A Forlì, dal 4 al 13 settembre (con una coda a fine ottobre), torna Ibrida – Festival delle Arti Intermediali, la cui quinta edizione, inizialmente programmata lo scorso aprile, è stata posticipata a causa dell’emergenza Covid. Ibrida prenderà vita all’Arena San Domenico negli spazi antistanti i Musei e prevede in parallelo varie modalità di fruizione online. L’organizzazione è come di consueto affidata a Vertov Project (duo curatoriale composto da Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, ideatori della manifestazione) con il contributo critico di Piero Deggiovanni, docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. L’obiettivo del Festival è fare il punto sulle ultime tendenze della ricerca italiana e internazionale nell’ambito dell’audiovisivo sperimentale, della performance art e della musica elettronica ed esplorare nuovi possibili ambiti di ibridazione tra le varie discipline anche attraverso collaborazioni e incontri pensati ad hoc.
Per avere qualche anticipazione sul festival e per inquadrare meglio il suo contesto di riferimento abbiamo rivolto qualche domanda a Francesca Leoni e Davide Mastrangelo.
L’attuale situazione sanitaria vi ha indotti a trasferire parte del Festival online: gli incontri verranno trasmessi in streaming sui vostri canali social, le sezioni di videoarte rimarranno fruibili in una piattaforma collegata al sito di Ibrida Festival (solo ed esclusivamente durante i giorni della rassegna) e anche i tre eventi dal vivo realizzati negli spazi dell’Arena San Domenico di Forlì potranno essere visti in rete a fronte del pagamento di un biglietto. Come avete affrontato la sfida di questa rapida riprogrammazione e quali riflessioni ha suscitato in voi?
Abbiamo affrontato momenti difficili, come tutti, tra dubbi e incertezze. Era complicato per noi prevedere ad aprile cosa sarebbe successo a settembre, quando le cose cambiavano di giorno in giorno. A dire la verità, nonostante si respiri un’aria di presunta normalità, nessuno è ancora in grado di dire con certezza cosa succederà in futuro, per questo abbiamo deciso di concentrarci sul presente. Nonostante tutto abbiamo deciso di andare avanti e realizzare un evento “Ibrido” a tutti gli effetti, per dare un segnale chiaro alle persone che ci seguono e ai nostri artisti, i quali hanno vissuto e vivono tuttora momenti drammatici. La formula ibrida, tra live e streaming, era la più idonea alla situazione e alla nostra identità, ci siamo messi al lavoro per farla diventare realtà nel minor tempo possibile. La creazione di una piattaforma ad hoc (IBRIDA LIVE) così come l’adattarsi ad un nuovo spazio (Arena San Domenico) ha richiesto nuovi e ulteriori costi. Il lato positivo di tutto ciò è che le persone che ci seguono dall’estero potranno finalmente partecipare al Festival anche a distanza: una possibilità che porteremo avanti anche nei prossimi anni. Non sappiamo cosa riserva il futuro, di sicuro tutto questo ci ha fatto capire che sarà sempre più importante sapersi adattare, in maniera fluida e in tempi rapidi, sfruttando le nuove tecnologie a nostro vantaggio, permettendoci di raggiungere un pubblico sempre più ampio. D’antro canto mai come ora sentiamo la necessità di creare un luogo fisico di scambio, attraverso incontri ed eventi live. Abbiamo costruito il nostro Festival su una dimensione di condivisione: un luogo dove artisti, pubblico, curatori, ricercatori e appassionati possano incontrarsi per scambiarsi idee e progetti futuri.
A livello europeo stiamo assistendo a una crescita dei Festival dedicati alla videoarte e dintorni, mentre in Italia ci sono ancora pochissime occasioni di questo tipo. I Festival servono non solo a presentare opere e artisti, ma anche ad attirare e far crescere una comunità di appassionati che trova nutrimento nello scambio di riflessioni ed esperienze. Come si riesce a conciliare la volontà di divulgare una forma d’arte ancora considerata “underground” e “di nicchia” al di fuori del suo abituale pubblico e la capacità di coinvolgere anche gli esperti?
