Eleonora Manca spicca nel panorama della videoarte nazionale e internazionale per la cifra stilistica estremamente originale, che la pone fuori da qualsiasi collocazione sistematica. Un connubio di teatro, danza, filosofia e gnosi, miscelati da un uso raffinato del software. Il risultato è un lungo percorso videografico che si dipana in capitoli e sottocapitoli di un’unica narrazione cosmogonica che illustra l’esistenza come esplorazione del limite corpo/alterità, metamorfosi, animica e sensoriale, eleganza dello spirito espresso tramite il corpo.
Piero Deggiovanni: Inizierei dal tuo libro Il sognante risveglio alla visione sulla relazione tra teatro e archetipi. Mi sembra che ancora oggi il tuo lavoro mantenga uno stretto legame tra corpo e archai, come se il corpo stesso fosse un sembiante e il teatro luogo dell’agire estetico degli archetipi: quel famoso mundus imaginalis tanto caro a Henry Corbin.
Eleonora Manca: Si tratta di un libro antico. Prima di tutto perché l’ho scritto diciotto anni fa, e poi perché affronta il tema della diade sogno-teatro attraverso un, poco adottato, approccio fenomenologico. All’epoca dipingevo e avevo dato avvio a un progetto stabilito esclusivamente sull’uso del colore bianco, intitolato Rêverie. Quei dipinti esistono ancora e ancora persiste questo “sognante risveglio alla visione”. Decisi di aprire il volume con un interrogativo di Henry Corbin (filosofo orientalista e storico delle religioni) che invitava a riflettere su quanto e come l’esperienza mistica tendesse a spogliarsi delle immagini, a rinunciare a tutte le rappresentazioni di forme e figure. Fu inevitabile accostare questa domanda (la cui risposta mi è, vivaddio, tutt’oggi ignota) a Giuseppe Desa da Copertino che adorava la sagoma ingiallita, lasciata sul muro, dalla cornice di un dipinto della Madonna. Anni dopo lessi una frase di Andy Warhol che aggiunsi al mio frasario: «La mia scultura preferita è un muro con un buco che incornici lo spazio dall’altra parte»; anch’essa tracciò ulteriormente il sentiero. Se era vero che il teatro (anche così come architettonicamente costruito nell’antica Grecia) ci invitava a esplorare la skenè (il moderno palcoscenico) come porta per scendere da Ade, e che il concetto di skia (ombra) è già di per sé un archetipo, per me doveva essere altrettanto vero che lo scrivere, il fare arte non potevano esaurirsi nell’esito finale, ma che anzi dovevano far parte di un flusso nel quale ogni processo creativo porta a vivere una specie di estasi durante la quale si è stranieri nel proprio corpo, perché il corpo – in quegli attimi illuminati – partecipa all’esistenza di forme presenti da sempre. Tali forme sono l’archetipo, l’inconscio collettivo. Creare è già di per sé un atto magico, percepirsi dentro alla creazione, saper vedere qualcosa che solo in apparenza non c’è o che sfora nella mistica. Per questo il concetto di mundus imaginalis rimane prolungamento del pensiero e dell’agire. Perché appunto è la visione durante ogni imaginatio agens che porta a far affiorare ciò che la nostra psiche – in stati onirici/dormienti – ha già creato inconsciamente. A operare è dunque il Mito, ovvero l’archetipo. In ragione di questo considero questo scritto come un inconsapevole viaggio nel mio immaginario che mi ha permesso di restituire, di volta in volta, i luoghi deputati di una narrazione che intendo lasciare in fieri perché votata alla metamorfosi.
Pensi di essere un’abitante o una esploratrice di questo “mondo intermedio”?
