Mai come nel caso del collettivo DEHORS/AUDELA (Salvatore Insana ed Elisa Turco Liveri) l’intervista, quale forma dialogante, è il mezzo più consono per approcciarsi correttamente al lavoro artistico, superando le inevitabili approssimazioni del commento critico e le costrizioni curatoriali cui spesso gli artisti vengono contriti. Il livello di consapevolezza del gradiente poetico espresso da Salvatore Insana, videomaker, videoartista e saggista, e da Elisa Turco Liveri, performer, danzatrice e coreografa, è talmente alto da non richiedere ulteriori dettagli critici, se non come espressione delle personali emozioni quando facciamo esperienza dei loro video o viviamo in prima persona le loro azioni sul palcoscenico. Non possiamo definire DEHORS/AUDELA un semplice collettivo, piuttosto un connubio tra due artisti che hanno fatto del movimento un paradigma espressivo e poetico. Esplorano ogni possibilità intrinseca al concetto di movimento sia che implichi la dissoluzione della forma, sia verso una rigida relazione geometrica e spaziale. Invece che tracciare un’impossibile linea coerente tra le due fasi dinamiche del movimento, gli artisti con grande semplicità ne osservano le dicotomie sospese tra il piano estetico e noetico, tra sollecitazioni emotive e sensoriali da un lato e precisione architettonica tra volumi inerti e mobili dall’altro.
Piero Deggiovanni: Movimento, spazio, corpo. Cosa cercate nella relazione tra queste grandezze naturali?
DEHORS/AUDELA: Cerchiamo incontri, epifanie, apparizioni, la fantasmagoria residua che emerge negli scontri/ incontri imprevisti tra forme e volumi. Cerchiamo inciampi, guasti temporanei, bagliori e impreviste rivelazioni. Cerchiamo varchi, aperture, il concatenamento occasionale e irripetibile tra pre-meditazione, predisposizione e presa diretta. Cerchiamo collisioni, erosioni di confini, differenze, esempi di possibili condizioni altre di coabitazione, lontane dalla prestazione, dall’efficienza, dal dominio zenitale dell’autore sulla natura. Cerchiamo sorprese, ma poi spesso troviamo corrispondenze tra figure umane e architetture, tra campi di visione e di ascolto dentro cui interagire a più livelli. Il corpo è sempre situato nello spazio e sempre in movimento anche nella staticità. Ci sono innumerevoli relazioni tra questi tre elementi che costantemente modificano lo stato della presenza. Forse la sfida che ci poniamo è quella di coglierne, e far emergere lo strato più nascosto. Interessante chiamarle grandezze, termine che indica una misura, che in quanto tale può essere calibrata e diventare piccolezza, invisibilità, ed è forse dell’invisibile che vogliamo occuparci e che cerchiamo spesso nelle configurazioni che lasciamo emergere in forma di immagini o azioni performative. Un invisibile che non dice, non indica, ma tiene insieme una forma effimera e laterale seppur assertiva nella sua indecifrabilità.
Sembra vi muoviate in eterna oscillazione tra gradienti espressionisti e concettuali, tra sensazione e nous. Inserite in questo modo un elemento di incertezza e imprendibilità nei vostri lavori.
Predisporsi in piena apertura dei propri sensi, come ci ha insegnato John Cage, significa anche aspettare l’imprevisto, l’inaudito, qualcosa che scardina il paradigma. C’è in noi una linea di ricerca più vicina al documentario d’osservazione, all’antropologia visuale. C’è poi sempre un portato esistenziale, un’indagine sulla nostra condizione (attuale o inattuale) che si declina in erranza, in deriva urbana e al contempo in analisi dello stato delle cose (dei dispositivi, delle parole, delle persone, delle loro dinamiche, del travaso della biopolitica in una ricerca artistica che ha ben chiaro cosa rifiutare, anche a rischio di marginalizzarsi). Ma poi a volte c’è anche un’insofferenza nei confronti del “reale” per come è convenzionalmente presentato (per come gli strumenti a nostra disposizione tendano a standardizzare l’esperienza estetica del reale) e allora operiamo uno scarto, uno spostamento, un detournement, un’incursione che corrompe il quadro, che frantuma la narrazione, che stimola il nervo ottimo, che fa inciampare l’ascolto, che invita al disturbo, all’assottigliamento, all’enigma. Una militanza condotta attraverso la forma. Viviamo nella differenza tra voler vivere e voler capire.
