Il termine “icona” nasce con un’accezione religiosa e nella tradizione cristiana diventa simbolo di venerazione della figura di Dio o di qualsivoglia immagine sacra. Oggi il termine viene utilizzato in diversi contesti e ha assunto nuovi significati, destando curiosità anche nell’arte contemporanea che ha gettato una nuova luce sul fenomeno iconoclastico, sia odierno e sia passato.
La mostra Icons alla Boghossian Foundation di Bruxelles racconta, senza voler essere esaustiva, la storia e il fascino che il processo di sacralizzazione di un’immagine ancora oggi detiene nella storia dell’arte.
Nella Sala Principale di Villa Empain la cantante Lio appare ritratta dal duo Pierre et Gilles in Virgin of Pain in Our Lady with a Wounded Heart (1991) come una effigie da adorare mentre al primo piano della mostra il cantante Stromae viene presentato come Cristo inserito in una mandorla. Wim Delvoye in Untitled (Icon) (2014) – opera concepita per una mostra a Mosca e poi rifiutata dal curatore perché considerata blasfema – contrappone alla rappresentazione tradizionale religiosa la cultura popolare, estrapolando e decontestualizzando alcuni fotogrammi presi dal videoclip “Blurred Lines” di Pharrel Williams e Robin Thicke. Yan Pei-Ming si distanzia invece dal ritratto dai toni pop e utilizza una palette ristretta di colori come nella tela appositamente realizzata in occasione della mostra e dedicata a Deng Xiaoping, una figura simbolo di libertà e molto cara all’artista stesso. Andy Warhol nel ritratto di Queen Beatrix of the Netherlands (1985) rappresenta una delle quattro regine che governavano al tempo.
Oggi chiunque o qualsiasi cosa può diventare un’icona. Duane Hanson ritrae persone comuni intente a svolgere alcune attività come in Window Washer (1984) mentre Annette Messager denuncia gli stereotipi di genere legati alla figura della donna utilizzando nelle sue opere tecniche o elementi associati al mondo domestico come in Icon (2013), una rete nera posta sulle scale che invita lo spettatore a visitare i piani superiori della mostra. La ricerca artistica di Ellen Gallagher si concentra sull’identità razziale e gli stereotipi diffusi dai media: in Pomp-Bang (2003) ed eXelento (2004) modifica alcune pubblicità per cosmetici stampate su magazine dedicati a donne afro americane in cui vengono esaltati i canoni di bellezza occidentali.
Mounir Fatmi lavora sulla desacralizzazione degli oggetti e nella serie Presumed innocent (2007-2010) utilizza segmenti di cavo per dare forma all’immagine di Cristo mentre indossa la corona di spine dopo la sentenza di condanna. Anche Titus Kaphar si interroga sulla figura di Dio e si chiede quale sia il suo aspetto: nel dipinto Created in his Likeness (2020), Cristo è ricoperto di nero, lasciando all’immaginazione del visitatore il compito di riempire la parte mancante secondo la propria cultura di appartenenza. Fabrice Samyn in Burning is shining riflette sul legame tra potere e icone e mostra un pannello di legno massiccio ricoperto di foglia d’oro e poi bruciato. Michael Craig-Martin in Headphones (2014) dipinge a grandi dimensioni delle cuffie, elemento parte integrante della nostra società e simbolo del carattere d’isolamento e allo stesso tempo di iperconnessione nel quale viviamo. Nella serie The Never Never Douglas Gordon affianca alla foto del suo braccio destro con tatuato in nero la parola “forever”, quella del suo braccio sinistro con scritto in bianco lo stesso termine ma al contrario: dove finisce la verità in una rappresentazione?
In questa mostra, l’iconoclastia (a differenza del suo significato storico) diviene una ricerca “costruttiva” sulla natura più profonda dell’immagine e sul modo in cui il fruitore interagisce con essa. In The White Lady (1953) di Octave Landuyt i personaggi sono sempre più astratti, rappresentati con volumi semplificati e in pose fisse mentre con Head (1993-1994) l’artista siriana Marwan sottolinea il legame tra terra e identità, trasformando il ritratto in un paesaggio stratificato. Arnulf Rainer in Untitled (1992) con un gioco di sovrapposizioni dipinge più volte una serie di croci come se cercasse una perfezione impossibile da raggiungere. Da più di trent’anni Sarkis porta avanti la sua serie IKON, fotogrammi raccolti nel tempo che l’artista di origine armena rielabora ad acquarello interrogandosi sull’idea di sacralità.
La mostra si chiude con Dasani (2020) di Bertrand Lavier, una piastra di alluminio cosparsa di gel acrilico traslucido, allegoria di una verità sempre sfuggente e nascosta: il titolo si riferisce al tentativo fallimentare della Coca-Cola di lanciare un brand di acqua naturale in Inghilterra.
Le opere in Icons, alla stregua di icone sacre, diventano immagini prototipiche che fanno da ponte tra l’osservatore e una dimensione altra e diventano strumento di riflessione su come i media – presenti e passati – rappresentino il mondo e le sue credenze.
Martina Matteucci
Info:
Icons
a cura di Henri Loyrette
Fino al 24 ottobre 2021
Boghossian Foundation – Villa Empain
Avenue Franklin Roosevelt 67, 1050 Brussels
Icons, installation view, artworks by Wim Delvoye © Lola Pertsowsky, ph courtesy Boghossian Foundation, Bruxelles
Duane Hanson, Window Washer, 1984 © Lola Pertsowsky, ph courtesy Boghossian Foundation, Bruxelles
Yan-Pei Ming, Deng Xiaoping (1904-1997), 2021 © Clérin Morin, ph courtesy Boghossian Foundation, Bruxelles
Laureata in “Comunicazione e didattica dell’arte” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e poi in “Arti Visive e Studi Curatoriali” presso la NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Ha una forte passione per la cultura e l’arte perché crede fortemente siano importanti strumenti di innovazione e rigenerazione sociale. Collabora con diverse riviste e istituzioni del settore.
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