Luca Massimo Barbero è Luca Massimo Barbero. Chi lo conosce sa che è una figura istituzionale e al tempo stesso carismatica e di altissimo spessore. Luca Massimo Barbero, per la sua carriera, sarebbe un ottimo soggetto da trattare a scuola visto quanto ancora abbia da dare per il settore culturale.
Francesco Liggieri: Volevo fare capire chi è, ma non volevo riassumerlo io, vorrei che lo facesse lei descrivendosi con il titolo di un’opera d’arte.
Luca Massimo Barbero: Il cervello del bambino, di Giorgio De Chirico.
C’è una mostra o un progetto che vorrebbe realizzare ma non ha ancora realizzato?
C’è una mostra che da tempo in un qualche modo vivo, nel senso che si arricchisce ogni giorno grazie a quello che ho studiato, ma soprattutto grazie a tantissime cose che paradossalmente sto trovando su Instagram, ed è una Mostra al nero. Da tempo vado riunendo una serie di immagini, di sensazioni, di opere che trovo durante i miei studi, nei viaggi, per strada, sui muri e anche su Instagram. Sono immagini che prendono in considerazione o che sono costruite a partire da un immaginario nero, oscuro, umbratile, non inteso come notturno ma come cosmo esistenziale, spazio del mistero del non conosciuto. Una sorta di contemporaneizzazione come ne L’opera al nero di Marguerite Yourcenar, che non parta dal solito “new black” ma che comprenda l’universo delirante gotico, lo spazio delle scrittrici dell’Ottocento, l’anima sognatrice delle visioni goyesche, di Odilon Redon, Fernand Khnopff, i disegni di Georges Seurat e anche quello spirito Goth degli anni Ottanta, fino alle opere contemporanee. Una contro-luce. Per me la luce è importante, agisce sulla vista e sull’anima, per avere il senso della finezza, l’incisività della luce però, si deve conoscere e vivere anche l’ombra e il buio. Una mostra che prenda in considerazione tutto l’immaginario del nero, non inteso come “notturno”, ma come il pensiero fino alle cose più scontate, più ovvie.
Cosa può fare un museo o una fondazione di arte contemporanea per la crescita del Paese?
Ogni luogo in cui le persone si confrontano e vivono l’arte è uno spazio vitale, utile alla società in un modo che non è riassumibile in modo economico o gestionale, né parlando di costi né di ricavi. Il museo non è la conservazione delle ceneri ma la “custodia vitale del fuoco” come diciamo qui in Fondazione Cini. È un luogo attivo, che deve dialogare con le persone e, di contro, con le necessità che l’arte avverte nella nuova società contemporanea. È importante che non sia intrattenimento, infotainment, bensì un luogo di conoscenza, di curiosità, che dia ristoro all’anima, agli occhi e, allo stesso tempo, provochi domande, interesse, questioni sull’essere umano, che ponga dei quesiti sul futuro e sulla straordinaria vitalità della storia. L’arte non è cronaca ma è agitatore culturale, denuncia, contenuto anticipatore. È una pratica che sollecita e non accomoda o giustifica. Uno spazio espositivo, qualsiasi sia la sua natura, deve essere una “trappola di tentazioni” dove non si riconoscano le cose note ma si venga sollecitati da un nuovo modo di guardare, di immaginare seguendo le vie straordinarie dell’arte nella sua contemporaneità come nella sua storia passata. Io li definisco “Inciampi” questi momenti in cui si cambia sguardo vivendo un’opera, vedendola in modo nuovo. Inciampare ti fa cambiare il passo, abbassare e rialzare lo sguardo in modo nuovo, più sorpreso e più attivo. Per questo ritengo che i cosiddetti operatori museali non debbano essere conservatori o guide o custodi ma sottili “agitatori di pensiero e del modo di vedere”. Molti giovani hanno questa capacità, questa libertà. E poi, curiosamente la storia dell’arte aperta a nuovi occhi, fa cambiare le idee e può essere funzionale economicamente. Ma attenzione: il passo della concorrenza con i media e l’advertising è breve. Ci sono due fazioni: la prima è quella corrente che non viene rispettata, che è quella di chi crede che un museo sia un luogo operativo anche economicamente, e questo è lecito. Ma poi vediamo che non c’è un’attenzione nei confronti dei musei da quel punto di vista. L’altra invece è molto più interessante: quello che in realtà un museo deve essere è una trappola di tentazione o quella che io chiamo, appunto, un “inciampo”, un luogo che deve fare in modo che chi entra trovi un’opera, una parola, una persona, un agitatore culturale che faccia sì che almeno una persona al giorno, un giovane al giorno si faccia un’idea diversa di quel luogo. Penso che si possa cambiare la società facendo inciampare una persona per farle cambiare lo sguardo.
