“I Wish It Was Mine (avrei voluto che fosse mio o averlo creato creato io)”, afferma Ivan Moudov guardando le opere degli artisti che ha selezionato e invitato alla mostra collettiva alla galleria Alberta Pane di Venezia, visibile fino al 29 luglio 2023. La mostra, con opere di Claire Fontaine, Gelitin, Miná Minov, Alban Muja, Anri Sala, Selma Selman, Ulay e lo stesso Ivan Moudov in veste d’artista, è un mezzo per svelare la precarietà delle certezze dei visitatori e farli riflettere sulla nozione di desiderio. Il punto di partenza è la sua opera site-specific The One Minute Stalker, posta nel corridoio d’ingresso; ma il film di Andrej Tarkovskij del 1979 è un pretesto per entrare in contatto diretto con le opere, dislocate su 300mq, e scoprire come sia facile vacillare quando ci si mette in discussione come individui. La mostra è al contempo un’opera a sé stante dell’artista bulgaro, ma anche un’esperienza corale, sempre aperta a nuove riscritture. A patto che non ci si prenda troppo sul serio.
Eugenia Pacelli: Tra il desiderio di aver avuto l’intuizione dell’oggetto e quello di possederlo, quale pensi che prevalga?
Ivan Moudov: Direi che si tratta sicuramente del desiderio di essere stati i primi a creare l’opera, o di identificarsi con l’opera in modo da sentirsi in intimità con essa.
Nella tua serie “First, Admit You Have a Problem” (2019) hai già riflettuto sull’idea del collezionismo come patologia, offrendo pillole omeopatiche per guarire. Cosa pensi dell’atto del collezionare?
È come tracciare un parallelo con lo shopping terapeutico. Non credo che il desiderio di possedere sia appagante. Ma quando si entra in contatto con un’opera, questa può innescare una vera trasformazione.
Tu collezioni? Quanto è importante il rapporto con gli altri artisti?
Sono un artista e credo che gli artisti collezionino in modi diversi. Sono molto più importanti lo scambio e l’interazione reciproca. Ho una serie di opere realizzate proprio per lo scambio. Ho anche un’opera chiamata “The Romanian Trick”, il cui scopo è raccogliere fondi per acquistare opere d’arte. Ma molto spesso mi piace collezionare lavori che vorrei fossero stati realizzati da me. C’è un po’ di invidia e di ammirazione, più che di intuizione.
La tua idea sarebbe quella di guidare i visitatori attraverso la “Zona” alla ricerca della “Stanza”, prendendo spunto dal film di Tarkovskij. Cosa speri che trovino? Pensi che avranno il coraggio di confrontarsi con i desideri più reconditi, ovvero di “abbracciare l’ignoto”, per usare le tue parole?
Questa potrebbe essere l’idea stessa dell’Arte, no? Ecco perché mi affascinava tanto usare “La Stanza” come metafora. Volevo trasformare la galleria in uno spazio in cui confrontarsi con i propri desideri reconditi.
All’inizio pensavi di scrivere il comunicato stampa della mostra con l’AI, in particolare con la chat GPT. Da dove è nata questa idea? Perché poi hai deciso di non farlo?
Ho usato la Chat GPT per il testo di una mostra che ho organizzato a Sofia all’inizio dell’anno e ha funzionato abbastanza bene, ma si trattava di dipinti e in quel caso particolare non avevano bisogno di alcun contesto. In risposta, un critico d’arte ha scritto una recensione sulla mostra utilizzando Chat GPT e ho pensato che fosse un ottimo riscontro. Questa mostra aveva bisogno di essere contestualizzata e Chat GPT non è il massimo per questo. Se si devono scrivere domande molto precise per generare qualcosa di buono, ci si rende conto dei suoi limiti. Nell’ultimo mese è diventato abbastanza comune utilizzarlo per i comunicati stampa, ma quando ci ho pensato inizialmente non l’avevo visto da nessuna parte. Ora è un esperimento superato.
Quanto è importante la protesta nella ricerca della propria identità? Quanto la partecipazione?
Questo è molto individuale. Selma Selman fa parte della minoranza più oppressa con cui sono stato personalmente in contatto e Alban Muja è segnato dal dopoguerra nel suo Paese. Tutte queste opere contano sulla partecipazione. Per Miná Minov è parte dell’opera. Per Ulay è parte della storia e nel lavoro di Selma la partecipazione è una conseguenza perché ci si ritrova ipnotizzati.
Molte delle opere in mostra trattano la nozione di tempo e di durata. In che modo la percezione mentale del tempo può essere ingannevole?
Non ho tempo per questa domanda.
Consideri questa mostra come un’opera in sé? Se sì, in che misura?
Sono un artista, non un curatore e non un gallerista, quindi tutto ciò che faccio lo affronto come un’opera. Mi piace scherzare sul fatto che questa mostra sia una sorta di personale, perché immagino che tutte le opere siano mie.
Eugenia Pacelli
Info :
I Wish It Was Mine
Artists: Claire Fontaine, Gelitin, Miná Minov, Ivan Moudov, Alban Muja, Anri Sala, Selma Selman, Ulay
Fino al 29 luglio 2023
Galleria Alberta Pane
Dorsoduro 2403H
Calle dei Guardiani, Venezia
www.albertapane.com
is a contemporary art magazine since 1980
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