Che la scultura sia l’arte di levare è forse la sua più classica definizione, a partire dalla celebre formula in cui Michelangelo identificava l’atto di liberare dal “soverchio” l’idea platonica insita nella materia grezza nella lotta fisica contro la pietra per renderla ubbidiente all’intelletto. Approcciare la scultura a partire da processi di riduzione e rimozione strettamente connessi al coinvolgimento fisico dell’artista impegnato nella sua realizzazione è presupposto essenziale anche della ricerca di David Adamo, protagonista a KAPPA-NöUN della mostra site-specific “A Bedtime Story”, realizzata in collaborazione con Apalazzo Gallery. Il metodo istintivamente michelangiolesco dello scultore, nato nel 1979 a Rochester (New York) e basato a Berlino dal 2008, fa derivare la simbiosi tra questi due aspetti non tanto dalla volontà di liberare un’idea preesistente al fine di renderla intelligibile, ma dalla necessità, mutuata dalla danza (la disciplina in cui ha esordito come artista), di considerare lo spazio come struttura organica. Se le sue sculture utilizzano vari materiali e tecniche, il filo conduttore che apparenta serie anche molto diverse tra loro è proprio la tensione innescata nello spazio circostante dall’atto di togliere e la sua relazione con il processo creativo, inteso come movimento scandito nel tempo e come applicazione di una forza alla materia per trasformarla in negativo.
Che la scultura sia una trave di legno intagliata fino a mettere a nudo la sua sostanza intima o a rendere il suo esterno un labile diaframma tra il vuoto interno e quello esterno oppure che si tratti del calco in bronzo iperrealistico di un frutto sbucciato o della sola scorza separata dalla polpa, la complementarietà tra ciò che resta e ciò che è stato prelevato (per essere rimosso o disseminato in giro sotto forma di frammenti) costituisce l’essenza dell’oggetto e il suo baricentro. Si potrebbe dire che ogni lavoro dell’artista, indipendentemente dalla tecnica e dalla scala adottata, abbia a che fare con il centro della scultura, da lui individuato nella pericolosa approssimazione al limite della rottura. Quanto più l’equilibrio delle sculture è difficile e precario a causa dell’incisività della rimozione, tanto più risulta ampio lo spazio negativo consegnato all’immaginazione, istigata ad affollare il vuoto di interrogativi. Quello di David Adamo è dunque uno spazio psicologico dove il confine tra vita e lavoro è incerto, essendo il lavoro l’impronta stratificata dell’ossessività ritmica di gesti che scavano nello spazio sistematiche sacche di concavità. Plasmare lo spazio attraverso il proprio corpo è per l’artista aderire al motto di Carl Andre «shifting from form in sculpture to structure in sculpture to what I wound up with as place in sculpture[1]» in un’accezione che pone l’accento su un’idea di scultura attivata dall’interazione con il visitatore, invitato a partecipare sensorialmente all’esperienza visiva, fisica, acustica e anche olfattiva della scultura nel suo farsi. Non è quindi un caso se uno dei materiali più ricorrenti nella sua produzione è il cedro rosso canadese, un legno molto profumato che rilascia nel tempo il suo aroma di resina dopo essere stato scorticato nel processo scultoreo.
David Adamo definisce il proprio studio come una foresta dove «le cose vanno su e giù, si allargano e crescono», un luogo da plasmare con la propria fisicità mettendo sé stesso nel lavoro. «L’unico modo in cui posso farlo – dichiara l’artista – è quando lo sento nelle ossa: quando lavoro con il legno devo lasciare che siano penetrate dal materiale e poi posso iniziare a trovare la forma dall’interno delle mie ossa e creare qualcosa di simile». Ed è proprio una sorta di bosco interiore quello che l’artista ha creato negli spazi di KAPPA-NöUN, dove si è ritirato in un periodo di residenza per produrre i lavori in mostra. L’importanza di concepire le opere come reazione allo spazio, oltre che richiamare il suo giovanile imprinting di danzatore, individua le radici prime della sua produzione nell’alveo della rivoluzione concettuale degli anni ‘60 e ‘70, rispetto alla quale si colloca in un personalissimo punto di convergenza tra pratiche come l’arte processuale, il minimalismo e Antiform, di cui sussume le istanze a lui più affini. In ogni mostra site-specific la sede espositiva è trasformata, di fatto, in un’emanazione del suo studio, all’interno del quale la scultura è agita come una performance che costruisce nuove relazioni tra gli oggetti, lo spazio e i corpi che lo abitano. Anche KAPPA-NöUN, dove l’artista ha realizzato una foresta in cui lo spazio è ritmato da esangui creature araldiche, è disseminato di indizi che rivelano questa identificazione. Anzitutto, acquattato lungo la linea di demarcazione tra una parete e il pavimento, un topolino identico a quello che vive nel suo studio di Berlino e poi, a vegliare la scena dall’alto, due corvi analoghi a quelli che sorvolano le case nel suo quartiere di residenza.
Queste presenze, ricreando un ambiente familiare, funzionano come intermediari emotivi e di scala che introducono il visitatore in un contesto ambientale astratto, dove tra pareti blu oltremare si stagliano verso l’alto sei travi di pino cembro alte fino al soffitto, scarnificate dallo scultore a colpi di accetta fino a renderle labili idee arboree corrose da una luce tutta mentale. Apparentemente instabili nell’equilibrio, devono il loro nuovo baricentro verticale al calibrato approfondirsi delle ferite inferte dall’artista, che ne assottiglia lo spessore finché non sono autosufficienti nel protendersi verso l’alto. Da un lato all’altro del loro schieramento si fronteggiano due evanescenti cavalieri, le cui corazze sono state ridotte dal martello a eleganti sagome picchiettate in cui l’idea dell’armatura e la reminiscenza della persona al suo interno si comprimono in un’entità ulteriore. Tutt’attorno, sparsi sul pavimento, i residui della lavorazione del legno, ciascuno dei quali è la controparte di un segno lasciato dall’accetta nella trave, della cui natura ora ibrida partecipa simbioticamente. Questi cumuli di trucioli quando vengono calpestati diventano un crepitante tappeto sonoro, la cui ricorrenza nel lavoro di David Adamo sottolinea come per lui la fruizione dell’opera implichi, come la sua creazione, un lavoro fisico. Il blu delle pareti che circoscrive le sculture, inducendoci a situarle in un enigmatico bosco di sogno, è un richiamo concettuale al colore di una teca della sala delle armature del Metropolitan Museum di New York dove l’artista ha avuto la prima intuizione di misurarsi con la loro forma ed essenza. L’aspetto più sorprendente di questa mostra (e forse più in generale del lavoro di Adamo) è il fatto che, nonostante la stratificazione di tracce messa in campo sia riconducibile al medesimo assillante intento di intaccare la struttura di un oggetto rimuovendone la funzione, questo processo generi non una serie di moduli simili da leggere in sequenza, ma un’ambientazione inclusiva che immette chi l’attraversa al centro di un sogno lucido dal quale è difficile uscire.
[1] https://www.artforum.com/features/an-interview-with-carl-andre-210546/
Info:
David Adamo. A Bedtime Story
29/01 – 06/04/2024
Visitabile solo su appuntamento contattando: kappanounart@gmail.com
KAPPA-NöUN
Via Imelde Lambertini 5, San Lazzaro di Savena (BO)
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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