Il Festival per noi non è mai stato una semplice vetrina, piuttosto un luogo di scambio, di innovazione, di ricerca e di condivisione. Le giornate di spettacolo sono solo l’atto finale di un percorso molto più ampio, che vede workshop, incontri, confronti e addirittura live realizzati ad hoc. In Italia i Festival sono realtà importantissime per il futuro della ricerca: bisogna ripensare il presente, non solamente il futuro. Cerchiamo di stimolare la curiosità di un pubblico variegato attraverso incontri, presentazioni di libri, workshop o incursioni in altre realtà simili. In questi cinque anni abbiamo notato una maggiore curiosità verso la nostra piccola realtà, forse dovuta anche alla comunicazione che abbiamo adottato negli anni. Siamo sempre stati inclusivi e mai esclusivi: probabilmente è stata questa la nostra forza. Il nostro pubblico è cresciuto in poco tempo ed è composto non solo da persone del settore, ma soprattutto da persone curiose di ogni età, oltre a studenti d’arte, artisti di ogni genere, videomaker e appassionati di tecnologia. Crediamo che l’educazione ai nuovi linguaggi sia fondamentale per creare un pubblico e un pensiero critico differente, per questo abbiamo deciso di non barricarci mai, ma al contrario di aprirci sempre ibridando, per natura e attitudine, più discipline tra loro.
L’avvento del digitale ha avvicinato al mondo dell’audiovisivo, inteso in tutte le sue forme, artisti provenienti dai più disparati ambiti disciplinari. Le opere nascono dall’integrazione di spunti eterogenei che possono provenire dal cinema, all’animazione digitale, dalla performance, dalla musica elettronica, senza alcuna gerarchia di importanza. Quali sono i tratti distintivi di questo nuovo linguaggio ibrido e cosa lo differenzia dalla videoarte già storicizzata?
La videoarte appartiene al mondo dell’arte contemporanea e non di certo al cinema. Con questo non stiamo dicendo che le due discipline artistiche non possano incontrarsi e ibridarsi tra di loro, anzi noi siamo in primis promotori di questi linguaggi, ma il più delle volte l’ambito di appartenenza dell’opera è chiaro: o si tratta di cinema (sperimentale e non) o di videoarte. E lo capiamo in maniera univoca a partire dalla produzione e distribuzione dell’opera. Nessun distributore cinematografico proietterebbe in cartellone un film d’arte di Matthew Barney, ma questo non vuol dire certo che Barney non possa realizzare un film di fiction, come è successo al videoartista Steve McQueen: avrebbe soltanto un iter concettuale, produttivo e distributivo differente. La confusione, in Italia, nasce anche da alcuni giovani Festival cinematografici che propongono sezioni di videoarte senza alcuna ricerca scientifica, unendole indiscriminatamente a quelle di cinema. L’intenzione in sé non è sbagliata, ma il contesto sì. Per noi, invece, sono sempre stati chiari l’ambito in cui operavamo e la distinzione tra cinema e videoarte: frutto di confronto, di studio e dalla collaborazione attiva di critici e studiosi. L’ibridazione dei linguaggi, in un certo senso, c’è sempre stata in campo artistico, ma il suo picco è avvenuto dopo la digitalizzazione dei segnali analogici. Crediamo che un altro elemento fondamentale sia stata l’unione di più discipline al suo interno e che proprio i Festival come il nostro siano diventati negli ultimi anni canali distributivi privilegiati e fondamentali. Mentre la videoarte storicizzata appartiene a musei, gallerie e istituzioni, la produzione del presente appartiene soprattutto a Festival e rassegne, perché guardano oltre i grandi nomi e vanno alla ricerca di nuovi artisti.
La videoarte negli ultimi anni si è trasformata a partire dall’evoluzione delle tecnologie del digitale, che hanno messo a disposizione strumenti sempre più performanti per generare e modificare le immagini, ma anche a mio avviso, a causa della sempre maggiore integrazione (almeno nei contesti più ufficiali e con maggiore disponibilità di budget) tra sofisticazioni digitali e installazioni abitabili, sto pensando ad esempio ai lavori di Ed Atkins o Jon Rafman. E di solito la presenza della componente installativa determina l’afferenza dell’opera a rassegne dedicate alle arti visive piuttosto che a festival di videoarte. Cosa pensate a questo proposito?
