Mauro Baronchelli è il direttore operativo di uno dei cinque musei italiani più visitati e seguiti dal pubblico nazionale e internazionale: Palazzo Grassi e Punta della Dogana. La sua direzione ha portato idee nuove e progetti interessanti in laguna.
Francesco Liggieri: Volevo fare capire chi è, ma non volevo riassumerlo io, vorrei che lo facesse lei descrivendosi con il titolo di un’opera d’arte.
Mauro Baronchelli: Tentativo di volo, di Gino De Dominicis: si cerca, ostinatamente, di fare del proprio meglio. Poi, ovvio, bisogna fare i conti con la forza di gravità e i limiti, sia soggettivi e sia del contesto.
Secondo lei, è importante avere la possibilità di poter creare mostre di ricerca e sperimentali per una realtà museale oggi?
A mio giudizio le mostre devono essere rigorose e documentate, questo è l’aspetto più importante. Alcune saranno più sperimentali, altre antologiche, ma l’obbiettivo deve essere sempre quello di far luce su di un aspetto, un taglio, una figura, un periodo, un’interpretazione, un legame che non erano stati esplorati a fondo. E farlo con il giusto rigore critico. Se mancano queste componenti, perché fare una mostra?
La figura del progettista culturale, quando e quanto è importante all’interno di un organigramma museale?
Molto, se si intende qualcuno che sappia proporre, con uno scatto creativo, iniziative e attività di interesse, ma che sia anche in grado di renderle possibili e realizzarle. Negli organigrammi dei musei questa figura tecnicamente non esiste, ma la funzione viene svolta da diverse altre professionalità: i curatori, chi si occupa del public program, chi si occupa di mediazione… non sono moltissimi i professionisti capaci di ragionare in termini progettuali e organizzativi al tempo stesso.
La pandemia come ha influito sul suo lavoro?
Un primo aspetto, più epidermico, è quello delle incombenze: bisogna occuparsi in continuazione e nel dettaglio di aspetti che prima non erano quotidianamente in discussione. Nei mesi più duri del lock down l’organizzazione del personale in una situazione di emergenza, il lavoro da remoto… Ora gli accessi, la verifica delle certificazioni, la normativa continuamente in evoluzione. A livello più profondo la pandemia rimette in discussione il senso del nostro lavoro e della certezza della programmazione: ogni progetto, ogni attività sono sottoposti a variabili che non possiamo governare. Si vive tra due polarità: da un lato il desiderio di continuare a fare il nostro lavoro, per l’appunto programmare; dall’altra la possibilità che il progetto debba essere rinviato, modificato, rivisto in corsa. Si fatica di più per ottenere di meno, ma mi pare si tratti di una condizione condivisa.
In Italia, nelle mostre, c’è carenza di opere di giovani artisti, come è buona pratica negli altri Paesi per dare loro visibilità. Lei crede che sia una questione culturale, sociale o semplicemente di coraggio?
L’Italia ha di base un problema con i giovani. Sono così pochi che, da un lato, non costituiscono una componente della società che ha sufficiente potere contrattuale e rappresentatività per far valere le sue istanze. Dall’altro, gli adulti si disabituano a vederli all’opera e si risentono se non si comportano come vorrebbero che facessero. Mi hanno molto colpito, durante il periodo della pandemia, diversi attacchi portati ai giovani come categoria, a seguito di alcuni comportamenti immaturi o addirittura irresponsabili, di fronte alla disciplina e allo straordinario spirito di adattamento della grande maggioranza. In termini generali e con le dovute eccezioni, il nostro è un paese che fatica a concedere credito e spazi ai giovani. Vale tendenzialmente anche per le occasioni concesse ai giovani artisti.
Il pubblico va formato o va intrattenuto all’interno di una mostra d’arte?
Il mio augurio è che il pubblico non entri al museo solo per passare qualche ora di relax. Non guasta nemmeno quello, ovviamente, ma direi che l’obiettivo di un museo o di un’istituzione culturale debba essere quello di interessare criticamente il proprio pubblico, di penetrare oltre il primo strato di attenzione superficiale per attivare invece connessioni più profonde, o non scontate. Farsi domande, darsi risposte, anche dissentire e andarsene contrariati. Va tutto bene, purché ci sia vita, curiosità, possibilità di prendere posizione.
Cosa consiglierebbe a un giovane che volesse intraprendere il suo stesso percorso professionale?
Per prima cosa di non smettere mai di formarsi. Leggere, vedere, ascoltare, cercare di capire e intuire cosa si muove. Quindi di cercare e creare delle occasioni in cui mettere effettivamente alla prova le proprie passioni e capacità: bisogna capire se si è portati per questo percorso. In terzo luogo di metterci, oltre alla passione, una certa dosa di determinazione e cocciutaggine. Purtroppo, come tutti sappiamo, le posizioni lavorative in ambito culturale non sono molte.
Se potesse scegliere un personaggio storico o di fantasia da inserire nel suo team di lavoro chi sceglierebbe?
Kit Carson, il compagno di avventure di Tex Willer, un fumetto che ho letto settimanalmente per oltre vent’anni. Carson è infallibile con la pistola, ha senso dello humor e un discreto appetito. E, soprattutto, ha una sua etica inattaccabile e sa cosa sia la lealtà.
Info:
Mauro Baronchelli, ph. credits © Matteo De Fina, courtesy Palazzo Grassi – Punta della Dogana
© Palazzo Grassi, ph: ORCH orsenigo_chemollo, courtesy Palazzo Grassi – Punta della Dogana
Punta della Dogana © Thomas Mayer, courtesy Palazzo Grassi – Punta della Dogana
Palazzo Grassi © Matteo De Fina, courtesy Palazzo Grassi – Punta della Dogana
Palazzo Grassi © Matteo De Fina, , courtesy Palazzo Grassi – Punta della Dogana
Artista e curatore indipendente. Fondatore di No Title Gallery nel 2011. Osservo, studio, faccio domande, mi informo e vivo nell’arte contemporanea, vero e proprio stimolo per le mie ricerche.
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