Mescolando folklore slavo, rituali pagani, miti leggendari e problematiche contemporanee, l’artista visuale Anna Perach (1985, URSS) elabora un racconto inedito con il quale esplora gli antichi e complessi archetipi femminili che sottostanno alle convenzioni sociali nelle diverse comunità. Nel lavoro di Perach queste «immagini primordiali» in continua riformulazione, diventano creature tattili dalle sembianze ibride e polimorfe, in grado di evocare in chi le osserva sia un senso di inquietudine e sia di familiarità. Realizzate con la tecnica artigianale del tufting (che consiste nella produzione di ciuffi di filato su un supporto di base) le sculture si contraddistinguono per la loro duplice natura: statica e dinamica. Esse possono essere sia oggetti autonomi e autoportanti, grazie all’uso di strutture interne in legno, sia costumi indossabili come parte integrante di un programma performativo. Partendo dalla creazione di maschere e giungendo all’elaborazione di figure a grandezza naturale, Perach sfonda i confini intangibili dell’inconscio collettivo, portando l’attenzione sull’eredità culturale e sui ruoli di genere che definiscono la società contemporanea.
La tua pratica artistica si basa sulla tecnica del tufting. Quando hai cominciato a usare questo mezzo?
Mi avvicinai al tufting durante il MFA alla Goldsmiths University a Londra, e fin da subito ho provato un senso di familiarità e attrazione per la sua texture e per il suo potenziale 3D. Prima di dedicarmi al tufting ho sperimentato diversi materiali come il tessuto, la ceramica e il ricamo, nonché l’assemblaggio di oggetti quotidiani. Grazie al suo uso in ambienti domestici, questa tecnica incorpora una serie di caratteristiche che si sposano perfettamente con molti dei temi che affronto nella mia ricerca, quali l’identità, la domesticità, il patrimonio culturale e le dinamiche dei ruoli di genere.
Potremmo definire la tua estetica come «grottesca». Quali sono le tue fonti d’ispirazione?
Inizialmente ho rivolto la mia attenzione all’analisi della mitologia slava. In particolare ero attratta, e lo sono tutt’ora, da quei personaggi femminili che, durante il corso della storia, hanno subito una qualche forma di trasformazione oppure il cui ruolo si contraddistingue per la sua complessità e dualità. In seguito, ho cominciato ad ampliare la mia prospettiva focalizzandomi su leggende e mitologie di altre comunità, nelle quali notavo che si ripetevano gli stessi archetipi. Questa intenzione mi ha portato a elaborare un’estetica attraente, dai colori brillanti e dal materiale familiare e, al tempo stesso per via del suo contenuto sottostante, inquietante e scomoda.
Per quale motivo hai cominciato a interessarti alla psicologia analitica e perché solamente agli archetipi femminili?
Nel 2007, mentre completavo il BFA in Arte, cominciai a lavorare nel campo dell’educazione e a studiare le teorie che regolano le dinamiche di gruppo sviluppando un forte interesse verso l’ambito della psicoterapia. Naturalmente, queste esperienze nel mondo della terapia penetrarono e influenzarono il mio lavoro che, dopotutto, è incentrato sulle persone e sulle loro storie. Essendo una donna, mi identifico più facilmente con le persone del mio stesso sesso, sento un accesso immediato al loro mondo. In altre parole, provo un senso di empatia verso i loro racconti, che cerco di condividere mediante l’uso degli archetipi.
Molti dei tuoi lavori, oltre a essere degli oggetti autoportanti, sono dei costumi indossabili. Quando hai cominciato ad accompagnare il movimento alle sculture?
È avvenuto abbastanza naturalmente, più o meno quando ho cominciato a creare le maschere in tufting. In quel periodo ero concentrata sugli indumenti cerimoniali e sulla loro funzione sociale all’interno delle comunità. Ho iniziato a immaginare l’ambiente domestico come un luogo di rituale privato dove la maschera è il costume che un individuo porta per reprimerlo. Ho cominciato a domandarmi che cosa accade alla persona una volta che entra nel costume, ovvero una volta che indossa la maschera. E così iniziarono le prime attivazioni. L’elemento performativo divenne una parte integrante del lavoro, presente fin dal concepimento dell’opera, piuttosto che essere un’aggiunta secondaria al suo completamento. Per studiare il movimento delle sculture e la loro presenza all’interno dello spazio ho intrapreso una lunga collaborazione con Luigi Ambrosio, il quale ha una grande abilità a ispirare vulnerabilità e forza in ogni personaggio. Quando la performance si conclude, il costume viene posto su un supporto in legno su misura, che riproduce la vivacità del pezzo durante la sua attivazione.
Parliamo di Seven Wives (2020), qual è la storia e quale il messaggio di questo pezzo?
Seven Wives si basa sul racconto del sanguinario Barbablù [di Charles Perrault], che uccise le sue mogli [una dopo l’altra gettando poi i corpi nel sotterraneo del suo castello]. In una particolare illustrazione della fiaba è rappresentata la stanza in cui sono tenuti i resti umani: le teste delle donne sono state recise dai corpi senza vita e appese a una corda. In Seven Wives ho ricreato le sette teste capitonnées delle mogli, ognuna delle quali fa riferimento a uno dei sette archetipi junghiani delle donne. Le teste sono appese con dei ganci a S – spesso usati per la carne – a una corda di canapa. Durante la performance vengono attivate tre maschere, i performer creano dei rituali personali ispirati ai movimenti associati all’isteria. Con questo progetto ho voluto ricollegare le teste ai loro corpi, il razionale all’esperienziale.
