«Vienna è la culla di una rivoluzione culturale destinata a sconvolgere la tradizionale concezione dell’uomo, portando alla luce le sue contraddizioni e mettendone in discussione le certezze». Federico Zeri
Il fenomeno delle Secessioni, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ebbe una diffusione pressoché contemporanea in diversi centri culturali mittleuropei, condividendo quello spirito già avanguardista di rifugiare dalle posizioni conservatrici delle Accademie artistiche, per predisporsi a un’inclusività sociale ed estetica che abbracciasse tutte le discipline artistiche. Il palcoscenico viennese, all’apice del suo sviluppo culturale, per quanto rivolto a un pubblico alto-borghese, si è affermato con maggior efficacia in una compagine storico-artistica, determinando, in maniera rivoluzionaria, il progresso metodologico delle materie artistiche nel corso del Novecento: basti pensare, sul piano teorico, all’importanza della Scuola Viennese di storia dell’arte (Wiener Schule der Kunstgeschichte) per l’approccio contemporaneo all’opera d’arte. Oggi Vienna respira ancora la stessa evocazione al contemporaneo, figlia di una coesione culturale ibrida e di un’educazione visiva, passando per l’Azionismo Viennese, è abituata ad accogliere anche le forme più controverse. Uno degli eventi più seguiti e attesi è la Vienna Art Week, festival nato nel 2004 e attualmente noto come la principale piattaforma viennese per le arti visive, in programma dal 18 al 25 novembre 2022. Di questo e ben altro, argomenta Marcello Farabegoli, curatore poliedrico e poliglotta, classe ‘73, nato a Cesena ma cresciuto a Bolzano, attivo a Vienna dal 2010 e in contatto con gallerie, artisti e istituzioni di arte contemporanea del panorama internazionale.
Luca Sposato: La tua formazione è davvero variegata, tocca materie come musica, letteratura, filosofia e fisica quantistica, oltretutto saggiate in diverse università europee; dal tuo punto di vista, pensi che l’arte contemporanea, da te praticata in qualità di curatore, possa essere la sintesi ideale di questa pluralità lessicale?
Marcello Farabegoli: Dopo tanti anni trascorsi al conservatorio statale di musica Claudio Monteverdi di Bolzano, sognando vagamente e vanamente di diventare un nuovo Arturo Benedetti Michelangeli al pianoforte, mi sono perso in una sorta di “Wanderjahre”, errando sia tra diversi rami del sapere umano sia spostandomi realmente tra alcuni paesi d’Europa, finendo poi per laurearmi nel 2002 in fisica a Vienna. Durante i miei studi ho avuto il piacere e l’onore di lavorare per un breve periodo a tematiche quantistiche del teletrasporto e della crittografia nel gruppo “Quantum Experiments and the Foundation of Physics” del professor Anton Zeilinger, uno dei tre attuali detentori del premio Nobel della fisica. Non lo dico per vantarmi, o forse solo un pochettino, ma perché questa esperienza si è rivelata essenziale a forgiare la mia forma mentis. Lungi da voler mistificare la fisica quantistica, eppure si tratta veramente di un mondo fantastico in cui succedono cose strane: particelle che sembrano muoversi allo stesso tempo su percorsi diversi manifestando la loro natura complementare d’onda o che pur essendo separate nello spazio si comportano in modo correlato come fossero una sola entità indivisa. Voglio dire, si tratta di fenomeni apparentemente impossibili, talvolta perfino intrinsecamente contraddittori. Emblematico quando Zeilinger fu invitato a partecipare a documenta 13 presentando alcuni dei suoi esperimenti basilari. Forse mi sto dilungando troppo sul mio vecchio amore per la fisica: torniamo alla tua domanda! In effetti devo dire che dentro di me aleggia il concetto di “Gesamtkunstwerk”, ma meno in senso wagneriano e più nel contesto moderno di happening, performance o teatro sperimentale. Forse per questo amo molto il cinema, quello d’autore intendo, che secondo me più si avvicina a tale ideale. Da un punto di vista pratico cerco infatti di attuare una specie di sinestesia: tratto le varie opere da esporre come le diverse voci di un pezzo musicale, così da creare un giusto equilibrio tra armonie, disarmonie e pause. Nel