Un po’ più scomoda delle precedenti, la location de la Biennale de Lyon di quest’anno Les Usines Fagor, ex fabbrica di lavatrici, si presta con i suoi grandi spazi a dare alle opere il giusto respiro. 30.000 metri quadrati di superficie divisi in 4 Halles. Ma non solo. La direttrice e i curatori hanno inteso mettere gli artisti in dialogo con l’atmosfera post industriale ed essi hanno creato opere site specific nel senso più proprio del termine. A cominciare da quello che era un ufficio situato all’entrata il collettivo Bureau des Pleurs allestisce il luogo come spazio di riflessione sulla fine della fabbrica e la creazione di disoccupati. Jean Marie Appriou crea con l’alluminio un’intricata selva di rovi che invadono lo spazio inserendo la natura nel regno della tecnologia. Celebra il passato una strana lavatrice ricoperta di seta rosa prodotta dalla Vedette del gruppo Fagor e dalla Chantal Thomas, la prima lavatrice con l’intimo fuori.
Nico Vascellari con Horse Power ragiona sui miti e i rituali legati all’energia presente nella natura contrapposta alla concezione tecnologica del cavallo vapore unità di misura della potenza dei motori. Una serie di animali accasciati su motori. Fermando Palma Rodriguez, messicano, ingegnere, allestisce un mirabolante su e giù di vestitini di bambole che ora stanno sospesi per aria ora ballonzolano a mezz’aria ora si accasciano al suolo. In un mondo elettronico anche le favole, le bambole, la magia, sono robotizzate. Elastic Bonding di Malin Bulow sono vestiti di tessuto elastico che coprono i manichini o i performers stessi e dalla testa arrivano alle ampie finestre del soffitto da cui piove la luce integrandosi quindi con l’architettura creando così un uomo prigioniero della stessa. A metà strada tra un sito archeologico fitto di menhir e una foresta con gli alberi tagliati inondati da una pioggia metallica, il lavoro di Bronwyn Katz va attraversato con religiosa attenzione.
Con resina epossidica, acciaio e cera Rebecca Ackroyd crea un mondo post mortem con frammenti di corpi, sedie sgangherate, chiuse in uno spazio delineato solo da finestre oblò. Desolante l’enorme paesaggio nevoso con solo una moto da cross abbandonata Le silence d’une dune di Stephane Thidet. Di Leonard Martin: La Melée, è un’opera gonfiabile che arriva al suo massimo con forme di animali e cavalieri sovrapposti per poi afflosciarsi. Lavoro e disperazione sono rappresentati da Simphiwe Ndzube, africana del sud, con Journey to Asszi, manichini sformati dalla fatica al di là di una rete fatta di pali dotati di stivali, guanti e ombrelli.
Nella seconda Halle il coreano Minouk Lim con Si tu me vois, je ne te vois pas si ispira alle tragedie che hanno devastato il suo paese. Un canale d’acqua fosforescente attraversato da un costume coreano tradizionale. Un’enorme macchia di sapone (Bouilleur de savon di Nicolas Momein) prende buona parte dello spazio disegnando una forma giallastra che può avere a che fare con l’inquinamento come con qualunque disastro naturale. A volte gli artisti agiscono reinventando completamente lo spazio come nel caso di Ashley Hans Scheirl e Jakob Lena Knel che, con una ironia dirompente, fanno diventare casa loro una sezione dello spazio dipingendo le strutture di viola, coprendole di carta da parati, installando lampade, armadi, sculture. L’industria diventa la casa. Con i divani su cui ci si siede volentieri, attorniati dai vivaci colori, appunto perché ci si sente a casa. Che è la stessa cosa che fa Yona Lee, nella quarta Halle, che utilizza la scala a chiocciola per salire nella struttura soprastante dove allestisce un letto, un giardinetto, dei tavolini, una illuminazione.
Nella terza Halle Mire Lee, coreana, si inserisce perfettamente nella struttura con Saboteurs usando glicerina, acciaio, carta, resina che formano un amalgama che viene rimpastato grazie a pompe peristaltiche. Una macchina organica disfunzionale che potrebbe scambiarsi per una vecchia macchina ancora in funzione dai tempi andati. Così pure per gli strani distillatori di Thomas Feuerstein che qui però sembra debbano reintegrare il fegato del Prometheus delivered a cui l’opera scultorea è dedicata.
