Alessandro Amaducci è tra i più noti e attivi videoartisti italiani, famoso a livello internazionale, con all’attivo la partecipazione a vari festival e conferimenti di premi. Alla sua produzione artistica abbina – quasi fosse un taccuino di riflessioni a latere della sua esperienza sul campo, o forse sarebbe meglio dire sulla consolle – una fitta produzione teorica che si concretizza in libri storici, critici e manuali tecnici, che non sono mai solo quello, ma anche indicazioni precise del suo percorso poetico ed estetico.
Piero Deggiovanni: Vorrei iniziare proprio a partire da un tuo libro di qualche anno fa: Computer grafica. Mondi sintetici e realtà disegnate, dove esplicitamente chiarisci cosa sia per te l’“oggetto” digitale e il tipo di rapporto che intrattieni con esso introducendo l’idea di “soglia”, una soglia tra vita e morte, tra carne e pixel.
Alessandro Amaducci: Le nuove tecnologie (o vecchie, a seconda di quanto tempo concediamo loro per essere attuali) per me hanno sempre rappresentato qualche cosa di magico, di fuori dal comune. Qualcosa di extra-ordinario che in qualche modo ha a che fare con l’ultraterreno. Mi ha sempre affascinato, ad esempio, per quello che riguarda la tecnologia analogica della vecchia televisione, il concetto di trasmissione a distanza, “via etere” come si diceva all’epoca, che è un termine antico ed esoterico, l’aristotelica “quintessenza”. Il fatto di poter gestire a distanza un elemento, già di per sé ricco di significati, come un’immagine in movimento mi ricordava il classico gesto della mano del mago, che può traferire energia da un punto all’altro dello spazio. Non è un caso che, ad esempio, l’icona della mano sia presente in tante sperimentazioni di Woody Vasulka: il potere della distanza è un gesto magico. Per quello che riguarda la computer grafica avviene un processo quasi materiale: l’immagine fantasmatica della tecnologia analogica si riveste di una superficie, di una sostanza fatta di numeri, pretendendo di essere più realistica in virtù del fatto che crea oggetti posizionabili su un piano prospettico. Ma è un gioco alla Salvador Dalí: il mondo digitale è un vero specchio di Alice che manifesta il “mondo di là” con la concretezza puramente virtuale degli oggetti. Che gli oggetti possano avere una vita è una visione infantile, surrealista, è una forma di animismo specificamente digitale che connette quello che pensiamo sia inorganico con la vitalità del movimento. E quindi sì: il digitale è veramente una soglia. Per finire, io sono comunque in qualche modo “devoto” al concetto originario di immagine: l’imago era la maschera funeraria, ovvero l’oggettivazione di qualche cosa che non esiste più, o che arriva da lontano. Con il digitale quell’oggetto, la maschera, acquista una strana vita, e quindi vive perennemente in bilico fra la vita e la morte.
Riferendoci alle origini del tuo immaginario e della particolare crasi che tu realizzi tramite il crogiuolo digitale, sembra proprio che il lato oscuro delle energie universali ti pervada quasi come tu stesso ne fossi un abitante e molti tuoi video ne rappresentassero una frequentazione al di là delle tendenze susseguitesi nei decenni, generando un percorso che le plasma nell’unicum della tua opera.
Mi considero un viaggiatore fra diverse dimensioni, e frequento molto volentieri l’inconscio, sia il mio sia quello della macchina digitale. L’energia è un concetto molto frequente nei miei video, e assume di volta in volta aspetti visivi diversi: non la considero qualcosa di universale, ma di metafisico e al contempo di organico, che riguarda il nostro corpo e il corpo della macchina. L’elettricità è quella forma di energia che accomuna il nostro organismo alla macchina digitale: è una forma di trasmissione che abbiamo in comune, e inevitabilmente crea dei ponti, degli scambi. Per questo motivo il titolo della mia ultima antologia è Electric Self Anthology: al di là della quasi-citazione a I sing the Body Electric di Walt Whitman, il digitale trasforma sempre più il nostro io in una forma di energia che può assumere varie forme e che si contamina costantemente con l’energia della macchina. Nei miei video c’è sempre un passaggio fra un dentro e un fuori. Non lo considero un lato oscuro, ma semplicemente nascosto, interiore. Così come sovente compaiono l’icona della gravidanza e il trauma della nascita come qualcosa che da dentro viene proiettato con violenza fuori. Il fuori a volte è molto più oscuro del dentro. L’oscurità è solo un punto di vista: per me è una dimensione in cui gli elementi acquistano più chiarezza e si manifestano più esplicitamente. Vengono alla luce.
