“Dispensa terzospazio” è un progetto di residenza a cura di Giulia Mariachiara Galiano e Martino De Vincenti. Nato per esperire in modo approfondito e reiterato il fare artistico, allarga il focus, dall’opera finita e la sua restituzione, al processo e al contesto di creazione. Presso terzospazio – ultima inaugurazione veneziana dell’associazione culturale zolforosso – proiezioni, laboratori, incontri, talk e studio visit tessono minuziose relazioni tra gli artisti residenti e il pubblico. La prima serie di eventi vede coinvolta Greta Maria Gerosa (Lecco, 1997), artista visiva il cui focus di ricerca è il confronto con l’estetica del controllo e con i filmati prodotti dalle videocamere di sorveglianza.
Alessia Baranello: Is it a bird, watching?, cortometraggio del 2022, è stato il primo dei tuoi avvicinamenti alle estetiche della sorveglianza. Nidi di cicogne sparsi per il mondo diventavano protagonisti di una sceneggiatura dettata dall’intelligenza artificiale GPT3, in una favola che traccia incontri e perturbazioni interspecie. Da dove arriva l’interesse per la TVCC (televisione a circuito chiuso) come strumento filmico?
Greta Maria Gerosa: Mi sono avvicinata alle immagini prodotte dalle videocamere di sorveglianza leggendo Memestetica. Il settembre eterno dell’arte (2020) di Valentina Tanni. Ho cominciato a pensare alle videocamere in termini cinematografici, come costruttrici di scenari; i loro filmati come piani sequenza in continua autoproduzione, in attesa di essere scoperti. A ossessionarmi è stata la capacità filmica delle immagini della sorveglianza, che raramente sono state usate per produrre nuovi contesti, come invece accade in Is it a bird, watching?. La sceneggiatura del cortometraggio, presentato prima al Teatro PACTA di Milano e poi presso zolforosso a Mestre, è stata scritta da un’intelligenza artificiale, a sua volta folle produttrice di copioni se usata con specifici parametri e insistente testardaggine. Nel processo di scrittura su GPT3, infatti, da un lato, l’A.I. ribadisce in modo persistente un punto, una direzione da dare alla storia; dall’altro, lo user umano si ostina a forzare la narrazione verso un proprio soggetto di interesse.
Nell’ultimo incontro di “Dispensa terzospazio” che ti ha vista protagonista e regista – insieme a rob van den berg – di un happening che ha attraversato lo spazio espositivo e la città di Venezia, presenti il fanny pack. Un dispositivo di ripresa vicino ai più recenti sistemi di videosorveglianza indossabili. Ci parli di webcam, telecamere per auto in sosta o, ancora, le body cam dei poliziotti.
Ho cominciato a cucire i primi fanny pack nell’ottobre 2022, mentre ero in residenza presso Dolomiti Contemporanee (Borca di Cadore, Belluno). Lavoravamo in un ex-villaggio Eni, un complesso di oltre centomila metri quadrati che, con i suoi corridoi vuoti e l’architettura consumata, mi faceva paura. Così, ho deciso di costruirmi una sorta di protezione da quel luogo temuto: con dei comuni marsupi, in cui inserivo cellulari, operavo una specie di sorveglianza inversa, speculare: sorvegliavo chi mi spiava alle spalle. L’idea del fanny pack è nata interrogandomi su quale fosse effettivamente il sentimento più autentico suscitato dalla pervasiva presenza dei sistemi TVCC nelle nostre città. Dal 2001 si è deciso che la culture of fear si deve combatte con occhi-macchina e, in effetti, la reazione più comune di fronte a una sorveglianza martellante è quella di volersi proteggere a propria volta, tramite un altro occhio che ci guardi le spalle. Rendere i fanny pack indossabili, abbassando il punto di vista, è stata una reazione fisica abbastanza istintiva alla staticità del lavoro di sorveglianza dei nidi che mi aveva tenuta occupata nei mesi di realizzazione di Is it a bird, watching?. Avevo bisogno di rimettermi in gioco con il corpo.
Quali sono le conseguenze che questo abbassamento del punto di vista ha avuto sul mezzo linguistico e sul prodotto filmico?