caso di mostre collettive è un po’ come dirigere un’orchestra, pur composta da tanti primi violini, primi violoncelli, eccetera È necessario rendere al meglio ciascuna voce. Parlando di contenuti, penso che l’arte contemporanea possa realmente creare una sintesi ideale tra dottrine diverse, dalla letteratura alla fisica. Le artiste e gli artisti stessi spesso si fanno ispirare da svariate discipline. Perfino una materia ermetica come la fisica quantistica è stata fonte di grande ispirazione, come anche di malintesi, pur sempre prolifici. Forse uno dei compiti del curatore è proprio quello di interpretare l’arte che espone svelando più o meno palesemente al pubblico le connessioni trasversali, le contaminazioni che si trovano in essa. Mi piace anche scovare, talvolta un po’ forzare, aspetti politici e ambientali nei lavori con cui mi confronto. Prendiamo come esempio la mostra “Geometrie” di Esther Stocker, che ho curato nel 2016 a Palazzo Metternich, magnifica sede dell’Ambasciata Italiana di Vienna: nei lavori della rinomata artista sudtirolese, ho declinato l’influenza da parte delle geometrie non euclidee – essenziali per spiegare la teoria della relatività generale di Einstein – verso un impulso a disturbare non solo le griglie spaziali, come voluto dall’artista, ma anche le griglie, ovvero le recinzioni, che il governo austriaco di allora avrebbe tanto voluto costruire intorno alla propria nazione per contrastare i flussi migratori.
Parlando del tuo operato, mi sembra di cogliere un’intenzione decostruente degli ambienti, in cui l’opera è l’innesco discreto ma carico. È un ottimo modo per rendere protagonista l’oggetto artistico senza dover ricorrere alla magniloquenza: dall’esperienza di Salotto Vienna (2014) ai progetti a Palazzo Metternich, ovvero l’ambasciata italiana a Vienna, e alle esperienze curatoriali più recenti al MuseumsQuartier di Vienna per la collezione Friedrichshof, può essere il “rovesciamento” ambientale il filo rosso del tuo lavoro?
Ammetto che questa bella domanda mi coglie un po’ impreparato, perché non so bene quale sia il filo rosso del mio operato. In una precedente intervista in tedesco, descrissi il mio filo conduttore tramite i concetti platonici del “Vero, Bene e Bello” ma volevo fare più ironia che altro e magari provocare inconsciamente qualche superstite del Wiener Kreis. Normalmente parto dallo spazio espositivo che ho a disposizione, oppure da uno o più artisti che mi ispirano particolarmente. Incominciando da ciò, vado alla ricerca del concetto adatto. Stravolgendo il linguaggio matematico mi piace pensare di basarmi su “condizioni al contorno”, ovvero circostanze poco influenzabili, entro le quali costruire man mano la mostra. Naturalmente il numero degli artisti può crescere e decostruendo l’ambiente si possono trascendere le premesse del progetto, ma resto solitamente fedele al nucleo originario. Un elemento peculiare della mia pratica curatoriale è quello di amare le sfide con luoghi difficili o non consueti all’allestimento di mostre: così ho curato mostre da cantine, garage, ex uffici, a palazzi sontuosi, dove il “rovesciamento” dell’ambiente è perlopiù necessario onde poter presentare in modo adeguato le opere d’arte. Naturalmente non disdegno anche i white cube con la loro “acustica visiva” spesso un po’ fredda, ma allo stesso tempo nitida e ideale per far risaltare le opere in sé – in tale contesto, secondo me, la sfida è quella di non perdere vigore nella drammaturgia con cui si espongono le opere d’arte. Il “Salotto Vienna”, che abbiamo realizzato all’Ex Pescheria di Trieste nel 2014, non è stato prettamente un progetto espositivo, ma piuttosto uno show per il quale abbiamo trasformato il Salone degli Incanti in un immenso salotto viennese che durò trentatré notti in cui abbiamo presentato più di duecento personalità del campo artistico e culturale austriaco, tra cui alcune dei nomi più risonanti. Penso di essere stato nominato uno dei tre co-curatori del progetto perché nel 2013 ho presentato nell’ambito della Vienna Art Week il leggendario club berlinese dei polacchi falliti alla Kunsthalle Wien. Tale show, che definirei tra