Indaghi spesso la relazione tra corpo virtuale e corpo reale, trovando vari spunti felici nell’interazione tra i due enti e punti di convergenza come, per esempio, la danza. Relazione poi stigmatizzata nel tuo recente libro dedicato a questo tema: Screendance.
Il corpo è un ponte, è il luogo simbolico per eccellenza dove le dimensioni della morte e della vita, di ciò che consideriamo naturale e artificiale, trovano il loro spazio privilegiato. Trattandosi di corpi che sentono, difficilmente essi usano la parola parlata, che è un linguaggio troppo strutturato per esprimere plasticamente il simbolo, l’emozione, il sentimento. A meno che non sia la parola poetica. E quindi danzano. La danza è uno strumento straordinariamente efficace per trasformare i corpi in vettori simbolici, in involucri pieni di senso. Diventano elementi poetici e in ultima istanza poietici. Sono sempre stato affascinato dal mondo della danza e quando ho cominciato a vedere i primi lavori di videodanza, o spettacoli di danza con interventi video in scena, ho deciso che quella doveva essere una strada di sperimentazione. Essendo contemporaneamente molto interessato all’universo videomusicale, dove la danza gioca un ruolo importante, per me è stato piuttosto automatico unire i due ambiti. Scrivendo Screendance mi sono reso conto che la danza contemporanea in ambito audiovisivo si è trasformata da pura sperimentazione in grado di strutturarsi come un genere audiovisivo autonomo a un linguaggio duttile, presente in molti generi a cavallo fra la sperimentazione e il mercato, come appunto i video musicali e i fashion film. Insomma, è uno strumento necessario per chi vuole sperimentare l’assenza della parola.
Scendendo un po’ più nel dettaglio delle opere, vorrei che ci parlassi di due lavori che, a mio avviso, sono autentici capolavori, complessi e totalmente trascendenti la realtà – nel senso che nella trascendenza trovano la compiuta descrizione della realtà. Mi riferisco al tuo lavoro sulla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e a quel work in progress o opera aperta della Electric Self Anthology, guarda caso proprio due antologie cosmogoniche di cui l’ultima rappresenta l’evoluzione del tuo pensiero e necessariamente del tuo agire poetico.
Spoon River ha rappresentato il mio personale passaggio dall’analogico al digitale, incontrando tutte le ibridazioni possibili fra quelle dimensioni. Dopo Spoon River mi sono liberato di tanti mixer video, lettori Betacam e tutti quegli oggetti che erano diventati totalmente inutili dall’avvento del digitale. È rimasto solo un computer. In Spoon River io sono veramente sulla soglia fra una dimensione e l’altra, nel senso che, come il viandante protagonista del poema di Edgar Lee Masters, ascolto le storie che provengono “dalla polvere”, dalla dimensione digitale. Ma non ci entro mai sul serio, e infatti tutta la linea stilistica del video gioca sul grafismo bidimensionale, sulla continua “sporcatura” analogica dell’immagine digitale, che veramente digitale non riesce ad essere mai. Da questo punto di vista è la rappresentazione, poeticamente contradditoria rispetto al tema principale dell’opera che è la morte, di uno stato nascente dell’immagine, mercuriale, ancora informe. Lavorare a quel video per è stata una vera propria nascita e ri-nascita, perché attraverso lo strumento digitale ho riscoperto la voglia di disegnare, che avevo abbandonato da molti anni, e l’attenzione all’immagine fotografica e non più solo in movimento. Ho scoperto il compositing, che per me è un’operazione veramente alchemica, ovvero la miscelazione creativa di elementi eterogenei in grado di creare un mondo. È stato anche, per ora, il mio ultimo viaggio dentro al mondo della parola poetica. Da lì in poi ho preferito affidarmi alla sola musica e alla danza, come in Electric Self Anthology, dove la dimensione digitale si presenta in maniera più materica attraverso la computer grafica 3D, e appare come un mondo vero e proprio che io attraverso tuffandomi nel monitor del computer. Electric Self è una riflessione su un concetto originariamente elaborato da Franco Vaccari, ovvero l’inconscio tecnologico, che io trasferisco nell’universo digitale. I computer sognano? Metaforicamente parlando: sì. In tutti questi anni abbiamo inserito nel mondo digitale tutta una mole di dati soprattutto visivi: i computer hanno assimilato il nostro mondo sotto forma di flussi di immagini, suoni, musica, testi, parole. E hanno a loro volta trasformato in dati il nostro immaginario archetipale, sviluppando un loro sguardo autonomo sul mondo e contemporaneamente una propria coscienza collettiva, creando un personale inconscio tecnologico. Nel perenne scambio uomo-macchina, i due mondi inevitabilmente si incontrano, si scontrano, generando ibridi nei quali organico e inorganico si miscelano incessantemente. In un processo creativo che avviene nell’aldilà dello schermo, pieno di possibilità ma anche di pericoli. Electric Self parla di questo, e soprattutto di come noi tutti stiamo mutando antropologicamente, e di come la società si stia trasformando in società digitale, una dimensione nella quale il debordiano capovolgimento fra società e spettacolo è solo il punto di partenza, e non più di arrivo, di un processo di mutazione che avviene davanti ai nostri occhi. Electric Self è una serie di domande senza una vera risposta: ogni episodio tratta un tema specifico e lo sviluppa visivamente, senza diventare un’opera “a tesi”.