Sicuramente una sorveglianza autonoma, ad altezza uomo e in movimento, ribalta le gerarchie tra sorvegliante e sorvegliato. Per descrivere questa inversione il canadese Steve Mann ha coniato il neologismo sousveillance, dove sostituisce sur (in francese “sopra”) con sous (“sotto”). Ma c’è di più. Negli happening legati ai fanny pack, avviene uno sdoppiamento tra due performer, un regalo accompagnato da un patto. La collaborazione con un sorvegliante amico crea una mutua sorveglianza, più bassa, meno egemonica, dal momento che colui che vigila con me, d’altra parte, vigila anche su di me. La performance funziona in questo modo: una volta indossati i dispositivi di sorveglianza innocui, i due sorveglianti azionano i loro occhi e le loro orecchie elettroniche, dando vita a due canali di ripresa autonomi che documentano la passeggiata. Dopo la prima registrazione, effettuata in simultanea, ho iniziato a pensare al potenziale di questo doppio canale audio e video. Manipolando le immagini e l’ambiente sonoro in post-produzione, mi sono accorta di come, nonostante questo lavoro di alterazione, fossero proprio le caratteristiche estetiche e fisiche della sorveglianza a far apparire il prodotto sempre estremamente autentico e tangibile. Il tema del binomio realtà-finzione è al centro di produzioni come il mockumentary, un prodotto audiovisivo deliberatamente volto a generare confusione nello spettatore, in grado di comporre storie e immagini di finzione tramite media e tecniche di ripresa che possiedono, nell’immaginario comune, un forte carattere veritativo, come la shaky cam[1].
Presso terzospazio hai messo da parte la manipolazione dell’immagine in post-produzione, per confrontarti con l’aspetto performativo del fanny pack, operando una restituzione filmica in presa diretta, dove performance e video di restituzione si svolgono in simultanea. Ce ne parli?
Si tratta, in sostanza, di un’azione live, di un happening nell’effettivo. Il fanny pack, più che come un’opera finita, sta cominciando a configurarsi come un dispositivo con cui indagare e “sorvegliare” luoghi, paesi, ambienti ed ecosistemi che risultano puntualmente differenti. La performance ha visto me e rob van den berg partire da terzospazio per attraversare lo spazio pubblico: siamo passati dal bar dove di solito ci fermiamo, dal posto in cui lavoro… Abbiamo incontrato amici e sconosciuti che, non sapendo che le riprese del fanny pack erano in presa diretta, hanno cominciato a chiacchierare con noi. La gestione dell’aspetto sonoro era fondamentale: i suoni delle conversazioni e degli incontri venivano manipolati live dal sound artist Marco Billi, il quale riceveva i segnali dai nostri fanny pack. La questione relazionale non è da mettere in secondo piano. Essa costituisce probabilmente il fulcro dell’abbassamento voluto dal fanny pack. Il pubblico di “Dispensa”, nonché i passanti incontrati durante la passeggiata, hanno avuto la possibilità di intervenire quando volevano nel corso del prodotto filmico: l’arma della sorveglianza, in fondo, può essere abbassata dallo stesso spettatore.
Le immagini retinate, burrascose e sporche prodotte dai fanny pack, mi hanno fatto pensare alla storia con cui Hito Steyerl apre il testo Documentary Uncertainty. Durante i primi giorni dell’invasione americana in Iraq, un corrispondente della CNN che si trovava a bordo di un veicolo blindato, registra con la telecamera del cellulare gli scontri tra iracheni e americani. Le immagini che ne risultano sono texture indistinguibili, confuse e a bassa risoluzione.
L’aspetto indefinito delle immagini prodotte dal fanny pack deriva, in un certo senso, dalla sua stessa composizione materica. Il marsupio, infatti, è stato realizzato cucendo i copricapi delle cuoche che lavoravano nell’ex colonia Eni di Borca di Cadore. Retine semitrasparenti e tramate che vengono sfruttate in modo duplice: con la trasparenza si genera un’illusione di visione totale e, contemporaneamente, la trama retinata distorce l’immagine generando dei prodotti video amatoriali a bassa definizione. Il fanny pack contiene un iPhone 12, ma nonostante le sue possibilità tecniche di questo dispositivo, vado sempre in cerca della spontaneità di un’immagine poco definita. Queste “immagini povere”[2], per citare Steyerl, si allontanano dalle imposizioni del grande cinema, si ribellano agli ordini, per ritornare a un’estetica più familiare, più veritiera.
Per Claire Bishop, questa opacità è una delle caratteristiche fondanti delle immagini contemporanee: in un’epoca dove viene messa costantemente in discussione l’esistenza di verità univoche, le immagini poco nitide tendono a rispecchiare lo stesso processo. Sempre per Steyerl, il fulcro dell’immagine documentaristica non è tanto la sua veridicità o il messaggio che lancia, quanto più il dubbio e l’interpretazione che è capace di innescare. Non sembra che più le immagini siano immediate, imboccate e nitide, meno ci sia da vedere?