Penso di mantenere aperte entrambe le potenzialità. Essenzialmente perché mi considero un essere ibrido, sia dal punto di vista fisico sia da quello intellettuale. E poi perché ho sempre avuto un atteggiamento da acuta osservatrice, ma scegliendo di rimanere sul crinale. Un po’ come un Giano Bifronte. Abitare senza esplorare sarebbe oltremodo noioso e inconcludente, parimenti esplorare senza fermarsi ad abitare assomiglia a una nevrosi narcisistica che impedirebbe il superamento di ogni ferita. Mi vedo appollaiata, in alto. Che guardo un po’ giù e un po’ sto col naso all’insù. Pur avendo un principio di realtà ben radicato so perfettamente sostare in quelle che chiamo “le mie stanze”, fra le cui pareti perdo il tempo e mi ritrovo a vagare in spazi che ogni volta mi stupisco di avere interiormente. Ecco, riesco ancora a stupirmi, questo lo considero un grande dono: ho ancora fame, e questo mi porta a procacciare il cibo necessario. Sono ancora curiosa, e questo mi permettere di vivere anche la noia come momento vivificante. E soprattutto so ancora desiderare, e ciò si oppone alla mancanza. Alcune volte abito lo spazio come se sentissi di appartenervi da eoni incalcolabili, altre mi sento un’esploratrice venuta chissà da dove e chissà con quali piume che deve imparare nuovi codici, nuove modalità di accoglienza, nuove misure e dismisure. C’è questa bambina, dentro di me, che vuole giocare (e ben sappiamo quanto il gioco sia serissimo), interrogare, esplorare, incedere con passo di danza e io la tengo per mano e spesso conosco tramite lei. È entusiasmante.
In molte interviste hai sottolineato un elemento che contraddistingue la tua arte rispetto ad altri usi se vogliamo più politici o espressionisti del corpo: ovvero il superamento dell’estetica Body Art e altre forme di concettuale.
Il corpo ha una grammatica propria che – come ogni altro sistema di comunicazione – è in continua evoluzione. Attraverso i suoi movimenti sa esprimere un’infinita gamma di significati e significanti. Il lavoro svolto dalle pioniere della Body Art – fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – è a oggi esclusivamente un dato storico, da studiare, approfondire, ma certamente non da ripetere con le stesse modalità, perché a cambiare è il contesto storico e culturale. Rispetto a questi esiti importanti che a suo tempo sono stati veramente di rottura e assolutamente politici mi pongo avanti o indietro. L’estetica della Body Art o della Performance Art è naturalmente nel mio database perché imprescindibile ma, a oggi, è una forma d’arte che considero parte della Storia dell’Arte. E poiché il corpo è un archetipo, così come lo è il corpo dell’artista, la sfida è di dire senza ripetere. Certamente parlo del corpo, della sua rivendicazione di essere come pretende e non stereotipo sessualizzato o bersaglio di body-shaming, ma attraverso l’uso del simbolo e di un linguaggio che – spero – risulti atemporale e non stigmatizzabile in generi o sottogeneri. Di base l’artista ha plurimi generi di appartenenza; dovrebbe essere un viaggiatore privo di costrizioni. Da questo punto di vista parlare del corpo risvegliando Antigone o Giovanna d’Arco o Rosa Parks è la stessa cosa. Il corpo svincolato dalla carta d’identità diviene leggibile in ogni epoca. Dunque, non lo voglio presentare come un pretesto per parlare di un qualcosa ancora una volta ascrivibile a un tema, ma (finalmente) stare nel fuori tema, in transito. Non (più) sfruttato dal linguaggio mediatico, non più sintomo dell’epistemologia coloniale. Bensì segno cartografico per rivoluzionare la sintassi, la semiotica. Lasciamo che il corpo parli tramite metamorfosi senza data di inizio né di scadenza.
Credo che tale superamento dipenda anche dall’uso coreutico dei gesti i quali arricchiscono la performance di aspetti rituali.
Nei miei lavori i gesti performativi sono molteplici, a partire dal fatto che sono nell’azione, contemporaneamente colei che registra l’azione e colei che, in ultima istanza, si occupa del montaggio del video o di creare micro-narrazioni fotografiche. Non parlo mai di autoritratto, perché non ci credo e perché quel corpo “rapito” dal medium scelto non è già più quel corpo, semplicemente perché impossibilitato ad accadere due volte. Non c’è realtà, non c’è presunzione di verità se non nell’ambito della rappresentazione. La post-produzione risulta indispensabile per superare i limiti della fisicità e accedere alla conoscenza dell’immagine stessa e, al contempo, è un esercizio di prolungamento dell’azione performativa. Restituire all’azione la sua cifra coreutico/simbolica significa, ancora una volta, non dargli età, ma continue rinascite archetipali. Lo studio del gesto mi permette, in fase di montaggio, di vedere chiaramente l’andamento che intendo dare all’intera azione. È come il lavoro di una sarta: so esattamente l’attimo in cui tagliare una clip. Ho anche imparato a non avere fretta: posso stare su un movimento anche per giorni. Questo recupero del tempo (per me assolutamente inedito) assomiglia sempre più a una danza fra me e il computer. Ed è soprattutto questa fase di post-produzione ad avere il sapore del rituale. Subentra inevitabilmente uno stordimento appagante. E anche questo è inedito. Per anni mi sono auto-educata alla visione romantica che fare arte significasse dilaniarsi, perdere sangue e altri luoghi comuni da giovane Werther. Adesso, invece, il mio caro e atavico Sturm und Drang se non intuisce un cospicuo margine di piacere non porta avanti un progetto, lo abbandona. E siccome la fretta è nemica del piacere, ora riesco a stare su un lavoro anche molti mesi, se non addirittura anni.
