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Hacking Gomorra Advanced Furniture. In conversazione con Paolo Cascone

Fantasmagoria nell’immaginario comune, l’incurante urbanistica e gli effetti cancerogeni di un architettura statica, i cui processi peccano di pleonastiche e caratteristiche conseguenze aleatorie e progettazione mistificata, risiedono come soggetti presi in analisi dal progetto realizzato dall’architetto e designer Paolo Cascone e dal COdesignLab, installazione del quale, esposta presso la Galleria Davide Gallo.

L’azione pre-figurante effettuata, vede come fuoco generante il quesito per il quale gli avveniristici interventi debbano inclinarsi ad una scelta di tipo ‘terminale’ tramite la negazione e la fisica cancellazione di ‘errori’ storici od al contrario l’intento di ri-generare quella funzionale progettazione destinataria. Il progetto, sin dalla denominazione ‘Hacking Gomorra // Advanced Furniture’, efficacemente riconduce all’intento progettuale nato da una amara reminiscenza di ciò che culturalmente risiede nelle storia dell’urbanistica italiana, la quale aleggia e si esemplifica nella impalpabili, eppure radicali Vele di Scampia, le triangolari infrastrutture residenziali, parusia del degrado, emblema del malessere periferico napoletano.

Nate dalla gestazione di una visione dell’urbanistica come una necessità massiva, trasfigurate dalla mancata previsione della relazione che si instaura inequivocabilmente fra la presenza attiva dell’uomo nello spazio, come ambiente fisico perennemente assoggettato, come in questo caso dalle cancerogene conseguenza dettate e prodotte da processi interni di sottoculture, le quali inacetiate da una macro-società alla quale già appartengono, vanno, dunque, a creare la propria struttura gerarchica di potere cullata aspramente dagli esiti della povertà, macchina generatrice di malcontento, criminalità, violenza, degrado, la cui dialettica si conclude come problematica sociale nel distacco.

Dunque il progetto, suggerisce nella sua stessa manifestazione una predisposizione positiva a risanare quella ‘dermatite sociale’, proponendo tramite innovative o trattative metodologie di quelli elementi che rendono tale la manifestazione essenziale di un prospetto urbanistico, quali proposte di azioni di auto-costruzione tramite processi partecipativi o tramite la dislocazione e l’innesto di funzionali servizi, per una negazione della chiusura della periferia, ma in contrapposizione come nuova necessità sociale di ridefinizione dell’idea di ‘arterie della città’ come parte integrante del fulcro centrale.

Inoltre, di rilevante importanza diviene l’impiego delle nuove tecnologie, corroborante benigno; un ‘hackeraggio’ tramite l’implicazione della stampa 3D per la realizzazione di un design interno e per la modificazione e ri-modellamento della struttura imperante, ma depravata, tramite prolungamenti di moduli che avvengono in estensione di profondità e non di altezza, per i quali lo scheletro della struttura possa acquisire una nuova configurazione per un’espansione di respiro.

Alcune domande con l’architetto Paolo Cascone per una visione più fisica del progetto.

Quale grado di utopia o realizzabilità possiede il progetto ‘Hacking Gomorra’, seconda la sua visione?
Il progetto si pone come processo paradigmatico per una possibile trasformazione dal basso della situazione estremamente critica in cui versano determinate aree periferiche delle nostre città. Parliamo di megastrutture che spesso sono state frutto delle utopie urbane elaborate dalle migliori ‘elite’ culturali europee e non solo a partire dagli anni 60. Penso alle visioni utopiche di Constant, al metabolismo giapponese e alla loro influenza su altre esperienze assai controverse che sono state realizzate in Francia ed in altri paesi europei. Non credo quindi che sostituire quelle utopie con delle altre utopie possa rappresentare una possibile soluzione. Piuttosto credo fermamente che ci sia bisogno di un ottimo impianto teorico per rendere sostenibile un processo di auto-rigenerazione di quelle esperienze e di quegli spazi. Nessuno più di quelli che li vivono ne conoscono le insidie e le contraddizioni ma è anche vero che nessuno più di quelli come me, che conoscono i processi di collaborative design e auto-produzione, devono cercare di riconciliare teoria e (buona) pratica. In tal senso la realizzabilità di iniziative come Hacking Gomorra dipende dalla capacità di mettere a sistema piccoli micro-progetti tecnologicamente avanzati coinvolgendo più possibile la comunità locale con l’obbiettivo molto concreto di hackerare l’esistente ottimizzando risorse.