Sembra un paradosso, eppure, come scrive Marco Bertozzi, le immagini a bassa definizione appaiono più adatte a esprimere il respiro della vita stessa, l’incertezza con cui essa si sviluppa[3]. E ancora, Paolo Gioli, intervistato da Giuliano Sergio, affermava qualcosa di analogo sull’alta definizione: essa è “più vera del vero”[4], percepisce più nitidamente dell’occhio umano e, forse proprio per questo, non viene creduta. C’è un aneddoto che manifesta nella maniera più puntuale quello che sto cercando di dire. Siamo agli albori della fotografia e alcuni “commercianti” cominciano a vendere ritratti scattati con il metodo del dagherrotipo, restituendo immagini grezze e sfocate, sostenendo che si tratta di fotografie dei loro antenati, fantasmi dei loro cari. Una sorta di amuleto che in qualche modo è capace di tenerli in vita… È qui che sta il potere attrattivo dello sfocato: si tratta di una macchia aperta, una superficie luminosa ma indefinita, che rende instabile la figura e, perciò, auspicabile una deformazione e possibile una trasformazione.
Questa apertura ci porta di nuovo a considerare le sfumature tra veridicità e finzione nell’immagine in movimento. L’installazione delle prime videocamere di sorveglianza nei luoghi pubblici costituisce una promessa di sicurezza, di veridicità da parte del controllo statale, ma sembra che, nel tempo, grazie all’intervento di artisti e cineasti abbia preso tutt’altra forma, non credi?
Considerare l’estetica della sorveglianza e dei suoi prodotti – che sia quella operata dalle videocamere di sorveglianza o quella delle body cam – significa scegliere di confrontarsi e mettere in gioco un’immagine che è ontologicamente, ma anche politicamente e socialmente, legata al reale. Ciò porta – tanto il regista quanto lo spettatore – a dover considerare il binomio realtà-finzione. Porto un ultimo esempio: nel lungometraggio 87 ore (2015) di Costanza Quatriglio l’uso del medium della sorveglianza è intrinsecamente legato e implicato nel concept del film. Il titolo, infatti, si riferisce alle ottantasette ore che sono state registrate da alcune telecamere di sorveglianza all’interno del reparto psichiatrico di un ospedale pubblico a Vallo della Lucania, dove un maestro di scuola elementare viene ricoverato e sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio a causa di problemi psichici. Quatriglio, con i video acquisiti dall’ospedale, ricostruisce le tappe di questo crudele percorso in una “civilissima” Italia. I filmati prodotti del sistema TVCC sono stati montati insieme per mettere in luce una verità scomoda. È nel medium, quindi, che si trova il carattere fondante di questo coraggioso atto di denuncia e, contemporaneamente, la sua attendibilità. Nella colonna sonora emerge inevitabilmente una certa autorialità, un intervento artistico della regista, la quale spinge sul suono per toccare tasti emozionali. Interviste dei presenti nel momento prima dell’internamento si alternano a spaesanti suoni in presa diretta e a perpetrati rumori bianchi. L’azione del “risignificare” sta alla base del processo di lavorazione che coinvolge i filmati prodotti dalla TVCC, che può essere svolto in entrambe le direzioni: inventando una storia, o, al contrario, restituendo verità a una storia celata e ai soggetti che ne hanno fatto parte, grazie al carattere veritativo del found footage. Insomma, l’idea che le immagini siano qualcosa di autoriale e di socialmente costruito, dunque, non esclude il fatto che esse possano portare con loro un’impronta di vite reali.
Info:
Greta Maria Gerosa, Dispensa terzospazio Volume 1
A cura di Giulia Mariachiara Galiano e Martino De Vincenti
Progetto in corso
terzospazio zolforosso
Santa Croce 1996, Venezia
[1] Shaky cam, jercky camera, queasy cam, run and gun e free camera sono solo alcuni dei nomi utilizzati per definire lo specifico modo di riprendere che caratterizza il mockumentary e, in generale, tutte quelle narrazioni che non accettano di essere fittizie. Esse si ribellano alle strategie di registrazione stabile, per forzare l’agitazione della telecamera producendo una ripresa turbolenta, girata in prima persona.
[2] H. Steyerl, in Defense of the Poor Image, <<e-flux>>, issue #10, novembre 2009.
[3] Marco Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia 2018, p. 55.
[4] Paolo Gioli, intervista di Giuliano Sergio, Breve incontro con Paolo Gioli, Lendinara, 18 febbraio 2014, in Sergio (a cura di), Abuses, cit., p 10.
Alessia Baranello (Campobasso, 1998) è una curatrice indipendente. La sua ricerca si concentra sul legame tra arti visive e questioni storiche, sociali ed economiche, con un’attenzione verso pratiche espositive sperimentali. Scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. È stata co-curatrice della residenza per artisti Uva Programme (Nizza Monferrato, luglio 2022) ed è co-fondatrice del duo curatoriale Scania Trasporti.
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