Potremmo definire le tue opere delle “sineddoche”. Parliamo dell’uso simbolico che fai del corpo: come riesci a rendere universali temi che hanno indubbiamente una base biografica?
Nei miei lavori la base biografica è soltanto un partire dalla fine, cioè da una sorta di nostalgia della presenza – la quale (mi) è sempre inafferrabile nel suo complesso. In ragione di questo, parlare di sineddoche porta a decifrare quel nucleo indispensabile che si intravede in ogni mio progetto (lo si evince anche dal corpo quasi mai ripreso nella sua interezza). Faccio fatica a individuare una componente diaristica/biografica tout court perché sono fedele a due pensieri che ormai considero miei poli d’azione, ovvero il Carmelo Bene del: «Non esistono fatti personali se raccontati» e la riflessione di Gina Pane rispetto alla quale si parte da un “io” al singolare che diventa subito plurale. Tuttavia, è nel simbolo e nell’archetipo che, inevitabilmente, c’è l’incontro con la propria memoria. È come se emergesse un soggetto spiato dall’io, da quinte antiche e allo stesso tempo proiettate verso un di là da venire. Uso il corpo, il mio corpo, perché è un archetipo e strumento tanto precario quanto di resistenza, soprattutto al cospetto delle inevitabili metamorfosi. È quindi la base per il paradigma di nuove geografie poetiche oppure per ricostruire linguaggi smarriti. Tuttavia, difficilmente la mappa è l’intero territorio e quindi il simbolo diviene lo stendardo del gesto e dell’azione. Ancora una volta è il lavoro sul corpo teorizzato da molti esiti teatrali che emerge. Penso alla Biomeccanica di Mejerchol’d, all’attore marionetta di Gordon Craig, all’inesorabile gesto spezzato, manchevole, inadeguato e insufficiente teorizzato da Carmelo Bene; quel disagio costante dell’andare non già da A a B, ma della sosta del frammento da A ad A1, quando l’azione si annienta nell’illusione del compimento e rimane interdetta e impossibilita a espletarsi. Un continuo de-costruire per costruirsi e viceversa. E poi c’è la stasi come contrappunto al movimento. Il diaframma spezzato. Il corpo che rimane sull’innocenza del crinale. E di colpo l’astrazione organica dove il corpo dell’artista è solo un apparecchio, la necessità protesica utile per non arretrare dinnanzi a nessuna forma possibile. Questo è (per me e per il mio lavoro) creare un corpo simbolico, alveo di quei significati che racchiudono tutti gli aspetti della natura umana.
La performance è in realtà il tuo linguaggio d’elezione. Credi che l’uso del software renda più efficace il senso rituale dei gesti e si adatti perfettamente a uno dei tuoi temi principali, come la metamorfosi?
