Abbiamo intervistato Arianna Carossa in occasione di una residenza al Museo Carlo Zauli avvenuta dal 22 al 31 luglio. Arianna Carossa è un’artista nata a Genova che vive e lavora a New York, si è trovata a Faenza per produrre una nuova serie di opere in ceramica, dove ha lavorato all’interno dei laboratori che furono di Carlo Zauli.
Proprio con la terra nera conservata nei depositi dal periodo in cui il maestro la utilizzava per le sue steli monumentali, Carossa ha lavorato ad un progetto che integra, come sempre accade nella sua poetica, cultura e natura.
L’artista infatti, dopo anni di lavoro con la ceramica in modo tradizionale, è giunta ad un approccio scultoreo di relazione: la sua sfida attuale è individuare legami tra sostanze, concetti e materiali molto distanti tra loro. Anche a Faenza quindi ha unito resti organici di animali, come favi, corna, conchiglie a materiali della tradizione scultorea, in questo caso la ceramica, per integrare cultura e natura, mondi spesso tenuti distinti e separati.
Come definiresti l’essere artista? E che ruolo dovrebbe avere o ha nella società contemporanea oggi?
Una persona che ha a disposizione l’arte come strumento per l‘esplorazione di sé stesso e per la propria crescita umana. Platone racconta nella Repubblica, che l’artista sarà osannato al suo ingresso e ricoperto di onori, ma dovrà lasciare la città nella notte. Questo è significativo e racconta di come l’artista per sua natura viva una mancanza.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studentessa?
La formazione accademica universitaria per me significa la possibilità di conoscere e imparare tecniche e di aver delle guide di riferimento metodologico, possono offrirti informazioni di varia natura. La scuola è allenamento per trapezisti come direbbe Peter Sloterdijk, un allenamento indoor. Ma se non hai niente da dire non te lo suggerisce. Dopo aver studiato pittura, arrivata alla galleria Cannaviello, ho smesso di dipingere per quasi dieci anni. Insomma ho dirottato tutte le mie energie sulla scultura che per me era un terreno più libero ed ampio dove far galoppare errante la creatività. Aver studiato pittura mi ha resa per molti anni iper critica nei confronti di quello che facevo. Il mio rapporto con la scuola è stato un po’ controverso.
Come ti sei avvicinata all’arte? Hai qualche ricordo? E alla ceramica?
Ho iniziato a fare quello che mi veniva e mi piaceva molto giovane, forse 10 o 11 anni, per me era un modo per esprimermi e per contenere sentimenti che talvolta erano deflagranti dentro di me. Non ho un vero e proprio ricordo perché tutta la mia vita è stata una relazione con la possibilità di esprimermi e nel cercar di trovare delle strade personali aderenti il più possibile a me. Nel momento in cui ho socchiuso la porta alla pittura ho iniziato con la ceramica, mi fu offerta quindici anni fa la possibilità di lavorare ad Albisola in una fabbrica di pentole di coccio, la Piral. Da quel momento il modellato è diventato fondamentale nella mia ricerca.
Hai una carriera internazionale che ti ha vista esporre in prestigiosi spazi e città come all’Arc Gallery di Chicago alla Biennale d’arte contemporanea, a San Pietruburgo presso il Manage del Museo Ermitage , alla Biennale degli artisti del Mediterraneo in Tunisia, Documenta 11 kunstbalkon a Kassel, al MACRO di Roma, Lower Manhattan Council di New York, Fondazione Antinori, Firenze, Vittoriano a Roma, tanto per citarne alcuni; che differenza di approccio all’arte trovi rispetto al contesto nazionale italiano?
In Italia l’artista non ha un’identità, mentre negli Stati Uniti, dove vivo da nove anni, sì. L‘artista sussurra il suo nome in Italia. Questa realtà mi risulta scomoda. A nessuno piace vivere in spazi angusti.
Ci racconti la tua recente esperienza al Museo Carlo Zauli di Faenza?
Avevo bisogno di un luogo che mi desse la possibilità, come un nido, di sperimentare il volo con la ceramica e che nello stesso tempo potesse valorizzare il lavoro ottenuto. Il museo Zauli mi pareva potesse avere queste caratteristiche.
Nel 2014 è uscito il tuo libro The aesthetic of my disappearance lanciato dal Moma/PS1 – ci puoi raccontare le tematiche che hai attraversato?
È stato quello il momento in cui ho iniziato a riflettere di più sul ruolo dell’artista e sulla sua produzione. Mi sentivo distonica nei riguardi non solo del sistema dell’arte ma anche nei riguardi di quello che sentivo fosse il nuovo consumismo dell’immagine. Così ho fatto un libro insieme a nove curatori descrivendo opere verbalmente. Opere mai realizzate. Il libro è andato benissimo.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
È una storia d’amore in atto. Non potrei vivere da nessun’altra parte. NYC, la mia Brooklyn è il luogo in cui sperimento a cielo aperto l’history continua delle relazioni.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea attuale?
Il sistema dell’arte assomiglia moltissimo a quello della borsa. L’oggetto non ha più valore intrinseco, ma determinato dal sistema, formato da grandi gallerie e aste. Un sistema che esclude l’artista. Gli artisti stessi sono desiderosi più di entrare nel sistema e di diventare impiegati dell’arte che di emanciparsi dall’egemonia del sistema, godono nel sentirsi parte sostituibile del meccanismo. Per quel che mi riguarda, non essendo l’arte il mio fine, mi sento piuttosto libera da questo meccanismo.
Ultima domanda: c’è qualcosa che nessuno ti hai mai chiesto ma che avresti desiderato ti chiedessero?
Sì: qual è secondo te l’elemento necessario intrinsecamente legato, mischiato alla grammatica e sintattica di un lavoro estetico che ne determina il suo funzionamento o il suo non funzionamento. La mia risposta sarebbe, il respiro che posso chiamare anche eros.
Info:
Arianna Carossa, Residenza Museo Carlo Zauli, 2019
Arianna Carossa, Black bones, ceramica smaltata e favo d’api. Cm 30x25x27. 2019
Arianna Carossa, Totem dell’uccellino, ceramica smaltata. 40x35x30, 2018
Arianna Carossa, Piccola carne, 50×70 olio su tela. 2019
Arianna Carossa, Testa cruda, favo d’ape, argilla cruda. 2019. Showroom Kartell, New York.
(1990) Laureata al DAMS di Bologna in Arti Visive con una tesi sul rapporto e i paradossi che intercorrono tra fotografia e moda, da Cecil Beaton a Cindy Sherman, si specializza all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel biennio in didattica dell’arte, comunicazione e mediazione culturale del patrimonio artistico con una tesi sul percorso storico-critico di Francesca Alinovi, una critica postmoderna. Dal 2012 inizia a collaborare con spazi espositivi svolgendo varie attività: dall’allestimento delle mostre, alla redazione di testi critici o comunicati stampa, a laboratori didattici per bambini, e social media manager. Collabora dal 2011 con varie testate: Vogue online, The Artship, Frattura Scomposta, Wall Street International Magazine, Forme Uniche Magazine.
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