So che non ne parlate mai, ma a mio avviso, i vostri lavori alludono spesso a qualcosa di spirituale. Percepisco il rispetto per le antiche religioni mediterranee, per riti legati alla terra e alla natura. C’è qualcosa di vero?
C’è in Dehors/Audela una spinta metaforica e metafisica ad andare letteralmente “fuori/aldilà”. Dentro questo posizionamento (una postura dell’anima che reclama un certo rigore e che incita a pensarci “oltre”) si situa uno spiritualismo anti-clericale, anti-settario e a-cattolico. Per trovare dei riferimenti nel mondo dell’arte, è un po’ come mettere insieme (a litigare) Andrej Tarkovskij e Stan Brakhage, Bill Viola e Werner Herzog, Jean-Luc Godard e James Benning, Nam June Paik e Mark Rothko, con una smisurata fede nei confronti dell’ambiguità delle immagini, tra misticismo e iconoclastia, tra pulsioni ancestrali e tendenze di smaterializzazione, in risoluta e irrisolta lotta per la sopravvivenza del perturbante. La ritualità come meccanismo di spostamento e ricerca di un altrove percettivo è un punto centrale nel nostro lavoro, ma mai inteso come dogma, piuttosto come attitudine all’osservazione, attenzione ai segni, alla scrittura del paesaggio che indica sempre delle vie di fuga dal reale.
Derive e interstizi tra montaggio e gesto. Potete parlarcene?
C’è una strana relazione tra il gesto del corpo fisico e il gesto del corpo visivo. Sono due volontà, due lingue che entrano in relazione con la forma, con i suoi contorni e la sua consistenza. Si tratta dunque di tentare di comprendere la terza lingua generata nella fusione tra le due e tutto il processo consiste nel tentativo di comprendere questa nuova lingua che tiene insieme i pezzi, ma non è in grado di tradurre tutto, e quindi, come suggerisci tu, si perde in derive, si inceppa e apre dei fori per vedere un’altra immagine che non avevamo previsto. Se a volte la continuità dell’azione del corpo suggerisce tempi più lunghi, per noi è soprattutto nell’intervallo che la “verità” emerge. In quell’attimo, che è appunto soglia, interstizio e mancanza. Da una parte c’è l’ossessione di non perdere niente, neanche quello che muore. Dall’altra c’è il fascino irresistibile ed enigmatico di quel “fuori” (dal tempo, dall’inquadratura, dalla storia) che la tecnica del montaggio produce e induce, nel ri-combinamento, nel taglio, nell’intervento per accumulazione o per sottrazione di elementi, isolando a volte un gesto per esaltarne la portata. Il gesto si ricollega all’iconologia, alla pittura, alla fotografia, alla capacità di fissare attraverso elementi simbolici, ma è sempre più spogliato dalla retorica, dall’espressione, dall’intenzione. Anche il montaggio risponde a una logica della sensazione e a un invito alla percezione, piuttosto che alla necessità di svolgimento di una trama.
Il formalismo implicito nei gesti minimi posti in relazione alle geometrie degli ambienti che vi hanno ispirati, rinnova il concetto di ortogonalità percepibile e interpretabile proprio attraverso l’azione. È anche questa una forma di “sparizione” del soggetto o lo pone al centro del senso dello spazio e del movimento?
C’è in principio un’esplorazione del paesaggio, dell’habitat, della storia e del tempo di quel dato contesto, un’attitudine di studio antropologico, ma anche di attenzione alla plasticità delle forme e alla loro relazione metamorfica. Ci sono architetture di corpi che si innestano a volte in quegli ambienti, corpi vivi che palpitano, con una certa irrequietezza compositiva rispetto all’immobilità delle costruzioni. Esaltare il movimento, amplificarlo, mettendolo dentro un sistema degli oggetti immoto, freddo, statico. Dall’incontro a volte nascono soluzioni abitative temporanee capaci di rinnovare la relazione tra vivente e non vivente. Tra ossimori verbali e di senso è in qualche modo attivato un gioco di paradossi spazio-temporali gestiti dal punto di vista (l’inquadratura) e della posizione e postura del corpo all’interno di questo “quadro”. Simbiosi più che mimetismo, ma anche gioco dell’infrasottile, dello stimolare l’attenzione verso il “non so che” o verso il “quasi niente”.