cabaret e teatro dell’assurdo, ha avuto un grande successo e ha contribuito essenzialmente alla mia notorietà nella scena artistica di Vienna. L’apice del rovesciamento ambientale penso di averlo realizzato con la mostra site-specific “Domenica” di Pablo Chiereghin, Aldo Giannotti e Massimo Vitali che ho curato nel 2017 a Palazzo Metternich. Il tema verteva sul concetto di tempo libero e di come noi italiani passiamo la domenica. Oltre ad alcune magnifiche e imponenti fotografie di Vitali dalla sua serie sulle spiagge erano in mostra numerose opere assai sofisticate di Chiereghin e Giannotti. Il clou della mostra è stato proprio il loro lavoro “Pitch Invasion” per cui dovetti far installare un pezzo di campo da calcio nel neoclassico salone da ballo del palazzo. All’inizio pensavamo che sarebbe bastato un prato sintetico, ma poi mi è venuto, oserei dire, il pallino di far installare un prato vero. Ed è stata un’impresa assai ardua pensando che qualche anno prima per spostare solo una sedia dovevo chiedere il permesso a Sua Eccellenza in persona. Alla fine, però il contrasto tra il prato rigoglioso, il fresco odore dell’erba e lo sfarzoso salone è stato spettacolare. Oltre all’inaugurazione, che l’Ambasciatore Marrapodi e io abbiamo organizzato assieme alla direttrice generale dei musei del Belvedere e un leggendario calciatore austriaco, sul prato si è giocato a calcio, sono state fatte capriole e hanno avuto luogo dei picnic, cosa che fece un certo scalpore a Vienna. Per capire meglio come lavoro citerei volentieri anche l’opera “Mir fehlt das Meer” (Mi manca il mare) di Chiereghin, un grande banner applicato sulla facciata di palazzo Metternich. Naturalmente l’idea era di esprimere un sentimento comune e naturale a noi italiani in Austria, ma a un livello più profondo d’interpretazione, trattandosi del palazzo Metternich, poteva anche essere letta come una lamentela post mortem del famoso nobiluomo di stato austriaco, causa della perdita da parte dell’Austria di Trieste e del suo mare. Questa notizia è trapelata involontariamente alla stampa e così ho rischiato il mio primo piccolo scandalo diplomatico che sono però riuscito per fortuna a contenere. Ammetto che coniare insieme opere apparentemente innocue, o almeno non palesemente scandalose, in un ambiente avulso, capaci però di innescare il loro potenziale mediatico esplosivo mi alletta moltissimo.
A proposito di scandali, ho letto nel tuo percorso di momenti effettivamente tesi sul piano della diplomazia: puoi parlarmi di “Japan Unlimited”?
Al di là dello scandalo, ti parlo molto volentieri di una delle mostre più grandi che ho curato fino a oggi, ovvero “Japan Unlimited” al frei_raum Q21 exhibition space del MuseumsQuartier di Vienna nel 2019. Per i festeggiamenti dei centocinquantenari rapporti diplomatici tra Austria e Giappone ho avuto la brillante idea di raggruppare alcuni degli artisti più politici e sociocritici del Giappone, come ad esempio Makoto Aida, Chim↑Pom, Yoko Shimada e Sputniko!. Non ho scelto le loro opere più sovversive perché non era mia intenzione offendere la popolazione giapponese, ma ho pur sempre toccato temi che rappresentano tabù per il paese del Sol Levante, come l’imperatore Showa, la catastrofe nucleare di Fukushima o indirettamente anche le aggressioni del Giappone ai paesi limitrofi durante le guerre mondiali. La mostra scaturì uno shitstorm da parte dell’estrema destra giapponese, iperattiva su internet, che viene chiamata neto-uyo. Seguirono discussioni nel parlamento giapponese, frequenti domande da parte di giornalisti alla cancelleria dell’allora primo ministro Shinzo Abe, finché il ministro degli esteri giapponese ci ha tolto l’unico sostegno che avevamo ricevuto da parte del Giappone per la mostra, ovvero un logo rappresentante la secolare amicizia tra i due paesi in questione. Fino ad allora speravo che proprio grazie a tale “amicizia” il Giappone fosse in grado di sopportare un po’ di critica, invece ha confermato l’aria di forte censura che vige nella nazione nipponica. Da un punto di vista simbolico toglierci il logo ha avuto un grande effetto perché il MuseumsQuatier appartiene allo