Il tuo percorso poetico ed estetico resta assolutamente singolare nel panorama delle produzioni italiane. Quali verità hai trovato nella dimensione ctonia, nelle ombre che danzano, nella sublimazione dei corpi sintetici così potenti da tenerti lontano da qualsiasi forma di neorealismo più o meno politico?
Sono per natura refrattario alle ideologie, alla religione, al pensiero unico. Quindi non cerco nessuna verità. Ho incontrato molte ombre, alcune delle quali riflessi di me, altre di ciò che mi circonda. E poi, come ho detto prima, per me nell’immagine non c’è mai verità, ma solo interpretazione, per cui non può esistere un realismo o un neorealismo: si tratta sempre di punti di vista. Ma la semplice visualizzazione di un punto di vista non mi interessa, la focalizzazione della realtà è uno stilema del cinema tradizionale, da un artista pretendo uno sguardo differente: credo nella trasfigurazione. Credo al fatto che un artista, come diceva Rimbaud, deve essere un veggente, o come sosteneva Kandinskij, colui che è in grado di vedere dentro la realtà. Per me è importante travestire la realtà con tessuti simbolici, per osservarla dal di dentro, e per pre-vedere ciò che potrebbe essere. Per questo mi piace la fantascienza: è un linguaggio che si prende la libertà di creare mondi, non di descrivere il mondo che c’è, spesso ipotizzando universi che in seguito si sono avverati.
Da qualche anno hai indirizzato la tua attenzione su aspetti decisamente più mondani e di superficie, nel senso che pertengono a usi e costumi concreti come il vestirsi e “decorarsi” con gusto. Insomma, come mai, e perché, hai rivolto la tua attenzione alla relazione – per altro molto interessante e curiosa – con il mondo della moda e del fashion, scrivendo poi l’ennesimo libro – quale resoconto di un percorso esperienziale – come tua abitudine?
Per dirla con termini inglesi che in questo sono più precisi di qualsiasi altra lingua, esistono il trend e il glamour, e poi esiste il fashion, ovvero la moda. La moda è per sempre, il trend e il glamour sono transitori. Nella moda la centralità del corpo assume un ruolo sostanziale, perché crea oggetti che aderiscono alla sua superficie: parlando in termini di computer grafica, la moda è la texture che assegna un’identità a un oggetto. Attraverso la moda il corpo si manifesta, e diventa un manifesto. Da questo punto di vista non c’è niente di più politico della moda. Ed esistono brand che lavorano attraverso linguaggi molto sperimentali, dove il corpo viene letteralmente trasfigurato. Nei miei video solitamente il corpo è nudo perché viene spogliato di riferimenti sociali e storici: è un corpo neutro, rivestito di materia digitale. Ma in alcune mie opere il corpo diventa, per dirla alla Camille Paglia, una (sexual) persona: un personaggio, che si manifesta attraverso l’utilizzo di un costume. Non mi interessa il vestito che copre la nudità: mi interessa una superficie in grado di potenziare il carico simbolico del corpo. Inoltre il travestimento è una dinamica tipica del mondo digitale, frutto della confusione, creativamente pop, fra spettacolo e realtà, messa in scena ed esibizionismo.
Quest’ultimo aspetto della tua produzione video è spesso realizzato in collaborazione con un’altra importante artista, anch’essa più unica che rara nel panorama Italiano: Eleonora Manca. Ci parli di questo connubio nel segno del fashion realizzatosi con la tua ultima fatica editoriale condivisa con Eleonora: Fashion Film. Nuove visioni della moda?