Che rapporto ha lei con i social network?
Non li uso. Ho un ottimo rapporto ma direi quasi esclusivamente con Instagram per il momento, perché penso che mi abbia suscitato delle curiosità, ma non lo uso per spiegare o per fare piccole lezioni. Lo uso perché è un luogo polimorfo, fluido, per condividere il proprio immaginario. Io sono un inveterato scrittore di cartoline. Invio ancora cartoline e in fondo in questo momento il mio account, cioè il mio @lucamassimobarbero, è una corrispondenza. I post o le storie sono delle cartoline che spesso mando agli autori delle immagini che posto, che alla fine sono le “cartoline impossibili di Barbero”. Li uso anche con un minimo scopo di comunicazione delle attività che si svolgono in Fondazione o nei musei. Inutile dirlo, i social dei grandi musei, delle collezioni o di altri accumulatori seriali di immagini sono veramente un punto molto utile per informarsi, non per pensare di aver visto una mostra o ricevuto un approfondimento, ma punto da cui partire per approfondire.
Il pubblico va formato o va intrattenuto all’interno di una mostra d’arte?
Il pubblico va accolto con un racconto che si svolge nello spazio della mostra, del museo, passo per passo, lasciandolo libero di fare associazioni, fornendogliele anche. Non direi che debba essere guidato ma che gli debbano essere suggerite delle informazioni lasciando tracce di ciò che il curatore conosce e che, soprattutto, vuole condividere, senza imporre alcunché. Quando si vede qualcosa di profondo, di lieve, di bello, di sconosciuto o lo si concepisce in modo nuovo, il desiderio è quello di condividerlo, renderlo accessibile, quindi accompagnare il visitatore nello svelamento, nella scoperta di ciò che magari pensava già di conoscere. Una mostra non è intrattenimento inteso in modo corrente, per quello ci sono le feste, gli eventi che “ti fanno staccare la testa dai pensieri”, quelli sono i passatempi meravigliosi. Le mostre rientrano in quella strana categoria che sono gli interessi, la ricerca di un altrove, il desiderio di vedere altri mondi senza doversi spostare, viaggiare in altre dimensioni semplicemente aprendo la mente e gli occhi. Per far ciò l’arte chiede di conoscerla un minimo, di apprezzarla: l’arte non è un linguaggio immediato, come si crede ora, ma è certo che da sempre l’arte parli un linguaggio universale e, soprattutto, plurigenerazionale. Il confronto con l’originale è spesso sorprendente, necessario, l’arte si vive con il proprio corpo, con tutti i sensi. In fondo l’intrattenimento oggi è meravigliosamente presente nei dispositivi tecnologici, nei cellulari che, ammettiamolo, sono un poco il nostro specchio, la nostra fonte di gratificazione. Spostare lo specchio che è davanti a noi e non semplicemente “guardare” ma “vedere” è un’azione che l’arte permette di compiere e ne rimango sempre stregato quando ne parlo con i giovani, i quali ben conoscono questo straordinario gioco. È anche per questo che da alcuni anni dedico ai giovani le mostre che curo e allestisco, perché sono gli “sguardi dell’oggi” che sempre mi rivelano e insegnano cose nuove. Il nostro orizzonte visivo e il nostro specchio presto sarà il nostro metaverso, cioè il nostro telefono cellulare. Io lo uso tantissimo, lo usiamo tutti e quindi costituisce questa nuova forma di specchio. La mia mostra L’occhio in gioco. Percezione, impressioni e illusioni nell’arte in corso al Palazzo del Monte di Pietà a Padova termina con una serie di specchi proprio perché fa capire come i devices siano ormai il nostro specchio. La mostra rischia di essere un insieme di concetti che io racconto come fosse arte preconcettuale, cioè “guardo ciò che riconosco o che assomiglia a qualcosa che conosco”. Una mostra non sarà mai un intrattenimento, altrimenti diventa Disneyland.
Esiste un luogo nella sua memoria che lei identifica come l’inizio del suo percorso e del suo lavoro?