stato austriaco e alla città di Vienna e “Japan Unlimited” veniva finanziato anche dal ministero degli esteri austriaco. Inoltre, i numerosi sponsor giapponesi che ero riuscito a convincere a sostenere il progetto hanno incominciato anch’essi a chiedere di cancellare i loro logo dalle nostre homepages, cosa che naturalmente abbiamo fatto. Sorvolando su sparute, benché scottanti, minacce di morte, contro di me ed alcuni artisti, che abbiamo trovato nel web, per fortuna non ci sono state forti ripercussioni, solo un piccolo tsunami da parte della stampa che ha pubblicato articoli sulla mostra in numerosi media austriaci, giapponesi e di svariate altre nazioni, anche su quotidiani importanti come l’Asahi e il Mainichi Shimbun, il Japan Times, la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine Zeitung e il New York Times. Perfino in Italia c’è stato qualche articolo su “Japan Unlimited”. Nel bene e nel male, devo dire che alla fin fine il Giappone ci ha fatto un grande regalo. Dopo questo scandalo è stato probabilmente destino venire assunto nel 2020 in qualità di curatore della Sammlung Friedrichshof, ovvero di una delle collezioni private più importanti dell’Azionismo Viennese degli anni Sessanta e Settanta. Dal 2010 la collezione Friedrichshof, sotto la direzione artistica di Hubert Klocker, ha organizzato mostre personali e pubblicazioni per importanti compagni di avventura degli azionisti, come Allan Kaprow e Carolee Schneemann, oltre a dare spazio a ricerche finora poco presenti in Austria, ma corrispondenti in termini di performance e contenuti, come quelle di Ion Grigorescu, Paul McCarthy o Bjarne Melgaard. In questo contesto, io stesso vedo il mio ruolo di curatore nel proporre l’Azionismo Viennese in dialogo col presente o col passato, come anche cercare posizioni attuali vicine all’azionismo. Nella nostra dependance viennese “STADTRAUM” (spazio urbano), collocata nella strada delle gallerie Schleifmühlgasse, mostriamo quindi anche artisti più o meno giovani, emergenti. In questo contesto ho curato alcune mostre come “Iron Waterfall” di Marko Marković nel 2022, che verte sul tema dell’iron curtain, ahimè, tematica tornata assai attuale. Oppure, assieme al mio giovane collega Antonio Rosa de Pauli, ho curato la mostra “Viennese Actionism – Path to Action” al museo della collezione Friedrichshof, che si trova a circa un’ora da Vienna. La mostra è iniziata a maggio del 2021 ed è finita qualche settimana fa. In questa mostra, tramite l’ampio patrimonio della collezione Friedrichshof abbiamo cercato di far vedere come l’avanguardia artistica austriaca degli anni Cinquanta e Sessanta abbia trovato la sua strada dall’Informale, l’Espressionismo Astratto e l’Action Painting, all’Azionismo artistico in sé. Per la prima volta, oltre ai padri dell’Azionismo Viennese, Günter Brus, Otto Muehl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler, nonché il rinomato artista a loro vicino Alfons Schilling, abbiamo presentato alcune posizioni meno note che ruotavano intorno agli azionisti, tra cui anche figure femminili. Sarebbe ora troppo complesso entrare nel merito del concept di tale mostra. Posso forse accennare che l’allestimento della mostra era prettamente classico ed è stata in special modo mia premura mostrare nella sala principale i lavori su tela o in generale materici, tra cui alcuni assai imponenti, in una delle altre due sale solo lavori su carta e nella terza sala esclusivamente fotografie di alcune delle prime azioni. Il tutto naturalmente corredato nelle salette di proiezione da alcuni film pertinenti. In tal modo abbiamo cercato, similmente a un esperimento scientifico, di separare le diverse componenti per mostrare e far esperire al visitatore al meglio il passaggio estremamente radicale che riuscirono a realizzare gli Azionisti Viennesi tramite la loro arte.
Lo scenario artistico di Vienna quanto è legato alla tradizione e quanto è propositivo per le nuove proposte? Lo chiedo soprattutto per la fisionomia simile al contesto italiano, molto “gravato” dall’eredità storico-artistica, ma proprio per questo potenzialmente stimolante per le ricerche più sofisticate.