I tuoi primi lavori sono delle maschere che si sono poi sviluppate in forme a grandezza naturale, come per esempio Baba Yaga (2019). Che cosa ha determinato questa evoluzione?
Ho cominciato a sviluppare pezzi più corposi quando mi sono sentita in grado di realizzare forme più complesse e ambiziose. Parlando in termini di contenuto, c’è stato uno spostamento graduale dal volto e dall’identità verso il corpo e ai ricordi che questo custodisce. Detto questo, mi piace ancora creare maschere e penso che sia un terreno fertile.
Talvolta nelle tue performance alcuni personaggi si incontrano, come Baba Yaga e Alkonost (2019). Da dove è nata l’idea di mettere in dialogo queste due figure immaginarie?
In precedenti performance avevo sperimentato la messa in scena di diverse sculture indossabili per vedere come il loro incontro potesse esaltare caratteristiche e aspetti dei loro personaggi. Con Baba Yaga e Alkonost ho voluto far emergere la relazione tra madre e figlia: Baba Yaga [generalmente identificata come una strega o un’incantatrice in grado di dare consiglio ma, allo stesso tempo, compiere azioni spregevoli] è la madre dal carattere intimidatorio e protettivo, mentre Alkonost [conosciuta come la giovane ingenua tradita poco prima delle nozze] è la figlia che sta cercando la propria voce. Se inizialmente, durante la performance, la madre svolge un ruolo predominante nei confronti della figlia, gradualmente la sua potenza si affievolisce fino a dissolversi lasciando emergere la figlia, la quale diventa più consapevole e fiduciosa.
Vorrei chiederti qualcosa su uno dei tuoi ultimi lavori: Spidora (2022). Com’è nata l’idea di questa scultura?
Come parte integrante del lavoro con i performer, mi informo e cerco di ripercorrere le loro esperienze mentre abitano le sculture. In particolare mi interessa quella tensione che si crea tra il ballerino e il costume durante la performance. Ed è stato questo legame a portarmi all’immagine di Spidora [una creatura mostruosa, con la testa di donna e il corpo di ragno, nata dagli esperimenti ottici del mago inglese Henry Roltair]. Per me Spidora è una donna il cui corpo è stato limitato e potenziato da un dispositivo indossabile, la cui trasformazione ha confinato il suo corpo, rendendola così una vittima. Osservando questo personaggio, emerge una dualità tra l’aspetto intimidatorio e pauroso di Spidora come associazione al temibile ragno «vedova nera» in grado di divorare il maschio, e la sua natura vulnerabile, rappresentata dalla sua prigionia all’interno del costume. Volevo espandere il suo mondo e dare spazio a questa sua complessità.
Spidora è stata recentemente esposta a Londra in un’installazione che comprendeva altre due opere: Sack of Body Parts e Working Frame. Come si collegano queste tre sculture?
Lo spazio della mostra costituiva il covo di Spidora, dove lavorava meticolosamente alla creazione di altre parti corporee destinate poi ad assumere forme più complesse, come quelle di Spidora stessa. Tutte le opere [che compongono l’installazione] hanno il potenziale per diventare “altro”: Working Frame contiene delle porzioni di pattern trapuntati da cui è nata Spidora; Sack of Body Parts raccoglie diversi modelli in forme 3D quali teste, gambe, mani e altro, cuciti insieme. Queste [parti di corpo] più tardi si sarebbero schiuse per diventare altre Spidora. Spidora, dunque, non ha una forma definita, prestabilita, ma è in grado di sviluppare arti aggiuntivi e di decomporsi. Oltre alla storia di Spidora, la mostra riflette sulla mia pratica in studio e sul processo del tufting, del cucito e della creazione di sculture indossabili.
La mostra era accompagnata da un audio. Il suono è un elemento ricorrente nelle tue installazioni?
Il suono è uno strumento potente, in grado di creare determinati ambienti e di consentire allo spettatore di immergersi nello spazio espositivo. Si tratta di una componente presente nella maggior parte delle mie performance e delle mie mostre personali. Lavoro con un produttore sonoro, Jamie Hamilton, che mi aiuta a trasformare le immagini e i miei pensieri in suoni. Spesso ci concentriamo sui rumori e sui suoni che i materiali presenti nelle singole mostre possono produrre. Per Spidora, Jamie, mi ha registrato mentre lavoravo nel mio studio, soprattutto quando lavoravo al telaio con la pistola, cucendo e tagliando. Inoltre, aveva registrato il respiro del performer mentre provava i movimenti. Questa tecnica di sound making ci ha permesso di creare un audio che fosse idiosincratico alla performance.
Baba Yaga, 2018, axminster yarn & artificial hai, 80 x 90 x 170 cm, Photo by Matt Ashford, Courtesy of the artist and ADA, Rome
Alkonost, 2019, tufted yarn, hand embroidery, 80 x 130 x 60 cm, Photo by Matt Ashford, Courtesy of the artist and ADA, Rome
Seven Wives, 2020, tufted yarn & artificial hair, metal hooks and hemp rope, size varies, performance at Goldsmiths University, London, Photo by Matt Ashford, Courtesy of the artist and ADA, Rome
Spidora, 2022, Installation view at Edel Assanti, London, Size Varies , Photo by Andy Keate, Courtesy of the artist and Edel Assanti, London
Anna Perach, Storia Notturna, 2020, Photo by Roberta Segata, Courtesy Centrale Fies1, Dro
Mariavittoria Pirera, classe 1995, ha una formazione storico-artistica conseguita con una laurea triennale in Storia dei Beni Culturali, profilo storico artistico, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e con una laurea magistrale in Storia e Conservazione dei beni artistici, storia dell’arte contemporanea, all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Vive e lavora a Milano.
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