Irma Blank (Celle 1934 – Milano 2023), negli anni Cinquanta, sulle orme del grand tour di settecentesca memoria o, addirittura, sulle orme di quello che fu il “Viaggio in Italia” di Johann Wolfgang von Goethe, approdò in Sicilia alla ricerca di un mondo culturale e di vestigia artistiche che sebbene conosciute sui libri andavano viste e sperimentate con i propri occhi. Ma come è capitato a tantissimi altri artisti, un viaggio di conoscenza divenne per Irma un viaggio di vita, tanto che lei si trasferirà in Italia in maniera definitiva fino ad essere “adottata” dal Bel Paese. E se per Goethe il viaggio si tramutò in esperienza letteraria, per Irma questo “viaggio galeotto” divenne il suo futuro (anche familiare), fino legarsi e intrecciarsi con tutta la sua successiva ricerca artistica.
Il suo lavoro maturò in un clima di sperimentazione linguistica tipico della seconda metà degli anni Sessanta, in cui esponenti delle avanguardie di matrice Minimal e Concettuale registrano, attraverso il processo ripetitivo di un’arte impersonale, il tempo del proprio vissuto: l’esserci, l’esistere, il qui e ora. Fin da subito Irma Blank rivolse la propria attenzione (come lei stessa affermò) “verso la scrittura, che spoglia del senso per caricarla di altre valenze. Una scrittura purificata dal senso, un segno autonomo che dà voce al silenzio”. È proprio questa la soluzione tanto radicale quanto da riconoscere all’impostazione del suo lavoro: una scrittura non legata al sapere, ma all’essere. Carte, fogli, tele, libri sono le superfici su cui si gioca il rapporto tra segno e tempo. In qualche modo il riferimento con le coeve ricerche della Pura Pittura (il supporto, gli elementi primari del dipingere, l’azzeramento del segno come narrazione…) divengono un ponte quasi naturale.
Inchiostro, china, penna biro, pastello, acquerello, acrilico sono gli strumenti attraverso cui i segni occupano queste superfici e le superfici registrano il tempo di un’esistenza attraverso il gesto. Pensiamo anche alla grande lezione di Roman Opalka, alla metodica (e ossessiva) ripetizione e, nel contempo, alla variazione minima dell’informazione, allo scorrere del tempo come scansione della pittura, e in ambito più alto alla scansione del tempo in On Kawara. In sintesi, un lavoro al giorno per sfogliare le pagine di un calendario che è la vita e il fluire del tempo sulle nostre vite.
La relazione con la scrittura (e quindi con quella galassia indefinita che fu definita Poesia Visiva) è del tutto evidente. Mirella Bentivoglio lo comprese molto bene e la mostra da lei curata nel 1971 per il Centro Tool di Milano (in via Borgonuovo, dove gravitarono per alcuni anni le figure di Ugo Carrega e Franco Accame e che fu un centro delle “culture del dissenso” o di quella separazione dal mainstream dominante), ne fu una gran bella testimonianza, a cui doverosamente fu invitata anche Irma Blank (peraltro va detto che quella mostra anticipò in maniera evidente le successive ricerche di Lea Vergine “Sull’altra metà del cielo” e, nel 2022, da Cecilia Alemani con la sua Biennale coniugata al femminile). Questa prima testimonianza fu poi confermata dalla Bentivoglio con la XXXVIII Biennale di Venezia (1978), quando firmò la mostra “Materializzazione del linguaggio”.
Per assurdo, il lavoro figurativo en plein air del pittore svizzero Jean-Frédérich-Schnyder (una tela al giorno, a cronaca del suo viaggio tra i paesaggi bucolici della Svizzera) risponde, da un’altra sponda, al medesimo modo di sentire: la continuità di un sentimento, la ripetitività del gesto, l’estraneazione o distanza del pittore dal soggetto raffigurato. L’opera di Irma Blank si struttura per serie di lavori, come tappe e spostamenti, anche minimi, di un percorso di assoluta coerenza. A partire da un nucleo circoscritto di temi e di domande, ogni ciclo sfuma e si lega a quelli successivi in una progressione fluida e naturale.
Certo, la sua opera non fu subito accettata (ma di queste iniziali difficoltà, questi primi ostacoli al riconoscimento e alla visibilità, sono piene le biografie degli artisti) e bisogna dare atto che l’incontro con Fabrizio Padovani e Alessandro Pasotti della Galleria P420 di Bologna ha posto il lavoro di questa incredibile autrice nella giusta prospettiva e nel giusto cono di luce, ovvero all’interno di quei due semi generatori che sono stati la pittura-pittura e la scrittura-scrittura. A comprova della sua umanissima predisposizione al dialogo e al confronto, va dato atto che là dove questi suoi percorsi hanno intrecciato una spettacolarizzazione all’interno di un incontro pubblico o di un tentativo di comunicazione interpersonale, Irma ha sempre voluto trasmettere un metodo (il metodo della comunicazione spirituale e dell’assenza della ridondanza) e non una lezione, soffermandosi quindi sul dialogo e non sulla pretesa di imporre alcunché. La sua vita (dedicata all’arte) è un esempio e una lezione, senza legare i suoi esiti alla presunzione di dover affermare qualcosa di più, il che è il segno della grandezza di questa autrice.
In ogni caso bisogna ricordare che al suo lavoro non sono comunque mancati i grandi riconoscimenti pubblici; ne ricordiamo qualcuno: la partecipazione a documenta 6 (Kassel, 1977), l’inserimento nella collettiva “Sprachen jenseits von Dichtung” al Westfälischer Kunstverein di Münster (1979), l’invito alla XVI Biennale di San Paolo (1981), l’invito all’XI Quadriennale di Roma (1986), le conferme da parte del Centre Pompidou nel 2009 e nel 2010, la personale al Bombas Gens di Valencia (2021). A Bologna la galleria P420 inaugurerà una mostra a lei dedicata il 6 maggio 2023.
Fabio Fabris
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