Senza alcun dubbio Živko Marušič è un punto fermo della pittura figurativa “slovena”, a partire dal suo esordio, alla fine degli anni Settanta. Ho messo tra virgolette la sua peculiare appartenenza a una tradizione nazionale perché, sebbene per strane vicende della vita sia nato a Colorno, all’inizio degli anni Ottanta aveva il suo atelier a Koper. In quegli anni partecipò da protagonista al rinnovamento culturale che in una Slovenia non ancora affrancata, ma già in odore di una imminente separazione dallo stato centralizzato, era portato avanti da Toni Biloslav e Andrej Medved, il primo in veste di presidente e il secondo di direttore delle Gallerie Costiere. Ma Marušič, prima di fare parte di un sodalizio o di una corrente culturale, è un grande immaginifico, un grande inventore di narrazioni e di ibridi iconografici, qualità intrinseche e connaturate a delle indubbie qualità pittoriche e creative.
Ripercorriamo l’iter del suo lavoro in un dialogo con l’autore.
Negli anni Ottanta tu hai partecipato alle mostre della Nuova Immagine Slovena; che cosa ricordi di quei fermenti e di quel forte desiderio di voler anticipare una caduta dei blocchi fisici che ancora separavano l’Europa in due realtà economiche e politiche?
Il lavoro critico di Andrej Medved fu importante perché diede la possibilità di esporre agli artisti giovani per tutta l’ex Jugoslavia e di avviare anche contatti internazionali. Il tutto con l’aiuto di due storici d’arte: Zvonko Maković (Zagabria) e Ješa Denegri (Belgrado).
Grazie a questa attività di forte rinnovamento tu hai conosciuto Achille Bonito Oliva e sei stato inserito nel libro sulla “Transavanguardia internazionale”, pubblicato da Giancarlo Politi…
Sono stati anni fondamentali ma, applausi momentanei a parte, tutti questi “Ex Super Boys” sono come l’erba secca, oggi.
Ricordo che la tua materia pittorica degli anni Ottanta era dominata da una figurazione affascinante, con masse bianche che si sfrangiavano in pennellate convulse di colore: un pigmento carico e solido. Una pittura visionaria e complessa, non disgiunta da dettagli e cronache quotidiane, citazionismo (penso a Picasso), riferimenti culturali (penso a Emilio Mazzoli e al quadro che gli hai dedicato), e un grande intreccio di storie e figure. Ci puoi dire due parole su quegli anni e su come li hai vissuti?
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta esisteva un grande interesse per le cose nuove e fresche: un vero nutrimento per sentirsi felici. In quei tempi per me non esistevano confini e l’arte rendeva felici tutti, collezionisti compresi. Grazie al sostegno di un piccolo gruppo di collezionisti sono riuscito a convivere con la quotidiana crisi finanziaria. Comunque ci tengo a sottolineare che gli anni Ottanta furono BELLISSIMI, sebbene abbiano abusato di me: se alla Biennale di Venezia mi avessero incluso nel padiglione jugoslavo i miei prezzi sarebbero saliti, invece il mio premio è stata questa frase che ancora mi tiro dietro: “Nemmeno i tuoi ti vogliono”. Ma chi sono “i miei” io non lo so.
Per quegli anni ti pare possibile parlare anche di “Zeitgeist” che si fonde con una caduta della storia, ovvero una consapevolezza del proprio presente minuto che dimentica una visione più ampia e complessa? Nel tuo caso si può parlare di mitologia del quotidiano? Ti piace questa definizione?
Non saprei. Mi sento un po’ al di fuori di qualsiasi definizione. Quello che ricordo è che la prima spinta però, me la diede la mostra che realizzai al “Centro la Cappella” di Trieste, nel 1982.
L’ex Jugoslavia prima e la Slovenia dopo, hanno sempre vissuto una carenza per quanto riguarda il mercato dell’arte strutturato sul filtro di galleristi e collezionisti. Come sei riuscito a sopravvivere in questa specie di desertificazione?
Oggi la Slovenia è gremita di pittori che vorrebbero ritornare a dipingere, malgrado all’accademia non l’abbiano mai imparato. Insegnare loro la pittura ora è impossibile perché non si staccano mai dall’iPhone. Sopravvivere è la parola giusta perché fa capire le difficoltà del vivere quotidiano. Di galleristi ruffiani, un po’ venditori d’arte e un po’ sciacalli il mondo è pieno e sono tutti di mezza tacca. Questi commercianti “no head no brain”, senza testa né cervello, per colmo di ironia ti incitano a lavorare anche solo per il gusto di fregarli.
Come procede ora la tua ricerca? Quali sono i tuoi punti di appoggio in Slovenia e Croazia, dove in definitiva ti sei trasferito da alcuni anni? E, soprattutto, come vedi l’attuale situazione culturale di quelle zone dove tu comunque ami vivere e dalle quali non ti sei mai voluto separare?
Per me la pittura è stata sempre la cosa più misteriosa, e che ti permette di sognare, fregandotene di ladri, puttane, manipolatori, dealer, coglioni. Ma in definitiva l’arte di oggi è come quella di ieri e siamo tutti ripetenti: è come restare nella classe prima con maestri e maestre che cambiano, e che sono ogni volta vestiti diversamente, mentre la loro mente nel capire è sempre uguale.
Živko Marušič, Araki, 2006, pigments and wax on canvas, 300 x 300 cm
Vista parziale della mostra alla Equrna Gallery, Ljubljana, December 2012. Photo by Arne Brejc, courtesy Equrna Gallery
Živko Marušič, Cheap dreams, 2011, pigments and wax on canvas, 200 x 300 cm. Photo by Arne Brejc, courtesy Equrna Gallery
Živko Marušič, Talking Tomatoes, 2018/19, pigments and wax on canvas
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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