A Genova dal 5 al 17 novembre 2024 va in scena Testimonianze ricerca azioni, il Festival promosso dal Teatro Akropolis e che dobbiamo considerare uno dei principali appuntamenti multidisciplinari italiani. La quindicesima edizione è una rinnovata occasione per fare il punto con Clemente Tafuri (direttore artistico del festival assieme a David Beronio) sulla rappresentazione e i suoi confini, sulla tradizione e il suo tradimento, sulla forma dell’immaginazione e i suoi limiti.
Simone Azzoni: Un anniversario ha sempre con sé il rischio di storicizzare, di congelare. Qual è il bagaglio con cui affrontare i confini del futuro?
Clemente Tafuri: Un anniversario dovrebbe essere l’occasione per cambiare le cose. Per mettere a fuoco i passi falsi e capire come e con chi portare avanti un cammino. Il rischio di congelare le cose c’è ogni giorno. Si sente spesso dire che viviamo un’epoca in cui tutto dura sempre meno, in cui le cose si valutano con una misura del tempo sempre più effimera. Paradossalmente storicizziamo tutto in un lampo e archiviamo con la stessa velocità, senza nessuna coscienza critica. È un processo tanto veloce e senza controllo che il processo stesso si sostituisce ai contenuti e alle cose. È come un panorama visto da una macchina in corsa. Tutto è sfumato e con forme apparenti. Sembra tutto uguale, e in fondo finisce col diventarlo. Il bagaglio da portarsi dietro, forse, è la capacità di guardare al di là del momento, delle mode, di quello che viene definito attuale. Non per dimenticarsene, ma per attraversarlo intuendone il senso, posto che ne abbia.
Perché lo fai? Si chiedeva sempre Peter Brook. Perché lo fate? Qual è il rilascio visibile sul territorio, la presenza tangibile della vostra azione sulla comunità di riferimento?
Il teatro, come tutta l’arte, non ha nulla di educativo, se per educativo intendiamo le buone maniere e una vita regolata dal senso comune. L’arte ci offre la possibilità di accedere alle parti oscure, misteriose, nascoste di noi e del mondo. È un’occasione unica per capire un po’ meglio cosa abbiamo intorno, quello che accade. Un artista vive in questa consapevolezza, e non è certo qualcosa di confortevole. Un’opera è sempre un enigma da attraversare, e chi si avvicina a questa complessità deve avere gli strumenti per farlo. A chi verrebbe in mente di fare un qualsiasi lavoro senza averne le competenze anche minime? A un idiota. A un incosciente. Ma la comunità non va educata dall’arte. Non direttamente, non attraverso l’opera. Per questo un teatro ha il dovere di progettare le sue attività in funzione dell’approssimarsi all’opera. In questo senso si definisce un teatro come luogo di cultura e come spazio dedicato all’arte. Sono attività strutturalmente connesse ma mai sovrapposte. Ed è questo il motivo per cui a Teatro Akropolis abbiamo, fin da subito, oltre agli spettacoli, programmato convegni, seminari, laboratori, progetti editoriali e di residenza.
Performativo, azione, interrogazione della crisi della rappresentazione. Per distinguersi dai numerosi festival occorre ribadire una identità che sia però mobile risposta ai tempi. Cosa cambia e cosa deve rimanere Akropolis?
Cambia sempre tutto. Ma rimangono le stesse urgenze, le stesse domande, gli stessi problemi con cui ci confrontiamo da sempre. Ovviamente con nuovi progetti e nuove traiettorie. Immaginando modi nuovi per avvicinarsi con più coerenza, radicalità e profondità alle questioni che hai giustamente messo in evidenza. L’identità è qualcosa che si definisce in un cammino, non esiste in assoluto. Ed è quindi sempre in dialogo e in rapporto con quello che accade. L’identità si struttura, evolve, si trasforma.
Qual è la contemporaneità dialogica di un mito?
