come in Residui di un trampoliere -avvio di un corpo drogato-), nella loro precarietà visiva e nel loro inaccettabile infliggersi il male e la storpiatura, «si rivolge a noi e ci mostra la lingua qualcosa di privo di cura, che, mentre brama il nostro essere, attesta col suo ghigno beffardo la nostra incancellabile affinità con questa roba perversa»[2]. Una compenetrazione e confusione senza freni, l’incancellabile somiglianza tra il disgustato e il disgustoso, in un’esperienza in cui ‘il disgustoso’ appare nella sua intima essenza: ovvero vita che annuncia in sé un’intenzione di morte. Si può pensare, seguendo la fenomenologia del disgustoso tracciata da Aurel Kolnai[3], che per questi individui il disfacimento sia una scelta vitalistica, di libertà e quindi di diversità e solitudine, perché più radicalmente, la scomoda verità del disgustoso sta nel fatto che rispecchia l’umana inconfessabile intenzione di morte: «la vita – la nostra stessa vita– è intrinsecamente desiderio di morte e, per ciò stesso, sempre pronta alla decomposizione»[4]. Un ultimo personaggio su tela, tremulo e grottesco, ancora di Davide, (Reverie no.2) è un merlo. Osserva la scena della palude. Ricorda quegli altri famosi pennuti letterari come il corvo di Pasolini o il pappagallo della Gerusalemme[5] che, appollaiati a lato del dramma, fanno le veci della coscienza. Discendendo tutti dal topos della lettura del fato negli uccelli[6], la loro presenza è ancora un monito su una fine imminente, ma tragicomica.
È poi possibile scendere un po’ più sotto, a livello narrativo, nell’inconscio dell’edificio, dove sono sepolti i desideri repressi ma non rimossi; come a uno stadio della coscienza precedente a quello che riguardava gli adulti di sopra, dei quali la devianza è ormai accettata e resa pubblica. Qui è l’intervento site-specific di Vittorio Zeppillo sui vecchi macchinari dell’ex Officina edile Brandimarte, e questa zona la chiameremo ‘del tempo sospeso’. Da una parte perché c’è un ragionamento sulle contro-verità di un mondo in cui predomina un modo di produzione che spinge sul progresso e sul continuo aggiornamento, ma che siede per questo su un cumulo di antimerci nascoste – qui letteralmente – nel buio. Macchine obsolete e soprattutto orfane. Con Ehy dad, whatch me play hard, queste chiamano proprio in causa un padre. Su di loro Vittorio innesta braccia e mani di cera dall’aspetto fragile e flagellato, reso con le venature bluastre tipiche della carne vecchia.
Ma queste macchine bloccate nel passato, come si è detto, sono riattivate attraverso un inconscio infantile polimorfo e perverso [7]: la loro è un’attitudine edonistica e masochista che sta nel desiderio, inattuato, di potersi ferire posando quelle mani sulla vecchia ferraglia pericolosa, che però, strutturalmente, è il loro stesso corpo. Sembra allora un masochismo inviluppato, che non presume una relazione con un altro; più simile invece ad una masturbazione, rispetto alla quale è chiesto al proprio padre di stare a guardare. Di guardare mentre ci si fa del male. Un po’ per ripicca, un po’ perché, forse, papà, mi salverai. Ma anche in questo il tempo è sospeso; le macchine sono state spente per sempre; il bambino perverso è cresciuto e ha represso, non ha mai espresso, quel desiderio di piacere e morte inaccettabile, da cui tu, padre, hai sempre cercato invece di rifuggire. «La morte che si annuncia nella vita ha già vinto la sua battaglia e di questa vittoria viviamo angosciati l’inquietante non ancora»[8].
Arianna Tremolanti
[1] Sartre, J.-P., L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Parigi, Gallimard, (1943) 2019. Sartre, J.-P., L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, Milano, Il Saggiatore, (1964) 2014, p. 642.
[2] A. Kolnai, “Der Ekel”, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, X, 1929, p. 555. trad. it. di Marco Tedeschini.
[3] In ‘Der Ekel’, trad. it. ‘il disgusto’, 1929.
[4] Ivi, pp. 558-559. trad. it. di Marco Tedeschini.
[5] Si fa qui riferimento al corvo parlante da P.P. Pasolini, Uccellaci Uccellini, 1966; il pappagallo parlante nel giardino di Armida, in Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, 1581.
[6] Ovvero degli àuguri romani, da cui gli uccelli del malaugurio.
[7] Da intendere alla lettera: per Freud, il bambino è perverso in quanto ricerca il piacere senza alcuna finalità riproduttiva, e polimorfo, poiché ricerca il piacere attraverso vari organi e tramite diverse zone erogene. Nell’installazione in questione, è in ballo un piacere relativo alle mani, nel loro contatto con macchinari pericolosi e potenzialmente mortali, così come suggerito dal titolo ‘[…] play hard’.
[8] M. Tedeschini, “At a Spit’s Distance”: Disgust and Fear in Aurel Kolnai and Jean-Paul Sartre, Itinera, N. 12, 2016, p.49.
Info:
Vittorio Zeppillo e Davide Quartucci. Hyperballad
a cura di Benedetta Monti
29/04/2023 – 17/06/2023
Officine Brandimarte
Via Bengasi 6, Ascoli Piceno
is a contemporary art magazine since 1980
NO COMMENT