Parlavamo della fase della post-produzione somigliante al lavoro di una sarta. Ma, rispetto all’azione performativa, che viene riaffermata tramite la scelta dell’utilizzo di vari software, parlerei anche di una similitudine con le tessitrici e la perpetua cucitura. Mi viene in mente quel racconto mitico lasciatoci da Maria Lai su le Janas, le fate dell’isola nate dal dio che, rinunciando alla dimensione divina, simboleggia il primo uomo che sogna. Si coricava insieme a un alveare le cui abitanti, le api, dalle sue dita un giorno si trasformano in una tribù di piccolissime divinità femminili. Le ancestrali presenze che hanno dato respiro e creazione alla Sardegna, le Janas appunto, vivranno per qualche millennio in attesa delle donne che sarebbero arrivate sull’isola, costruendo telai d’oro e successivamente insegnando loro l’arte del filare e del tessere. Da questa costruzione, fedele all’ordine di un ritmo cosmogonico, nascerà poi il poeta: un concentrato di uomo, donna e divinità. Poiché stiamo parlando di archetipi, annettere la ritualità del gesto artistico a quella del sognare, sia un incontro uomo-macchina sia una narrazione da affidare al tempo, chiama la suggestione artigianale del lavorare con le mani nella sua valenza di chiave per aprire tutte quelle porte che simboleggiano la soglia; che è sempre collocata ai confini che delimitano il territorio del divino dalla natura umana. Al contempo il ritmo eletto del lavoro, prima interno e poi esterno, diventa un procedere (il procedere è già di per sé metamorfico) per fare in modo che il non visto risulti detto. Parimenti, entrare in dialogo con la macchina e i suoi software significa capire come instaurare un respiro che ossigeni equamente. E ogni volta muta, varia. Appoggia il tempo della metamorfosi.
Molte tue opere sembrano ispirate da divinità quali Ecate e spiriti ctoni. Credi che evocare questo lato oscuro della sapienza possa descrivere una via alternativa agli stereotipi legati all’identità che caratterizzano molta videoarte odierna?
La condizione metamorfica è già sibillina di per sé perché non comporta una regolazione sistemica e prevedibile. Il segreto custodito dalle divinità infere sul significato dell’esistenza umana, il lato oscuro della sapienza, come dici tu, in realtà non è mai oscuro, ma solo nascosto. Oltre quella soglia, sta il nascondiglio del tesoro sapienziale. Abbiamo rovinato gli déi, li abbiamo sostituiti, si è perso dunque il senso del sacro e del pagano dei cicli di morte e rinascita e che però sono anch’essi archetipi.
In alcune tue opere l’elemento della vestizione gioca un ruolo importante. Puoi descrivere la relazione simbolica tra corpo e indumento?
Quando ero bambina in casa avevamo un’enorme cesta piena di abiti dismessi. Potevo giocarci e potevo farne quello che volevo. Nasce in quegli anni la mia passione per il giocare a travestirmi, sperimentare nuove identità, trasformare per far emergere lati del sé inesplorati. Credo, quindi, di essere stata sempre molto curiosa di ciò che poteva fare un abito oltre al ricoprire semplicemente il corpo. Come dice Paul B. Preciado: «C’è chi si veste per essere nudo e chi si spoglia per restare vestito». Probabilmente esauritasi la stagione di studio essenziale del corpo nudo, da un bel po’ di tempo è nuovamente cresciuta l’esigenza di sperimentare con gli abiti. Creo animali totemici con piume, corazze con vecchie crinoline. Mi cucio sulla pelle nuove possibilità identitarie, prive di genere.
Hai scritto recentemente un libro con Alessandro Amaducci: Fashion Film. Nuove visioni della moda. Credi che la moda necessiti di una base simbolica quale plusvalore culturale per incrementare il mercato?
Mi piacerebbe si sgomberasse il campo da certi stereotipi quando sbrigativamente si parla di moda: un conto è la moda e un altro il fashion system. La moda, di per sé, così come l’arte tutta, è sempre una cartina al tornasole del contesto socio-antropologico in cui opera. Ad esempio, il movimento Punk è stato il giornale quotidiano di anni cruciali. Il movimento minimalista anni Novanta ha introdotto visioni alternative, livide e a volte anche di morte (non dimentichiamoci che quegli anni sono quelli, ad esempio, di Joel Peter Witkin o del Grunge) e che non potevano più essere rappresentata dall’haute-couture. A ben vedere ogni rivoluzione ha avuto il suo abito di identificazione come forma interpretativa del contingente. Sarebbero tanti gli esempi, ma quello che a me interessa della moda è la sua declinazione artistica, innovativa e performativa. Quindi, la moda che seguo è già di per sé simbolica perché ha già quel plusvalore culturale. Vi sono direttori creativi che abbracciano progetti artistici il cui côté intellettuale è molto vivace e sperimentale. Il fatto che alcune case di moda finanzino progetti che vanno ben oltre il cucire un abito da mandare in sfilata lo trovo un valore aggiunto.