Nel progetto, l’intento sociale di ricreare un ambiente comune, anti-repressivo, di unione e condivisione, prevede una trasfigurazione che inevitabilmente va a scontrarsi con le dinamiche interne sviluppatesi naturalmente in una micro-società: dunque, seconde lei, quali potrebbero essere le reazione nei riguardi di questa azione riqualificatrice?
Premesso che il fenomeno delle Vele di Scampia da solo varrebbe un trattato di antropologia urbana, per la complessità dei fenomeni di degrado urbano e sociale che si sono sovrapposti nel tempo, è davvero molto difficile bypassare la retorica che ha caratterizzato il dibattito su questi pezzi di città. Le cronache più attente ed il lavoro di fotografi come Mario Spada, Tobias Zylinder etc. raccontano di due dinamiche contrapposte. Da una parte una logica di sopraffazione tesa al controllo del quartiere privatizzando e occupando indebitamente spazi potenzialmente collettivi ponendo cancelli, sbarramenti e barriere fisiche di ogni genere. Dall’altra un sentimento crescente di volere uscire da questa gabbia dentro la quale gran parte degli abitanti si sente imprigionato. La sfida è quella di intercettare e compattare le esigenze di questi ultimi, facilitando un processo di auto-determinazione dall’interno. Mi piace ricordare che il junior researcher di COdesignLab che con ho coinvolto in questo progetto si chiama Flavio Galdi ha 25 anni ed è nato e cresciuto a Scampia. Ovviamente questo lavoro per essere realizzato e condiviso in una dimensione più ampia dovrà essere supportato da un team di esperti in materia di gestione dei conflitti sociali. Noi abbiamo una visione abbastanza precisa dei processi ma in fondo siamo “solo” dei designer.

Azioni di ‘rammendo’ ed ‘innesto’, molto care alle attenzioni dell’architetto Renzo Piano, il quale stesso definisce le periferie come le ‘città del futuro’, in quanto fulcro di energie, potrebbero trovare delle linee di corrispondenza con la vostra visione e l’intenzionalità di riqualificazione della periferia di Napoli?
Per la verità conosco poco il lavoro che Renzo Piano sta portando avanti sulle periferie. Ma trovo lodevole che un intellettuale, ancora prima che professionista, come lui si stia impegnando su questi temi. Per questo motivo colgo l’occasione per invitarlo a incontrarci al più presto per scambiare idee e opinioni in merito

Quali vorrebbero che siano, più nello specifico, le implicazioni conseguenti all’impiego della stampa 3D?
Per anni questi progetti di riqualificazione delle periferie hanno rifiutato ideologicamente qualsiasi output fisico e qualsiasi implicazione con le nuove tecnologie. Oggi una nuova generazione di designer come me ha il dovere, culturalmente, di esplorare il rapporto tra il mondo digitale e quello reale analizzando in modo critico tutte le possibili ricadute sulla collettività. Il concetto di hackeraggio, che potrebbe essere applicato a qualsiasi edificio o infrastruttura esistente, consiste nel ricostruire e modificare i codici genetici di un sistema architettonico attraverso un approccio computazionale mirato alla soluzione di problemi complessi. In tal senso la fabbricazione digitale e la stampa 3D se usate con consapevolezza possono rappresentare un opportunità per supportare processi di “architectural fabrication” ovvero di auto-produzione fisica di manufatti che derivano da questo approccio computazionale. Basti pensare che in Hacking Gomorra il 90% dei manufatti architettonici è pensato per essere realizzato stampando miscele di materiali da demolizione e materiali naturali reperibili in loco. Questo che sembra un discorso meramente tecnologico è in realtà un “manifesto” politico che potrebbe sovvertire il mondo delle costruzioni afflitto dagli interessi della criminalità organizzata. Sono convinto che l’auto-costruzione possa diventare il medium per nuovi processi identitari, responsabilizzando chi vive quegli spazi e generando nuove micro-economie.

Da un punto di vista spaziale la fabbricazione digitale ci consente di realizzare componenti su misura che connettono, ampliano o generano spazi collettivi e spesso produttivi. Questi elementi di connessione si inspirano a una serie di concetti sulla “fonction du plan oblique” espressi nel lavoro di Paul Virilio e Claude Parent.

In quale misura e relazione sussistono, nel suo progetto, elementi di previsione e probabilità degli effetti ai quali il suo intervento può andare in contro e quale identità esso può assumere nel futuro?
Ripeto Hacking Gomorra vuole essere ancora prima che un progetto di urban design un processo generativo oltre che operativo, un tentativo di trasporre fisicamente alcuni dei concetti citati nel libro “trois ecologies” di Felix Guattari. In questo processo usiamo software di simulazione ambientale e strutturale per mappare il contesto oltre che analizzare e prevedere le performance del sistema. Ovviamente ci nutriamo costantemente del lavoro di altri (documentari, fotogiornalismo, arte contemporanea etc.) che attraverso discipline diverse dalla nostra bene hanno narrato le dinamiche sociali in atto. Nel nostro caso la forte propensione a connettere il processo digitale a quello di prototipazione fisica dei componenti architettonici ci aiuta a capire meglio la dimensione spaziale del nostro lavoro. E con questo spirito che abbiamo realizzato l’installazione presso la Galleria Davide Gallo e abbiamo realizzato la serie limitata di oggetti di uso comune “advanced furniture”. Allo stesso tempo appena avremo l’opportunità e le risorse per farlo vorremmo sperimentare un passaggio di scala per confrontarci in modo ancora più specifico con il contesto e realizzare una serie di esperimenti nello spazio pubblico a Scampia, cosi come faccio da anni in altri contesti critici tra Europa e Africa. In tal senso i continui scambi con critici, urbanisti e designer come Maria Giovanna Mancini, Lorenza Baroncelli e Ugo La Pietra, che nel suo libro ”Abitare la città” ha anticipato molti dei temi di cui sopra, sono per noi estremamente preziosi.


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