L’attenzione nei confronti dei fashion film è derivata dagli stessi motivi per cui mi interessa il mondo dei video musicali: ritengo interessanti quelle esperienze che riescono a coniugare sperimentazione e mercato, creando l’ennesimo ibrido e lavorando sull’ennesimo bilico. Per me fra il mondo visivo del pop e gli archetipi dell’inconscio collettivo non c’è una grande differenza. Soprattutto in ambito digitale, il pop è il mondo degli archetipi. Sia io sia Eleonora da molti anni siamo stati spettatori attenti di quelle esperienze di fashion film che utilizzano i linguaggi della videoarte, della new media art, del cinema sperimentale, della body art e della performance art. Il nostro libro si concentra su queste esperienze, non sul fenomeno del fashion film in generale. Sia io sia Eleonora siamo interessati al lavoro sul corpo, quindi è stato naturale per entrambi avere voglia di condividere in un libro quell’universo di esperienze di fashion film che più rispecchiano le nostre rispettive estetiche artistiche. Scrivere di esperienze altrui rende più chiare le proprie, scioglie dei nodi, e apre delle prospettive. Inoltre Eleonora ha una conoscenza della storia della moda molto approfondita, quindi anche per questo motivo la collaborazione è nata in modo molto spontaneo.
Un’ultima domanda dal sapore più teorico sull’evoluzione della videoarte come genere a sé stante. Pensi che il processo di digitalizzazione ormai compiuto e ormai diretto verso l’uso di software sempre più sofisticati possa implicare la fine della videoarte, destinata a essere riassorbita da una più generale e variegata arte-dei-nuovi-media, o riuscirà a mantenere una propria autonomia poetica e stilistica rimanendo nell’alveo dell’arte contemporanea?
È una domanda alla quale è molto difficile dare una risposta, perché non esiste una visione univoca su cosa siano ora la videoarte, la new media art e soprattutto l’arte contemporanea. Sicuramente, nella storia della sperimentazione audiovisiva, il passaggio al digitale (avvenuto molti anni fa, con l’avvento della computer grafica, con la nascita dei sistemi digitali di elaborazione del video, con l’alta definizione digitale, e infine con l’intelligenza artificiale) ha rappresentato uno iato piuttosto forte, spesso troppo veloce da sostenere, a meno che non si voglia trasformare gli artisti in semplici utilizzatori finali dei software più aggiornati, piuttosto che in pensatori-sperimentatori tecnologici. Per me il linguaggio della sperimentazione audiovisiva digitale deborda in molti campi, non si limita a quello che viene mostrato nell’ambito dell’arte contemporanea. Mantenere un’autonomia poetica e stilistica è compito degli artisti, non di un genere audiovisivo o di un settore. Mi piace ricordare l’opera di Marco Brambilla, che riesce a lavorare indifferentemente nell’area dell’arte contemporanea, ma simultaneamente realizza video per il settore musicale, fashion, pubblicitario e delle sigle di serie tv, mantenendo una coerenza stilistica molto forte. E lavorando su un’estetica in bilico fra l’utilizzazione e la demonizzazione dell’universo visivo del pop. Mi sembra che l’ambito più specificamente artistico abbia ancora oggi, nonostante l’estrema offerta di opere tecnologiche che si vedono nelle Biennali, nelle gallerie e nelle Fondazioni, una sorta di difficoltà concettuale, dovuta a una più che comprensibile difficoltà di mercato, ad accettare le nuove tecnologie. Vedo molti facili entusiasmi, come il ricorso al VR o all’interattività anche quando da un punto di vista estetico non se ne vede la necessità, o l’utopia del mercato senza intermediazioni degli nft. Bisognerebbe cominciare a distinguere sul serio ciò che è arte tecnologica da una forma di digital entertainment che si esprime attraverso molti “salvaschermi” digitali e immagini astratte confortanti, o il ritorno ai linguaggi tradizionali del documentario e della fiction. E in tutto ciò il digitale di per sé non ha colpe: mi sembra che il mondo dell’arte, più che essere il terreno della curiosità e della ricezione di nuovi stimoli, in una parola della sperimentazione e della radicalità, sia molto disorientato e accolga più volentieri esperienze frutto di una visione consolatoria e rassicurante delle nuove tecnologie e dell’arte in generale.
Info:
Piero Deggiovanni (Lugo, 1957) è docente di Storia dell’arte contemporanea e di Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al LABA di Rimini. È critico e ricercatore nell’ambito dell’arte contemporanea, membro del comitato scientifico del Videoart Yearbook dell’Università di Bologna. Da diversi anni si dedica esclusivamente alla ricerca, concentrandosi sulla videoarte e il cinema sperimentale.
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