Elisa, come nascono le tue coreografie ambientali, ambientate nelle foreste come negli edifici industriali dismessi?
Negli anni ho sperimentato e attraversato diversi tipi di “training” fisici, ovvero allenamenti molto diversi tra loro. Nei miei lavori mi avvalgo di strumenti diversi per indirizzare e interrogare il corpo, per poi ricollocare quel tipo di affondo nello spazio che mi accoglie e nell’idea di permeabilità, nell’azzeramento tra dentro e fuori. Queste pratiche includono lo spazio e gli elementi che mi circondano, perché il mio corpo non finisce con la mia pelle, ma prosegue nella terra, nelle foglie e negli edifici. A volte funziona, a volte no. Sto in ascolto e aspetto, senza imporre la mia volontà. Poi in fase di montaggio riprendo le redini e attuo una scelta coreografica, quindi di scrittura.
Le vostre opere in cui il montaggio non riveste un ruolo espressivo principale – dunque opere a camera fissa, che concedono tutto alla azione e nulla all’espressione – illustrano verifiche della relazione spazio-corpo quale arte del comportamento, o si tratta di un semplice processo imitativo di allineamento concettuale con le geometrie presenti nell’ambiente, magari anche con spirito ironico?
C’è, come già accennato, un voler testare cosa può fare un corpo in un dato habitat, ovvero come si può abitare o disabitare fuori dalle regole dell’efficienza e dello spettacolo. In qualche modo alcuni nostri lavori indicano modi, attitudini, posture. Segnalano varchi, suggeriscono cammini. Si tratta, a volte, di tentativi di esaurimento di un dato spazio (vedi Georges Perec, ma anche Bruce Nauman, o, in chiave ironica, Ugo La Pietra), in cui la dimensione temporale e quella sonora diventano protagoniste. L’ironia c’è di sicuro, come arma di spostamento duchampiano, apertura dei sensi, come smantellamento delle certezze, come incompatibilità e incredulità rispetto agli standard estetici dominanti. Ci dichiariamo lontani dal progressismo patinato e dall’arrivismo camuffato, non siamo né cavalcatori di trend né scavalcatori di principi, né diretti affermatori, né provocatori per controsenso, ma laterali. Abbiamo ritrovato e riaffrontato nei giorni scorsi, in occasione di un riallestimento performativo, l’opera di Claude Cahun con cui ci eravamo confrontati quasi dieci anni fa. In un suo pamphlet (la poesia mantiene il suo segreto), a un certo punto dice, in riferimento all’azione indiretta, l’unica a suo dire efficace: «Si tratta di dare la spinta iniziale e di lasciare andare. Questo obbliga il lettore a fare da solo, più di quanto avrebbe voluto. Sono state accuratamente chiuse tutte le vie d’uscita, ma gli si lascia il compito di aprire la porta d’ingresso».
Tra i vostri lavori più recenti spicca Voragine (2024), che mi ha incuriosito poiché, a differenza della “rigidità” geometrica di altre opere, qui la gestualità suggerisce una “fiacca”, una stanchezza del corpo amplificata dalla placida viriditas dell’agro romano, il quale però nasconde un pericolo: uno squarcio nel terreno simile a un ingresso secondario degl’inferi. Un filologo classico, secondo la mia immaginazione, fotografa di nascosto la scena di una dea svogliata. È cambiato qualcosa nel vostro rapporto con gli ambienti esterni o si tratta di semplice interpretazione del paesaggio?
Nel caso di Voragine, forse più che in precedenza, ci siamo lasciati attraversare dallo spirito del luogo. Qui livelli si sono fatti più friabili, più smussati. Lavorare all’interno di una frattura della terra, oltre a numerose connotazioni metaforiche, porta con sé un’energia di rara intensità. E confrontarsi con il sublime non può lasciare indifferenti. Può provocare allucinazioni, vaneggiamenti, un ridimensionamento della propria posizione nel mondo. Più che di stanchezza si è trattato sempre di predisposizione all’ascolto attraverso il corpo. Mettendo questo corpo stesso direttamente in relazione con le stratificazioni geologiche, in qualche modo, abbiamo cercato di approcciarci a un’altra era, saltare dentro un’altra dimensione, insieme arcaica, bucolica, ancestrale, ma anche così viva e presente.