Il mito è fuori da ogni storia, ma attraversa con inaudita potenza ogni momento della storia. È il grande tema dell’origine che si ripresenta inesorabilmente. Ogni civiltà si fonda sui miti che ha elaborato, potremmo dire che ha scoperto. Ma non è una questione archeologica. Ognuno di noi è espressione del mito. In questo senso la conoscenza è solo nel passato, nell’evocazione continua dell’origine che si manifesta in ogni azione. Il teatro è una grande occasione per intuire questa presenza, sempre che non si riduca tutto a un banale racconto o non si faccia del mito un pretesto per parlare dei fatti propri.
Produzione e mercato. I compromessi a cui non scendere?
Qual è il motivo per cui un artista concepisce ed elabora una creazione? È una domanda semplice, e vale la pena porsela. La risposta è il compromesso a cui ti riferisci. Se l’opera è il frutto di un confronto con la volontà di dare un messaggio, il compromesso a cui cedere è il linguaggio, la parola, la forma, con tutto il portato etico che questo implica. Se il confronto è con la circuitabilità dell’opera e la sua affermazione, il compromesso è con il mercato e il gusto del pubblico. In definitiva, l’opera è sempre un compromesso proprio perché è un’azione concreta. Ma un conto è lo spettacolo, la messa in scena, altra cosa è la ricerca. Voglio dire che la ricerca non dovrebbe mai scendere a compromessi. Non può essere ispirata dalle esigenze del pubblico, dagli algoritmi o peggio ancora da questioni economiche. Una ricerca seria e rigorosa dovrebbe essere un presupposto per evitare situazioni imbarazzanti in scena. Dovrebbe, non è detto, ma dovrebbe.
Disegnaci una mappa. Dove senti traiettorie da seguire nel panorama europeo?
Assistiamo da anni a una sorta di ritorno all’ordine. Come se tutto il Novecento non fosse esistito. Il dibattito sul grande tema filosofico della rappresentazione, l’esigenza di una nuova critica, il rapporto tra arte, cultura e comunità. Sembra tutto essere dimenticato, o risolto con ragionamenti elementari, il più delle volte ispirati a questioni passeggere, che durano il tempo di una stagione. Non esiste una traiettoria. Esistono artisti e studiosi che continuano a lavorare seriamente. E questo accade nelle diverse declinazioni in cui il teatro si configura. Non c’è una scuola, un genere, un movimento, una disciplina, un luogo geografico.
Due parole sul vostro ultimo progetto…
Il film su Carmelo Bene che presentiamo in questa edizione del festival credo che metta a fuoco in maniera piuttosto precisa quello che ci stiamo dicendo. È l’ultimo capitolo della Parte maledetta, il progetto cinematografico di Teatro Akropolis, e affronta il lavoro di Carmelo Bene da un punto di vista filosofico, mettendo in luce il paradosso dell’arte: ovvero la sua inevitabile incompletezza rispetto alla vita e a ogni processo di creazione. È il limite della rappresentazione in senso schopenhaueriano. Tutta l’opera di Bene si ispira a questo, e credo che sia piuttosto importante non smettere di riflettere su questo problema, che è in tutta evidenza uno dei problemi centrali dell’arte e del teatro.
Info:
Testimonianze ricerca azioni
Teatro Akropolis
Via Mario Boeddu 10, 16153 Genova
5/11/24 – 17/11/24
teatroakropolis.com
È critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine presso l’Istituto di Design Palladio di Verona e Arte contemporanea presso il Master di Editoria dell’Università degli Studi di Verona. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. È direttore artistico del festival di Fotografia Grenze. È critico teatrale per riviste e quotidiani nazionali. Organizza rassegne teatrali di ricerca e sperimentazione. Tra le pubblicazioni recenti Frame – Videoarte e dintorni per Libreria Universitaria, Lo Sguardo della Gallina per Lazy Dog Edizioni e per Mimemsis Smagliature nel 2018 e nel 2021 per la stessa casa editrice, Teatro e fotografia.
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