La tragedia per gli antichi greci era un mistero cruento che metteva in scena l’assenza di comunicazione tra il mondo umano e la capricciosa sfera divina: nella vicenda di ogni eroe o personaggio mitico tutto appare determinato da una sorte fatale e l’uomo, fragile marionetta appesa a un filo, è inerme di fronte al suo destino e cieco nell’affidarsi a oracoli e riti nell’impossibile tentativo di dirigere le proprie azioni. Il pubblico, identificandosi con le peripezie dei personaggi in scena, era pervaso da sentimenti di pietà e terrore che lo conducevano alla catarsi finale, risultato fondamentale di ogni azione tragica. Euripide, drammaturgo esemplare per la realizzazione del passaggio del protagonista dalla felicità all’infelicità, nell’Ifigenia in Tauride (composta intorno al 415 a.C.) metteva in scena la ribellione dell’individuo contro la sorte sottolineando il valore della nobiltà d’animo come strumento di salvezza.
La principessa Ifigenia, vittima sacrificale designata dal padre Agamennone per permettere alle navi Achee, ostacolate da una maledizione, di salpare alla volta di Troia, viene salvata in segreto dalla dea Artemide che interviene sostituendola con un cervo e trasportandola in Tauride, dove le assegna il crudele compito di presidiare il suo tempio e di eseguire il sacrificio rituale di ogni straniero che sbarcasse sulla penisola. La ragazza, che cova in cuore l’odio verso i greci, che in nome di una guerra non si sono opposti al suo sacrificio, e la nostalgia per gli affetti familiari negati, rischia di uccidere il fratello Oreste, nel frattempo giunto al santuario per rubare la statua della dea, ma il loro reciproco riconoscimento li porta ad architettare assieme la fuga con l’aiuto di Atena.
Gli antichi poeti creavano personaggi consapevoli, vigili, capaci di grandi passioni e profondamente connessi con le proprie sensazioni e pulsioni. Erano espressione di un mondo arcaico, sanguigno e simbiotico in ogni suo elemento e aspetto, radicalmente antitetico rispetto al labile individualismo che impronta lo stile di vita contemporaneo. Per questo tradurre oggi in un linguaggio scenico adeguato ai nostri tempi questi versi composti più di 2000 anni fa senza annacquarne l’originale efficacia e senza snaturarne l’etica di fondo è un’operazione delicata, che in pochi riescono a portare a termine con successo. Uno di questi è stato Joseph Beuys, che a Francoforte il 29 e 30 maggio 1969 nell’azione Titus-Iphigenia (condensazione delle due tragedie Titus Andronicus e Iphigenia in Tauris), apparve in scena vestito con una pelliccia. Dopo essersela tolta bruscamente prese a imitare il volo degli uccelli, a suonare due piatti di bronzo, a emettere suoni gutturali amplificati da un microfono, a rigurgitare grasso e a nutrire con zuccherini il maestoso cavallo bianco con cui condivideva il palcoscenico. Il lieto fine di Ifigenia in Tauride era da lui interpretato come invito “al passaggio dal caos all’ordine, dalla nozione di sacrificio a quella del rinascimento”, temi centrali nella sua poetica. Associandosi a un animale, attraverso la pelliccia e le imitazioni degli uccelli, l’artista evocava le trasformazioni dei riti sciamanici tartari assimilandoli alla sostituzione in extremis di Iphigenia con un cervo sulla pira sacrificale. L’azione intendeva quindi rappresentare un rinascimento generale, attraverso l’accettazione di una forma di animalità positiva.
Elabora queste suggestioni e riparte idealmente da qui l’Iphigenia In Tauride. Io sono muta di Lenz Fondazione, recentemente andata in scena a Parma, Verona e Genova con testo e imagoturgia di Francesco Pititto, regia, installazione e costumi di Maria Federica Maestri e una straordinaria Monica Barone, interprete unica di questo secondo capitolo del dittico di Lenz dedicato al mito di Ifigenia. Accoglie lo spettatore una scenografia minimalista basata su una suggestiva sineddoche concettuale e visiva che crea un’ambientazione ibrida tra il sogno e l’ossessione. Le corna della cerva sacrificata al posto della donna oscillano come un monito agganciate a un sottile cavalletto meccanico e anche il tempio di Artemide è evocato da due colonne sospese a un analogo meccanismo. In un angolo lampeggia un misterioso altare su cui troneggia un lavacro trasparente, sacrale premonizione del rituale post moderno che si compirà nei successivi 45 minuti. E poi lei. Inizialmente immobile, rannicchiata a terra in un mantello cangiante che richiama le sue nobili origini, accende un giradischi che fa risuonare l’Iphigenie en Tauride di Gluck. È sola e quello è il suo coro; nessun artificio governa la scena dietro le quinte, nessuna illusione inficia la verità delle cose e il pubblico è testimone di ogni aspetto dell’azione che si svolge in sua presenza.
Anche Iphigenia, come Beuys, si libera del suo mantello e il suo corpo inizia a fluttuare assecondando la musica: se l’Ifigenia euripidea ha un carattere nostalgico e ausculta le ingannevoli visioni della notte in cui si mescolano ricordi della sua stirpe distrutta dalla vergogna, l’Iphigenia che ci troviamo di fronte è un essere elastico ed energetico, ferino e sensibile, che prova a reagire all’esilio impersonando l’essenza dei luoghi che la attraversano. Iphigenia è onda, spuma di mare, scoglio e volo di gabbiano, ma è anche uno spirito inquieto che aleggia sulla Tauride contemporanea (l’attuale Costanza, in Romania) dove proietta la sua ombra, invisibile ai passanti, su rovine, belvedere e panorami per turisti. Forse qui non c’è nessun fratello da riconoscere e salvare, la donna balla per sé stessa conficcando lo sguardo tra il pubblico, racconta del suo essere oggetto del sacrificio costretta a farsi carnefice, indossa un giogo evidente, una collana medica che stringendole il collo le permette di respirare e la sofferenza purifica i suoi gesti. Iphigenia è sciamana, la sua danza è estasi, travalica i limiti spazio-temporali che ci separano da quella generazione arcaica e restituisce al mito la sua originaria brutale vitalità trasformando le naturali peculiarità e attitudini dell’interprete in materiale coreografico e drammaturgico.
Iphigenia sembra sul punto di soffocare e respira attraverso un bosco-diaframma che la accoglie come se fosse corteccia o foglia. Sul suo altare non scorrerà il sangue di un’altra vittima innocente perché lei sostituirà l’inutile sacrificio con una liturgia di purificazione in cui offre l’aspetto più fragile di sé come supremo pegno di autenticità. Finalmente può parlare ed è pura emozione sentire la sua voce e il suo respiro amplificato dal microfono: anche lei, come gli antichi, cerca il contatto con una dimensione sovrannaturale, ma al contrario dei suoi antenati, evita ogni ingannevole mediazione e lo ottiene attraverso una profonda e lucida appropriazione del sé. È un nuovo inizio: per lei, per la sua famiglia redenta dalla colpa e anche per lo spettatore, che nel 2019, anche se non può avere un’idea precisa di cosa fosse la catarsi aristotelica, abbandona a malincuore la sala sentendosi più libero.
Iphigenia In Tauride. Io sono muta è nel palinsesto della ventiquattresima edizione di Natura Dèi Teatri, Festival Internazionale di Performing Arts curato da Lenz Fondazione, che si protrarrà fino al 30 novembre con epicentro a Parma.
Info:
For all the images: Lenz Fondazione, Iphigenia in Tauride – Ph: Maria Federica Maestri
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
NO COMMENT