Non direi che Vienna sia “gravata” dall’eredità storico-artistica, anzi ho l’impressione del contrario: giovani artiste e artisti che seguono troppo le correnti del passato non se la cavano troppo bene qui. Probabilmente vige una specie di conformismo per i linguaggi mainstream dell’arte contemporanea e ho pure l’impressione che prevalga un’atmosfera, oserei direi, di un po’ troppa condiscendenza. Come se il paese che tramite l’Azionismo Viennese ha prodotto una delle correnti più radicali della storia dell’arte, ora si sia dato una bella calmata. Comunque, penso che questa sia un’evoluzione che si ritrova un po’ in tutto il mondo dell’arte. Nella capitale austriaca forse ciò ha anche a che fare col collezionismo non esageratamente diffuso e molto cauto. Più cauti ad esempio rispetto ai collezionisti di Berlino, dove ho vissuto per qualche anno, i quali mi davano la netta impressione di amare anche la ricerca di artisti sconosciuti in piccole gallerie o art spaces che nascevano e sparivano come funghi. In special modo i giornalisti che battono la città di Vienna, probabilmente anche per motivi di mancanza di tempo e spazio sulle testate in cui scrivono, non mi sembrano essere particolarmente avventurosi. Difatti Vienna è pure piena di gallerie che si dedicano più al commercio dell’arte rispetto che alla promozione del contemporaneo, presentando sempre le stesse posizioni trite e ritrite. Però devo dire che la nazione con circa nove milioni di abitanti vanta anche numerose gallerie di altissima qualità e stampo internazionale, alcune delle quali partecipano ad Art Basel regolarmente, oltre a varie fiere d’arte contemporanea importanti nel mondo. Eppure, tutto cambia: così come Berlino non è più quella in cui ci avevo vissuto io agli inizi del duemila, anche Vienna si sta trasformando e mi sembra stia diventando un terreno sempre più fervido per l’arte contemporanea, per la sperimentazione di giovani artisti, curatori e nuove gallerie aspiranti a nobili vette.
Ci vuoi parlare dell’Art Week viennese?
La Vienna Art Week per me è stata un po’ il trampolino di lancio nella scena artistica viennese. Dal 2012 partecipo regolarmente ai suoi special projects e da due anni contribuisco anche con la collezione Friedrichshof, che fa parte dell’Art Cluster Vienna, l’organizzazione che sta a monte dell’Art Week. Prediligo quindi presentare artiste e artisti giovani o non ancora molto conosciuti, mischiandoli spesso a nomi più importanti, per dare ai primi più visibilità possibile. Non mi dispiace neppure realizzare tali progetti in spazi espositivi alternativi. Nel 2014 ad esempio ho curato per Vienna Art Week la mostra “NO MORE FUKUSHIMAS” al Verein08, un locale allestito sulla falsa riga di un soggiorno studentesco che si affaccia su una via nell’ottavo distretto di Vienna, in cui hanno luogo prevalentemente concerti anche di ottimo livello. Grazie all’importante tema di Fukushima, ma anche ad alcuni grandi nomi partecipi alla mostra, come Erwin Wurm, un minuscolo progetto ha avuto un successo enorme, cosa che mi ha dato grande soddisfazione. Questo mi sembra un bell’aspetto dell’Austria, cioè il fatto che artisti di fama mondiale prestino il loro lavori anche per piccoli progetti trasversali, a patto naturalmente che si fidino della curatela. Quest’anno invece curo la mostra “PARTY OF A LIFETIME” di Paula Flores al Kunstraum Feller. Il 21 di questo mese modererò un talk tra lei ed Elisabeth von Samsonow, artista e professoressa all’Accademia di Belle Arti di Vienna. La giovane artista messicana Flores, che ha studiato arte in Messico e poi ha conseguito un master in Art & Science all’Università di Arti applicate di Vienna, si occupa della complessità della natura, della nostra conoscenza a riguardo e del nostro rapporto con essa. Si chiede l’artista, com’è possibile che il pensiero capitalista-imperialista occidentale, concepito prevalentemente da uomini, abbia permesso a una parte dell’umanità di legittimare lo sfruttamento di popolazioni intere, opprimendo e schiavizzando gruppi di persone, abusando non meno della natura? Flores cerca una via di cambiamento, smantellare e superare questi costrutti concettuali gerarchici che ci limitano nella comprensione dell’interconnessione naturale col mondo. Per farlo, studia alcune straordinarie modalità di comunicazione tra gli esseri umani e altre specie come funghi, batteri e piante. Ecco, una pluralità lessicale, ritornando un po’ alla tua prima domanda. Concludo annunciando che nel tempo a venire questa mostra, sempre a mia cura, verrà ampliata e mostrata in cinque gallerie d’arte statali in Messico.