Oltre al video e alla video performance, portate sul palcoscenico corpi e dispositivi al fine di realizzare opere teatrali. Trovo questo naturale e consequenziale. Tuttavia, in quel contesto, la parte “espressionista” o di dissoluzione delle forme e degli ambienti non è possibile senza l’ausilio di uno schermo su cui proiettare un eventuale video. Come vi rapportate con simili problematiche e come pensate di superarle in uno spazio reale?
Oltre al video l’elemento capace di trasformare la scena è la luce, una luminotecnica che rivela e nasconde, che esalta dettagli e posture e nasconde storie. In un progetto come Aporie anche l’elemento temporale, declinato in forma ciclica (All my loops for you) o in forma del tutto dilatata (Aptica), concorre a un rimanipolamento delle forme. Per un progressivo convergere di fattori drasticamente avversi a un impianto tecnologico di alto livello, sempre più spesso lo spettacolo dal vivo ci mette alla prova spingendoci a una sottrazione di elementi che conduce la ricerca verso l’essenziale. Sottrarre elementi diventa allora un esercizio bressoniano per concentrarci sui soli corpi, sulla palpitazione del fare le cose in quel momento.
La ricercatrice, critica e curatrice Silvia Grandi, osservando le attuali tendenze nell’ambito dell’uso creativo del corpo, ha formulato la felice e azzeccatissima definizione di “performance vestita” in relazione al fatto che ormai gli artisti del corpo agiscono indossando vesti che svolgono una funzione simbolica, esattamente come i paramenti sacri religiosi o sciamanici. Mi sembra che, almeno in alcuni casi, specie nelle azioni performative dal vivo di Elisa, siate in linea con questa definizione. È corretto?
Nei lavori video, partendo sempre dall’idea di un corpo simbiotico rispetto all’ambiente, gli abiti vengono scelti in relazione ai colori e alle consistenze degli elementi circostanti. In particolare, la scelta cromatica mira al mantenimento di un certo equilibrio o contrasto dell’azione rispetto allo spazio. Nelle azioni performative la scelta dell’abito cambia a seconda del progetto. In ogni caso è sempre la funzionalità che prende il sopravvento. Per quanto mi riguarda prediligo l’aspetto sensoriale, tattile a cui i tessuti rimandano, ad esempio in Aptica abbiamo usato una serie di camicie a quadri, che rimandano a una certa idea di America rurale, ma anche di grunge anni Novanta, comunque qualcosa di dimesso, ma allo stesso tempo caldo e rassicurante, in grado di generare pattern geometrici molto interessanti a livello visivo. L’abito ti permette di condensare il concetto nell’estetica.
Con la mostra monografica dedicata al progetto DEHORS/AUDELA tenutasi nello spazio CAOS di Terni, curato da Pasquale Fameli, avete dovuto relazionarvi con l’installazione, cioè con un uso dello spazio che non è propriamente nelle vostre corde. Mi sembra interessante, quindi, sapere come avete vissuto quell’esperienza e se sarà di sprone per altre avventure installative in futuro.
L’installazione è un’ulteriore una verifica delle possibilità espressive e delle condizioni di fruizione della nostra produzione. Costruire habitat, “abitando” gli ambienti e facendoli vivere attraverso le nostre immagini, i nostri suoni, le nostre visioni, dovrebbe essere forse la destinazione più appropriata per alcuni dei nostri progetti, quelli che più dialogano con la dimensione temporale e con i volumi plastici e spaziali. Anche alcuni dei progetti performativi virano spesso verso una possibile qualità installativa. Quindi la volontà c’è, quello che manca sono gli spazi che vogliano darci fiducia, risorse e il tempo per sperimentare con gli oggetti e i dispositivi anche in questo ambito.
Info:
Piero Deggiovanni (Lugo, 1957) è docente di Storia dell’arte contemporanea e di Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al LABA di Rimini. È critico e ricercatore nell’ambito dell’arte contemporanea, membro del comitato scientifico del Videoart Yearbook dell’Università di Bologna. Da diversi anni si dedica esclusivamente alla ricerca, concentrandosi sulla videoarte e il cinema sperimentale.
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