Terza Halle. Knotworm di Sam Keong è, vista da una parte, una gigantesca ruota di chissà quale macchinario, e dall’altra, un tunnel o l’interno di una lavatrice, visto dove siamo, contornata da una serie di materiali tra il vegetale e l’industriale di varia natura. Di fronte a quest’opera i tubi da condizionamento di Holly Hendry Deep soil Thrombosis diventano come arterie da cui fuoriescono scorie. Tutte opere di grandissime dimensioni che altrove sarebbero di difficile collocazione. Quella del cossovaro Halilay prende metà della quarta Halle tra l’esplosione di elementi che riportano alla guerra, la messa in scena che si rifà alle tradizioni riprese nel video, scale, tende, esseri volanti. Alla fine non poteva mancare una Aerostati Experience di Taus Makhacheva, Russia, che vuol ricordare il primo volo da Lione nel 1784.
Interessante anche all’Istituto d’arte contemporanea la nuova edizione della Jeune creation internationale la scelta fatta dai commissari della 15. Biennale che sono stati invitati a proporre 5 giovani artisti internazionali.
Giulia Cenci crea installazioni complesse come foreste intricate in cui da strutture verticali pendono strani esseri fatti usando resine e siliconi e minerali che danno un senso di viscosità perturbante. Ma anche Zsofia Keresztes crea esseri non meglio identificati ricoperti di mosaico ma con colori cangianti e forme che ricordano corpi in posizioni ginniche, braccia, organi umani. In bilico sempre tra naturale e innaturale organico e inorganico Theo Massoulier è interessato all’entropia e all’antropocene e propone sia dei piccoli arbusti che una tavola da esperimenti genetici. Cedric Esturillo parte dalla scultura classica del legno per arrivare però ancora a risultati ibridi aggiungendo pittura, tubi fluorescenti, video, e altri materiali. Abbiamo poi Sebastian Jefford che gioca con forme, appese alle pareti, incomprensibili proprio perché non riconducibili a niente di conosciuto. A terra grossi chiavi che forse saranno quelle di lettura dell’opera? Anche negli spazi di Randolpho Lamonier, artista brasiliano di Belo Horizonte, ci si muove incerti anche se qui la forte presenza di elementi protestatari ci riportano ai problemi reali del suo paese e non solo. Con neon video fotografie ci porta in quelle zone che vengono definite come marginali: manifestazioni anticapitaliste, bondage, drag queens.
È invece un po’ un mondo di sogno quello che allestisce Charlotte Denamur con tessuti colorati sui toni del blu sospesi alle pareti come onde che fluttuano nel cielo creando una atmosfera celestiale. Ma è solo un momento. Con Naomi Maury ripiombiamo in una selva di aste che partono da 160 piedi in ceramica, papier maché, neon flessibili, metallo e altri materiali. Qui la luce è di un arancione fluorescente anomalo.
Anche gli enormi spazi del MAC Museo di Arte Contemporanea vengono adibiti a delle mega personali. Tutto il secondo e tutto il terzo piano sono dedicati alla coppia di artisti Daniel Dewar e Gregory Giequel. I loro lavori in legno di quercia, chiaro, levigato, perfetto, sia appesi alle pareti come bassorilievi che nella versione armadio in mezzo al piano, riportano una serie di organi umani. Addominali, muscoli, mani, dita, piedi, ombelichi. Sulle ante dell’armadio per esempio troneggiano grossi intestini. E poi animali vari che sbucano qua e là a ribadire il concetto che siamo mammiferi insieme ad altri mammiferi contro l’idea di una specie principale.
Arricchiscono l’offerta della Biennale le cosiddette Esposizioni associate in alcuni luoghi canonici della città e dintorni. Nell’atrio della Banca CIC l’opera di David Posth-Kohler si riaggancia ai lavori di cui sopra con tre giganteschi monumenti fatti di mani, maschere antiche, richiami ai monumenti ai caduti come a stele di culti primordiali. Alla Fondazione Ballukian Andrea Mastrovito ripensa il parquet del pavimento facendolo diventare un’opera rinascimentale di legno intagliato con rappresentazioni che fanno parte dei suoi sogni contorti presenti anche in un video.
Info:
Fermando Palma Rodriguez
Jean Marie Appriou
Leonard Martin
Minouk Lim
Nico Vascellari
Sebastian Jefford
Emanuele Magri insegna Storia dell’Arte a Milano. Dal 2007 scrive dall’estero per Juliet art Magazine. Dagli anni settanta si occupa di scrittura e arti visive. Ha creato mondi tassonomicamente definiti, nei quali sperimenta l’autoreferenzialità del linguaggio, come “La Setta delle S’arte” nella quale i vestiti rituali sono fatti partendo da parole con più significati, il “Trattato di artologia genetica” in cui si configura una serie di piante ottenute da innesti di organi umani, di occhi, mani, bocche, ecc, e il progetto “Fandonia” una città in cui tutto è doppio e ibrido.
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