Incontriamo l’artista pluripremiato Enrico Dedin, da un decennio impegnato nelle pratiche digitali e multimediali ottenendo riconoscimenti quali finalista nella 16esima edizione di Videoart Yearbook, nella Collettiva Giovani Artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa e in The Wrong. L’artista rappresenterà il Padiglione Italiano alla Biennale Internazionale di Arte di Durazzo, in programma dal 5 ottobre al 24 novembre 2024. In questa conversazione Dedin ci parla delle sue più recenti sperimentazioni AI attraverso le estetiche della simulazione.
Sara Buoso: Ti sei affermato sulla scena contemporanea emergente in virtù di una sperimentazione incentrata sulle pratiche new media e multimedia art. Assumendo il modello del world-wide-web, la tua ricerca mira a indagare le dinamiche sociali, economiche, antropologiche, semiotiche e rappresentative della rete secondo una lettura artistica. Che osservazione ti senti di condividere in merito alla generazione che rappresenti? Come sono state modificate la comunicazione e la percezione dell’arte dai media digitali? Come si potrebbe colmare la differenza tra global e local in un’epoca phygital?
Enrico Dedin: Io sono nato nel ’96, la mia generazione sarà di fatto l’ultima a sapere come era il mondo prima dell’avvento dei social media. Questa, secondo me, è una grande responsabilità. I media digitali sono infatti molto più che semplici strumenti, in quanto modificano in modo irreversibile l’esperienza e la percezione della realtà. Con tale tsunami anche il pubblico si sta avvicinando a forme artistiche più virtuali, collettive e condivise. Tuttavia, credo che a livello di comunicazione dell’arte ci sia ancora molto da fare, specie per valorizzare l’immenso patrimonio culturale italiano. Da qui si può partire per cercare di colmare il gap tra globale e locale: individuando, preservando e raccontando il “genius loci”. Dopotutto se non sappiamo bene chi siamo, come possiamo affacciarci al mondo esterno?
L’arte e il design contemporanei sono oggi fortemente condizionati dagli standard della cosiddetta “cultura della comunicazione”. Ne discuti attraverso le opere NR Code (2017), in cui parli di ipertesto, e Digital Tribalism (2017), in cui parli di connessioni e condivisione secondo un’ottica antropologica e sociale. Perché la comunicazione è così importante nei tuoi progetti?
Aristotele ci insegna che l’essere umano è un animale sociale. Il bisogno di comunicare è intrinseco a ogni individuo. Oggi siamo letteralmente circondati di comunicazione, è l’infosfera, l’habitat in cui viviamo. Proprio per questo le mie opere, che spesso hanno sguardi antropologici sul nostro presente, non possono che sbocciare e crescere da questo humus. In alcuni progetti ho trasformato l’opera stessa in una sorta di “fake brand”, con l’intento di accentuare in modo ironico e provocatorio questa nostra condizione.
Non solo il linguaggio, ma anche il tema della rappresentazione assume un ruolo fondamentale nelle tue opere. Ne discuti nell’ambizioso progetto fotografico #Observatory (2019), archivio digitale antropologico e sociale che mira a documentare le connessioni presenti sulla piattaforma Instagram attraverso pratiche di appropriazione che definisci “re-photography”. Qual è l’obiettivo di un tale ambizioso progetto? In un’epoca di bulimia delle immagini, che ruolo assumono ancora la creatività e l’arte?
#Observatory ambisce a conservare una traccia significativa di quest’epoca invasa da immagini consumate alla velocità della luce. Questo ambizioso progetto enciclopedico, attraverso hashtag, challenge e canoni ricorrenti, mira a sviluppare un atlante visivo dei diversi “tipi” rappresentativi del nostro tempo. Un lavoro metodico e documentaristico per certi versi simile al celebre “Uomini del XX Secolo” di August Sander. Credo che oggi l’arte possa essere un “antidoto” contro la bulimia di immagini, preservando il valore della riflessione e della contemplazione.
Sei, però, consapevole di come l’inevitabile progresso tecnologico debba affiancarsi a pratiche e politiche sostenibili, questione che affronti nelle opere Socialhenge (2023), Fungi-Fi (2022) e Nature Training Center (2021). Che considerazioni hai in merito?
Dovremmo innanzitutto rieducare a ricucire il nostro rapporto con la natura. È quello che cerco di fare anche nelle opere che hai citato, che affrontano sia l’alienazione umana dagli spazi naturali o dalle aree verdi urbane, sia i rari momenti di riconnessione con l’ambiente.
Perché gli artisti e i fruitori dell’esperienza artistica dovrebbero avere fiducia nel progresso tecnico e scientifico? Quali scenari futuri immagini?
Penso che il progresso in questi ambiti porterà a una tendenziale disintermediazione nell’arte, con anche un probabile aumento massiccio di artisti grazie alle tecnologie avanzate. Detto ciò, credo che il confronto tra noi umani e l’Intelligenza Artificiale non sarà semplice. In ogni caso dovremmo sempre ricordarci che algoritmi e software si basano su leggi conosciute, mentre la mente umana rimane in parte insondabile.
Rappresenterai il Padiglione Italia per la mostra “Intelligenza artificiale: il futuro ibrido” a cura di Ph. D. Oltsen Gripshi, artista, curatore e storico dell’arte, per la Biennale Internazionale d’Arte di Durazzo. Presenterai l’opera inedita F.A.Q. Frequently Art Questions, un’opera che interroga un celebre chatbot di Intelligenza Artificiale ponendo 118 domande retoriche per definire un dialogo immaginario al Teatro Aleksandër Moisiu di Durazzo. Vuoi descrivere il progetto che ha informato l’opera? Quali sono le specificità delle pratiche prompt rispetto agli altri media nell’ottica di un’esperienza simulata?
Innanzitutto bisogna dire che le 118 domande sono rivolte al “Sistema dell’Arte”. I quesiti, trasmessi in un video, si concentrano su aspetti esistenziali, sociologici, economici, lavorativi, filosofici, storici, oltreché legati al successo, alla fama, al mercato dell’arte e alle difficoltà quotidiane che affrontano gli artisti emergenti. Per questo, già nel titolo, si gioca con l’omofonia con la parola “Fuck”, oltre alla scelta, non certo casuale, del numero di domande che corrisponde ironicamente al numero telefonico del Pronto Soccorso italiano. Come per questo progetto, il prompt è una pratica che pone maggiore enfasi sul linguaggio e sull’intenzionalità. Con i prompt l’AI artist agisce come una sorta di catalizzatore di possibilità virtuali. Il lavoro finale non compare subito come si può immaginare, ma è spesso frutto di un processo dialettico, di una stratificazione di significati.
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È interessata agli aspetti Visivi, Verbali e Testuali che intercorrono nelle Arti Moderne Contemporanee. Da studi storico-artistici presso l’Università Cà Foscari, Venezia, si è specializzata nella didattica e pratica curatoriale, presso lo IED, Roma, e Christie’s Londra. L’ambito della sua attività di ricerca si concentra sul tema della Luce dagli anni ’50 alle manifestazioni emergenti, considerando ontologicamente aspetti artistici, fenomenologici e d’innovazione visuale.
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