In via del Porto 48 troviamo, all’angolo del MAMbo e accanto al circolo PARSEC, una delle gallerie più sperimentali e uniche di tutto lo scenario bolognese. Stiamo parlando dell’iconica GALLLERIAPIÙ fondata da Veronica Veronesi dieci anni fa. Per festeggiare questo decennale abbiamo deciso di regalarvi un’intervista con la sua creatrice.
Sara Papini: Come nasce il progetto della galleria e quale è stato il tuo percorso?
Veronica Veronesi: GALLLERIAPIÙ nasce con me, dieci anni fa, nel 2013. Abbiamo quindi appena compiuto dieci anni! Io vengo da un background completamente diverso. Mi sono occupata di abbigliamento per una decina d’anni prima di approdare qui. La galleria è stata per me una sorta di piano B. La mia visione dell’epoca, che rimane ancora attuale, vede la fusione tra le arti e le discipline, sempre alla ricerca di un’estetica con conseguenze. Una fusione tra l’arte, la moda, il design e l’architettura. Il passaggio da direttrice artistica nel campo del fashion a questo mondo non è stato un passo difficile, bensì lo è stato capire il sistema dell’arte contemporanea. L’attenzione che avevo al dettaglio quando mi occupavo di moda, l’ho traslata nella cura del dettaglio nell’organizzazione delle mostre che ospitiamo qui ogni anno. La mia idea di galleria, invece, nasce da una mia volontà di allontanarmi sempre più dal white cube e di creare un luogo dove poter stare, dire e partecipare insieme. Un luogo dove non ci sono risposte ma dove si pongono molte domande. Per alimentare la voglia di relazione ho inserito all’interno di questa galleria uno spazio caffetteria. Penso di essere l’unica galleria a poter somministrare bevande alcoliche, in perfetta regola. C’è anche tutto un reparto dedicato alla libreria indipendente. Molteplici, inoltre, gli eventi collaterali che hanno creato quella che ancora oggi è l’atmosfera della galleria. La ricerca dello spazio, invece, fu un altro capitolo per me essenziale. Cercai appositamente qui in questa zona, nel distretto della manifattura delle arti. All’epoca, dieci anni fa, si stava definendo in questo circondario uno scenario bellissimo. Si erano trasferiti qui la Cineteca, il MAMbo e il Cassero. Quindi a livello istituzionale si stava delineando un’interessante scena, grazie anche ai piani europei di qualificazione del quartiere. Parallelamente, anche alcuni imprenditori privati si stavano spostando qui, come per esempio galleria CAR e P420. Ci fu uno sforzo da parte di noi privati nel voler aprire le nostre attività e delineare un certo tipo di ricerca sul contemporaneo. Si andò a creare e consolidare un vero e proprio humus culturale.
Quante mostre ospitate solitamente?
Normalmente abbiamo una selezione curata di quattro mostre all’anno alla quale colleghiamo moltissimo eventi off collaterali. Mi piacerebbe farne di più perché i tempi si stanno sempre più accorciando, ma per un discorso sia di budget sia di cura, sarebbe impossibile lavorarle al meglio se fossero di più.
Quali sono gli artisti e le mostre che hanno caratterizzato di più il luogo?
È stata una ricerca sempre molto in divenire, non ho mai pensato di trasformarmi in un brand e la mission è sempre stata quella di buttare nuova linfa sul mercato. Mi sono da subito concentrata sugli artisti emergenti e in particolare su quelli che potessero portare avanti un determinato tipo di ricerca, che parlassero di stringenti attualità prossime e future. La frase che potrebbe caratterizzare il tutto è “estetica con conseguenze”. È una frase emblematica che caratterizza tutta la mia linea di ricerca. Ci deve essere sempre qualcosa che mi permetta di parlare della nostra società e di quello che stiamo vivendo e che vivremo. Inoltre, noi come galleria proponiamo sempre progetti inediti, prodotti e pensati per i nostri spazi, site specific. Nel corso degli anni la galleria ha cambiato faccia decine di volte, siamo sempre molto aperti a lavorare sullo spazio. Con molti artisti emergenti che abbiamo promosso c’è stata una vera e propria crescita comune. Per me è un’operazione culturale quella di buttare nuova linfa sul mercato. Se non ci fossero gallerie come la mia (e fortunatamente ce ne sono tante in Italia), si scambierebbero solo opere di secondo mercato. Io sottolineo soprattutto il fatto che sì, la mia galleria è sicuramente commerciale, ma con una forte componente culturale, perché alla fine il mercato è un motore che non garantisce sostenibilità a spazi come questo, ma in realtà io mi voglio confrontare con quel tipo di mondo lì. Una scelta difficile e spesso rischiosa. Tra gli artisti ai quali siamo più legati, ci sono sicuramente gli Apparatus 22, che collaborano con me da quasi otto anni. Sono stati loro con me a coniare il termine estetica con conseguenze. Loro sono un collettivo transdisciplinare, si occupano di arte relazionale e atti performativi e rispecchiano perfettamente la mia linea di ricerca. Un altro esempio può essere sicuramente Emilio Vavarella, al quale abbiamo dedicato tre personali.
Ti chiederei, per concludere, un approfondimento sulla ricerca che ha caratterizzato l’estetica della galleria e un’anticipazione sui progetti futuri.
La ricerca che sto portando avanti adesso si concentra principalmente su due tematiche: una è la rimessa in gioco dello spazio espositivo e l’altra è la ricerca sul futuro delle gallerie. Di per sé due tematiche che hanno poco a che fare con lo spazio espositivo e con il concetto di “mostrare”, ma sto cercando di coniugare le due cose. La ricerca è per me fluida. Mi sono concentrata negli anni su tematiche differenti, dal sociale, alla politica. Negli ultimi anni ho cercato di focalizzarmi molto sui nuovi media e le differenti tecnologie, come per esempio intelligenze artificiali, video o videoarte. È estremamente affascinante approcciarsi a questi nuovi linguaggi. Inoltre, spesso, durante le mostre, invitiamo anche critici, ricercatori che implementano e arricchiscono ciò che è esposto. So di essere una galleria un po’ speciale e di avere una linea un po’ radicale ma secondo me per noi gallerie è il momento di mettersi in discussione. I “white cubes” come li conosciamo adesso nascono negli anni ‘70 per compiacere la domanda del pubblico borghese dell’epoca. Ormai sono passati più di cinquant’anni e le gallerie sono sempre uguali, quello che, però, è cambiato secondo me è che non stiamo più parlando a nessuno, dato che la borghesia non esiste più. I denari e i mercati sono in mano ad altre categorie, ma il sistema dell’arte contemporanea si sta sempre più ghettizzando. La domanda scarseggia, quindi c’è tanto da rimettere in discussione anche verso le nuove generazioni, spesso restie a venire in galleria a vedere una mostra.
Info:
Nasce a Genova ma attualmente vive a Bologna, città dove si è laureata all’indirizzo CITEM con una tesi sulla videoarte. Lavora nel mondo degli eventi nel settore della produzione ed è cultrice della materia di Studi Visuali all’UNIBO.
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