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In conversazione con Angelika Wienerroither: quando mi sento bloccata, cerco l’acqua

Per coincidenza, o semplicemente in un momento in cui entrambe eravamo molto aperte a nuovi incontri, Angelika e io ci siamo incontrate nel settembre 2023, mentre ci recavamo a una fiera d’arte a Vienna. Ricordo che, tra le altre cose, mi aveva incuriosito il suo dottorato di ricerca non convenzionale, che sta svolgendo presso la Kunstuniversität di Linz, in Austria. Una ricerca che tenta di rispondere alla domanda: «Che aspetto ha il mondo visto da una nave?». Wienerroither è interessata a capire cosa succede quando lasciamo la terraferma per viaggiare sulla superficie del mare fluida e metaforica. Così indaga il mondo dalla sua personale prospettiva, utilizzando le proprie esperienze corporee e i propri pensieri e sentimenti come dati per questa esplorazione. Le sue idee si concretizzano in installazioni, dipinti, fotografie e testi.

Angelika Wienerroither, ritratto. Ph. Anna Marina Ernst

Erka Shalari: Da quando ti ho incontrata, ho iniziato a vedere l’acqua in modo diverso. Cosa ha scatenato la tua fascinazione per questo elemento?
Angelika Wienerroither: Sono cresciuta vicino a un lago. I miei primi ricordi di infanzia sono legati all’acqua: ho trascorso estati interminabili nuotando verso la zattera al centro del lago, saltando a testa in giù, tuffandomi sotto i barili che tenevano a galla il legno. Il sole splendeva attraverso il legno, colorando l’acqua di sfumature di verde chiaro, verde scuro e un po’ di giallo. Non ho un ricordo della prima volta che ho visto il mare, ma ho ben impressa nella mente la forte nostalgia e il desiderio di salutarlo relativi a quando avrei ripreso il viaggio verso l’interno. Quando mi sento bloccata, cerco l’acqua. Quando sono nei pressi di un lago, di un fiume, del mare, qualcosa dentro di me ricomincia a muoversi: sono nel flusso.

Quando si è in un flusso, non si lavora per un fine. Cosa ne pensi dell’imprevedibilità?
Mi interessa come le cose si evolvono, come si manifestano. Un detto cinese dice: «La grande immagine non ha forma». L‘immagine fissa è morta. Io cerco il “non ancora diventato”, qualcosa di ancora fluido. Ho un istinto forsennato, sono curiosa e mi piace modificare le opere quando le espongo di nuovo. Penso sempre alle installazioni, aggiungo, tolgo, combino, a seconda dello spazio. Anche l’imprevedibilità fa parte del mio processo: c’è sempre spazio per le coincidenze. Lavoro con la tempera all’uovo, una tecnica molto antica che combina acqua, colle e uovo. Ci vogliono sei settimane per l’asciugatura completa, durante le quali i colori mutano. Il processo è anche quello della stratificazione, strato di colore dopo strato di colore, su un punto della tela molti, su altri solo alcuni. In realtà sto costruendo il quadro, ma mi sembra un processo archeologico: sto scavando qualcosa e non so mai cosa troverò.

Angelika Wienerroither, “Rite of passage”. Ph. Helmut Graf, courtesy l’artista

Cosa ne pensi del termine “materialità” riferito al mondo artistico?
Mi piace giocare con la materialità. Per la serie “Rite of passage–on motherhood”, che tratta il concetto di natalità di Hannah Arendt, ho dipinto tessuti traslucidi. Mi piace toccare il materiale delicato, mi piace il fatto di poterlo intravedere e allo stesso tempo di poter vedere il dipinto, questo crea diversi livelli di percezione. Allo stesso modo sono però attratta dalle tele pesanti e spesse. Tuttavia, non le incornicio mai, e la maggior parte dei miei lavori sono enormi. Mi piace installarli nello spazio, ad esempio appendendole al soffitto o costruendo costruzioni in legno. Ricerco la sensazione di immersione che l’installazione crea. Inoltre, in questo modo è facile da trasportare. Non mi limito quasi mai ad appendere quadri incorniciati alla parete. Questo mi annoia.

Hai anche detto che ti piace esporre nelle case abbandonate, vuoi dirci qualcosa di più?
Mi interessa il flusso del tempo e le tracce del suo passaggio, per questo sono particolarmente attratta dalle case abbandonate. Mi piace installare i miei lavori in questi spazi, perché mi danno molta libertà. La mia prima personale è stata allestita in una Arbeiterhaus, un piccolo edificio dove i dipendenti della fabbrica possono dormire, lavarsi, cucinare. Ho lasciato lì una fotografia: dopo la mostra, una palla da demolizione ha tirato giù i muri, e con loro la mia opera è stata distrutta, insieme ai mattoni che un tempo la tenevano in piedi. Quei mattoni forti stavano cedendo il loro potere e sono stati distrutti come tutte le altre cose. Mi piacerebbe anche citare una mia mostra allestita in una vecchia birreria: qui ho appeso sulle alte pareti sedici fotografie che mostrano il passare del tempo. La colla che ho usato per l’installazione era forte, così quando ho cercato di rimuoverle, parti dell’intonaco si sono sbriciolate. Si possono ancora vedere i segni delle mie fotografie sul muro. Credo che mi piaccia lasciare qualche traccia.