La tua ultima produzione video ha portato a compimento un percorso noetico ed estetico durato almeno dieci anni. Incredibilmente ritroviamo temi espressi nel tuo libro sul teatro e gli archetipi, ma con un’esattezza compositiva sconcertante: ritroviamo, fusi armoniosamente, gnosi e fashion nel ruolo di vestizione sacra, sciamanica, e in alcuni casi, giungendo a un dialogo interspecie come identificazione con il proprio animale guida. Anima, animus, corpo, uniti in modo sbalorditivo da vestizioni attualissime ma ancestrali. Credi di aver completato la tua metamorfosi?
Spero di non completare mai le mie metamorfosi. Sto lavorando da circa cinque anni per mantenere vitale la «Felice colpa di esser quel che sono», parafrasando Patrizia Cavalli. Questo è possibile ravvisarlo nelle mie ultime produzioni che, al momento, si trovano provvisoriamente archiviate sotto il titolo the lucid dream of the last poets. Si tratta di un progetto che vede, come hai notato, il recupero dei miei studi teatrali, soprattutto per quanto concerne la maschera intesa come tropo d’ogni possibile metamorfosi specialmente nel senso dato nell’antica Grecia dove l’indossare la maschera, nascondere il proprio volto nel suo incavo per vestirsi dell’altro da sé, significava dissipare la vita precedente ed era ritenuta segno della coscienza di rappresentare. Si sommano gli anni di ricerca e studio sul corpo come linguaggio. È anche un lavoro sull’inconscio, sul non avere paura del proprio inconscio, sugli archetipi e, di conseguenza, anche un lavoro sul sogno e sulle immagini ipnagogiche e sul fatto che quando ci si guarda interiormente si vedono immagini in movimento. Sono lavori dove anche il gioco del travestirsi assume il senso dato da Leonor Fini secondo cui: «Mascherarsi, travestirsi, è un atto di creatività. È una rappresentazione di sé, è l’esteriorizzazione in eccesso dei fantasmi che si portano in sé, è un’espressione creatrice allo stato bruto». Per questo sto scegliendo maschere di animali o creo delle Chimere per un ipotetico teatro-bestiario del sogno, dove essere umano e animale si incontrano.
In tutte le tue opere il linguaggio svolge un ruolo importante: non è semplicemente un elemento poetico, ma una decifrazione delle movenze messe in scena, un’allusione, un elemento perturbante, un mantra, o una rivelazione da decifrare come la voce di un dio che si manifesta per il tuo tramite. Sono frammenti di una sapienza antica a contatto con il contemporaneo? Sei tu quell’anima antica che ci sussurra qualcosa sul nostro destino?
Ho sempre definito la mia età come millenaria. Ma non per vezzo, anzi, c’è una sorta di malinconia in questo. Ho felici incursioni nel contemporaneo, ma nelle tasche del mio cappotto conservo sempre qualcosa che è appartenuto ad altre ere e delle quali riesco a mala pena ad arginare l’eco. Leggo, ascolto parole e vedo immagini. Ogni immagine mi crea parole. Parola e immagine sono da sempre icone, per me. La compenetrazione è foriera di nuovi linguaggi oppure di una lingua antica che torna per avere nuova voce, una neo-poesia visiva. L’unica parola che accetto, soprattutto nei miei lavori, è quella poetica. E così mi ritrovo a creare cut-up prendendo a prestito i versi di vari poeti. Come con gli abiti, taglio, cucio, scucio, incollo, scollo. Anche questa libera versione è un ibrido poetico che mi è necessario. Perché ho sempre questa tendenza a esplorare nuove possibilità, sia linguistiche sia visive. Poi utilizzo questo nuovo vocabolario per i miei lavori. Alcune volte taglio semplicemente una poesia e lascio che a emergere sia un nucleo inedito. Lascio impronte scritte, parlate o sussurrate. Altre volte scrivo io stessa i testi che utilizzerò.
Piero Deggiovanni
Info:
Piero Deggiovanni (Lugo, 1957) è docente di Storia dell’arte contemporanea e di Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Bologna e al LABA di Rimini. È critico e ricercatore nell’ambito dell’arte contemporanea, membro del comitato scientifico del Videoart Yearbook dell’Università di Bologna. Da diversi anni si dedica esclusivamente alla ricerca, concentrandosi sulla videoarte e il cinema sperimentale.
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