Sono cresciuto in una casa piena di libri e di cani. Ho scelto i libri (le due cose non vanno, in realtà, così in contrasto). Il luogo potrebbe essere l’immagine di me che ritaglio un’immagine in bianconero di una scultura, sul retro vi scrivo alcune frasi inventate, la piazzo su di uno scaffale con un sistema rudimentale e scatto una polaroid con una macchinetta rubata in casa. Unire l’immagine alla parola, al racconto altro e condividerla. Forse per questo ho avuto una formazione atipica, prima da autore, poi fotografo e commentatore d’arte, folle per la musica e l’antropologia spiccia. Ognuna di queste parti si ritrova nelle mie mostre e, spero, nei miei testi e pubblicazioni. Ho capito che la mia strada erano l’immagine e la scrittura. L’ho capito paradossalmente proprio partendo dai libri, e ho unito questa cosa nell’idea di costruire un percorso, un racconto.
C’è, secondo lei, qualcosa di interessante nelle cosiddette mostre blockbuster?
I numeri sono importanti, talvolta fondamentali, ma non il punto di partenza per una mostra. Una mostra è di successo se ha tanti visitatori e un’altra ha successo se vale come approfondimento e vive di un passaparola di persone sorprese e meravigliate da una scoperta. Per me, in sincerità, esistono solo mostre pensate e fatte bene e mostre che non lo sono affatto, al di là dei nomi bistrattati spesso usati, e perfino mostre con le stringhe delle scarpe del grande Keith Haring. A New York ebbi la fortuna di visitare due mostre blockbuster indimenticabili: il MoMA con Pollock e il Whitney con Rothko. Erano blockbuster non perché fanno molti visitatori ma perché vi si confrontavano due grandi giganti. Se invece le suddette mostre hanno dei nomi che in qualche modo sono sempre gli stessi, da Caravaggio agli impressionisti al povero Basquiat, allora no, non penso siano interessanti.
Se non fosse il direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, cosa le piacerebbe fare?
Fare questo. Mi è sempre piaciuto costruire percorsi attraverso le immagini, la storia dell’arte, la fotografia, al di là del lavoro nelle istituzioni. I miei amici dicono che in realtà avrei dovuto fare lo storico dell’architettura… Mentono. Altri dicono che avrei fatto mostre di conchiglie e foglie di palma anche se fossi stato un naufrago su un’isola deserta.
Se potesse scegliere un personaggio storico o di fantasia da inserire nel suo team di lavoro chi sceglierebbe?
Come si chiamava la radiosa replicante di Blade Runner con lo spray make up? (ndr: si riferisce a Pris, l’androide interpretata da Daryl Hannah). Ma io ho una passione storica piuttosto perversa, sceglierei il politico ottocentesco Pietro Paleocapa, “de’ moderni idraulici principe” ha presente? Ma forse preferirei la cantante Siouxsie (ndr: dei Siouxsie and the Banshees) da giovane, l’immensa. Il suo pezzo Spellbound mi ha ammaliato, stregato, incantato!
Una leggenda sostiene che lei organizzi le sue mostre solo dopo aver visto che impatto di luce naturale c’è nello spazio espositivo. È vero? Come nasce questa sua attenzione alla luce?
È vero, osservo anche come il buio riempia gli spazi, perché alle volte la luce naturale non c’è. Dicono che io punteggi gli spazi, probabilmente come se fosse una interpunzione, cioè come se fosse un racconto da scrivere, un film da montare. Forse quest’attenzione proviene dall’idea che, come diceva Manlio Brusatin, l’ombra è più importante della luce, per svelare realmente il corpo delle immagini.
Venezia secondo lei sopravviverà?
Venezia sopravviverà sempre. Venezia come idea di luogo immaginario. Non è detto che sopravviva qui, se continuiamo a trattarla così. Vivrà insieme all’uomo l’immagine della città. Venezia, lo dico sempre, ha una grande fortuna: ha tantissime porte distribuite in tutto il mondo, perché l’immagine della città lagunare sopravviverà anche solo nel suo mito. Mito, ben inteso, che è una storia tradita, tramandata, che è narrazione. È il mondo invece, è questo mondo che noi dobbiamo preservare, dobbiamo pensare di consegnarlo al meglio in ogni sua condizione, dal clima, alla società e all’amore per l’arte e per l’altro.
Info:
Luca Massimo Barbero ha scelto di accompagnare quest’intervista con immagini tratte dal suo profilo Instagram: @lucamassimobarbero
Artista e curatore indipendente. Fondatore di No Title Gallery nel 2011. Osservo, studio, faccio domande, mi informo e vivo nell’arte contemporanea, vero e proprio stimolo per le mie ricerche.
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