Angelika Wienerroither, “Oceanic”. Ph. Michael Klimt, courtesy l’artista

Oggi, molti artisti utilizzano più di un medium espressivo: tu come ti comporti?
Mi piace esplorare un argomento in modo prismatico, guardandolo da diverse angolazioni, attraverso diverse matrici. Per questo il mezzo dipende fortemente da come i visitatori si sentiranno quando entreranno nell’installazione. Mi piace molto lavorare nella mia camera oscura, mi sembra di essere in un’astronave nello spazio, fuori dal tempo. Mi piacciono gli odori, il conteggio e il momento in cui appare l’immagine. Mi piace l’eccitazione quando accendo la luce per vedere se tutto è andato bene. La fotografia, tuttavia, si rapporta sempre alla realtà. Non si può fotografare qualcosa che non c’è, che non è accarezzato dalla luce. Ecco perché tre anni fa ho capito di essere affascinata anche dalla pittura. Il mio tema della fluidità, dei sogni e dei ricordi ha qualcosa di esterno, che posso materializzare solo con la pittura. Torno ancora alla fotografia analogica, ma più nel senso dei ricordi: cerco nel mio archivio le fotografie che posso utilizzare.

Angelika Wienerroither, “Jetlag”. Courtesy l’artista

Quali temi affiorano nella tua poetica?
In greco esiste una parola che indica uno slancio speciale, un’occasione da non lasciarsi sfuggire: kairos. In contrasto con chronos, che è il normale flusso del tempo, il kairos è un punto di svolta, il momento in cui qualcosa cambia. Sono sempre stata attratta da questi punti di svolta, l’unico momento pieno di presenza, quando tutto il corpo urla: «Ora!». Nel mio lavoro c’è sempre uno slancio verso il “non ancora diventato”, verso il modo in cui le cose potrebbero trasformarsi. Mi interessa la via di mezzo, il fluido, la metamorfosi. Mi interessa il processo e il momento del cambiamento. C’è un’altra parola greca che mi attira: peírata. Talete, il primo filosofo conosciuto, disse che tutto deriva dall’acqua. Il suo allievo, Anassimandro, sosteneva che la prosa informe sia il modo migliore per descrivere questo mondo fluido. Ma non siamo perduti. L’informe si manifesta per breve tempo in peírata, soglie, giunzioni, segni… Credo di aver sempre cercato questi peírata nell’arte e nella vita. Le mie opere sono, per me, artefatti di quelle soglie, peírata materializzati nel flusso della vita o manifestazioni di stati interiori.

A proposito di stati interiori, mi hai parlato di Lauren Fournier e del suo libro “Autotheory as Feminist Practice in Art, Writing, and Criticism”, questa lettura ha cambiato il tuo modo di pensare?
Con l’autoteoria è nata una parola importante, che in inglese è solo una lettera: “io”. Ho iniziato a liberare la mia diffidenza nei confronti dell’io: quello che ho da dire è importante, il mio essere in questo mondo è rilevante. Teorizzare attraverso le proprie esperienze, combinate con la letteratura e gli scritti di altri, è una pratica fortemente femminista: includere l’inquadramento del proprio essere in questo mondo. Il modo in cui si crea la conoscenza dipende sempre dal pensatore, dal luogo, dall’ambiente circostante. Nulla è mai oggettivo, e cercare di evocarlo è impossibile, una menzogna. L’autoteoria apre la gamma dei pensatori, delle biografie. Mette in discussione il «come si fa» e aggiunge ulteriori sfaccettature alla scienza. Dopo aver letto questo testo, ho iniziato a includere le mie osservazioni e i miei incontri nel dottorato, ho anche documentato come si sono evoluti i miei pensieri, mostrandone il processo. Mi piace pensare alle modalità di introspezione: come conservare quei piccoli ma preziosi momenti della vita? Come non perderli nel flusso del tempo?

Angelika Wienerroither, “Fluid manifest”. Ph. Christian Ecker, courtesy l’artista

Ultima domanda: quali sono i tuoi progetti per il 2024?
Poiché nel mio progetto di dottorato ricerco l’aspetto del mondo a bordo di una nave, ho deciso di salire su una barca a vela. In primavera sarò in Norvegia e navigherò da Tromsø, nelle isole Lofoten, a Longyearbyen, nelle Spitsbergen. Passerò otto giorni sulla nave, percorrendo seicento miglia nautiche. Vedrò l’acqua tutto il giorno e la notte. E spero di riuscire a vedere la magica aurora boreale.

Erka Shalari

Info:

Angelika Wienerroither
wienerroither.photo


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