Visto che hai introdotto la questione, quali sono i tuoi progetti futuri? Torneresti in Italia dopo questa esperienza?
Al momento sto pianificando le mostre dei prossimi due anni. Causa pandemia ci sono stati vari spostamenti e cerco quindi di realizzare alcuni progetti che avevo in programma già da tempo assieme ad alcuni nuovi. Inoltre, sono in contatto col direttore di un importante museo italiano per curare un’interessante mostra che spero tanto si realizzi. Oltre agli Azionisti Viennesi vorrei presentare in Italia alcuni degli artisti più rinomati d’Austria, alcuni dei quali mi hanno già dato la loro disponibilità. Naturalmente desidero proporre anche posizioni emergenti e meno note. Il mio sogno è quello di potermi dedicare anima e corpo in scambi artistici e culturali di alta qualità tra l’Austria e l’Italia. In effetti devo dire che il mio paese natale incomincia veramente a mancarmi e sto cercando un modo per stare un periodo dell’anno in Italia e un altro a Vienna. Non credo però di tornare nel Sudtirolo, dove sono cresciuto e neppure nella mia regione natale, la Romagna, anche se notoriamente assai accogliente. Piuttosto sto pensando a Firenze dove ho studiato per qualche anno e ho alcuni cari amici, come Chiara Giorgetti, artista molto raffinata e professoressa dell’Accademia di Belle Arti di Brera – la nostra amicizia è nata grazie alla mostra “GRAFT” e annesso simposio che ho curato nella galleria Miroslava Kubíka in Cechia nel 2017, dove l’avevo invitata a partecipare. D’altra parte, mi piacerebbe anche andare alla scoperta di Roma dove si trovano ottimi musei e gallerie di arte contemporanea ed è situato il centro della produzione cinematografica italiana. Grazie a una mostra di Sandro Kopp di cui mi sono occupato nel 2021 presso la collezione Friedrichshof, ho avuto il piacere di conoscere la sua compagna Tilda Swinton che ha riacceso in me l’interesse di cooperare col cinema. In passato infatti ho curato la mostra “In Catina in cantina” per il controverso e noto regista austriaco Ulrich Seidl che nel 2002 vinse il gran premio della giuria alla Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia; in seguito ho collaborato con un suo allievo facendo parte con una piccolissima parte nel film di quest’ultimo. Chissà se riuscirò in tale intento e se poi, un po’ viziato dall’ordine tedesco-austriaco, sarò in grado di destreggiarmi in Italia. Tuttavia, mi piacerebbe vivere e lavorare allo stesso tempo un po’ qui e un po’ là, un po’ come in fisica fa una particella in uno stato di cosiddetta sovrapposizione quantistica.
Luca Sposato
Info:
Marcello Farabegoli, Vienna Art Week 2022: Challenging Orders
18/11/2022 – 25/22/2022
viennaartweek.at/de/open-studio-days-2022/
viennaartweek.at/en/program/paula-flores-party-of-a-lifetime/
marcello-farabegoli.net
Luca Sposato nasce a Tirano, in Valtellina, nel febbraio del 1986, vive a Prato operando nella piana metropolitana fiorentina (Pistoia-Prato-Firenze). Storico dell’arte, critico e curatore d’arte e xilografo. Ha curato mostre in gallerie private, fiere internazionali ed installazioni pubbliche, sia in Italia che all’estero, fra cui una rassegna in palazzi storici di Pistoia e la scenografia di uno spettacolo musicale al Museo del Tessuto di Prato. Scrive per diverse riviste di settore sia cartacee che online. La sua ricerca critica partendo dalla grafica d’arte, parallelamente praticata, si concentra sul segno tracciato, fisico e semiotico, espandendo lo studio alla sincronizzazione temporale tra passato e presente, e coltivando la curatela come medium artistico.
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