Ovviamente l’installazione è più dispendiosa e complicata rispetto a una proiezione monocanale, ma Ibrida Festival ha sempre inserito al suo interno almeno un paio di installazioni audiovisive, di realtà aumentata o di Virtual Reality. Quest’anno, causa Covid-19 e misure ministeriali, abbiamo dovuto rinunciare ad almeno un paio di installazioni, che speriamo di recuperare in futuro. Nonostante ciò, in questa quinta edizione siamo riusciti a riprogrammare in anteprima all’Arena San Domenico dei prestigiosi Musei San Domenico di Forlì, una videoinstallazione multicanale di Francesca Fini, Vanitas Vanitatum, che andrà in loop tutte le serate del Festival. Restiamo sempre attivi e alla ricerca delle ultime tendenze e tecnologie digitali. In futuro, quando avremo la possibilità di avere più risorse, l’obiettivo è implementare ancora di più quella sezione del Festival. D’altronde Ibrida, essendo un Festival di Arti Intermediali, non si è mai fossilizzato sulla proiezione monocanale, ma ha sempre rivolto lo sguardo a tutte le arti.
Quali sono le caratteristiche che meglio identificano Ibrida – Festival delle Arti Intermediali rispetto ad altre manifestazioni simili? Come si sono precisati o evoluti i vostri obiettivi nel corso di questi cinque anni?
Quando siamo partiti, nel 2015, abbiamo realizzato una sorta di happening coinvolgendo direttamente una serie di artisti visivi, senza nessuna convinzione o pretesa particolare. Nel 2016, dopo l’esperimento andato a buon fine, è nato ufficialmente Ibrida Festival delle Arti Intermediali, con una visione chiara sin da subito: l’ibridazione dei linguaggi audiovisivi. Negli anni non siamo stati noi a imporre un’identità al Festival, ma ci è stata riconosciuta anno dopo anno, in primis dagli addetti ai lavori, poi dalle istituzioni e dal pubblico. Come ben sappiamo, l’identità è un dono sociale e non un’imposizione personale: negli occhi di chi ci guarda abbiamo ritrovato il nostro riconoscimento identitario. Negli anni ci siamo aperti, con sguardo critico, a nuove possibilità di linguaggio, sempre però legate all’audiovisivo contemporaneo. Unica regola a Ibrida Festival: non fermarsi mai alla superficie, andare a fondo nelle questioni in modo chiaro e senza troppi voli pindarici.
I linguaggi e i codici espressivi delle opere sono in rapida metamorfosi perché rispecchiano e anticipano i sotterranei cambiamenti della nostra cultura. Quali nuovi generi stanno emergendo secondo voi nel campo della videoarte?
La videoarte e la video installazione come linguaggio godono di ottima salute sotto tutti i punti di vista. Sia quella accolta dalle grandi istituzioni, sia quella emergente. Bisognerebbe semplicemente investire di più su ricerca, produzione e promozione. Tra i generi che emergono dai nostri screening, sicuramente la Post Internet Art è tra i più innovativi. E quando usiamo il termine Post Internet Art ci riagganciamo all’espressione coniata dall’artista tedesca, che vive e lavora a New York, Marisa Olson: con essa intendeva indicare le opere d’arte che produceva dopo aver navigato per ore su internet. Al suo interno abbiamo artisti del calibro di Jon Rafman e Ryan Trecartin, che hanno riportato nella realtà i contenuti virtuali espressi e conservati in internet, estrapolandoli principalmente dai social network nella forma del self broadcasting (Youtube) e conservandoli nei blog e in altri social come Flickr e Instagram. Quest’anno abbiamo in selezione video di artiste internazionali come Signe Pierce e Marina Fini. Mentre per il live avremo una performance, venerdì 11 settembre, visibile solo in streaming, perché realizzata ad hoc, di Mara Oscar Cassiani, dal titolo AIRMAX, Aria al massimo – webcam versione 2K20. Oltre alla Post Internet Art, abbiamo notato che c’è sempre maggiore autonomia della videoarte, nei Festival internazionali. Per quanto riguarda gli artisti, anche se ognuno di loro adotta una poetica differente ci sono similitudini di linguaggio a seconda della provenienza geografica. Ad esempio gli anglosassoni sono più analitici, lavorano molto sulla manipolazione dei codici, mentre gli italiani tendono forse per natura ad essere più narrativi. Un occhio di riguardo lo rivolgiamo agli artisti del nostro Paese che, negli ultimi anni, hanno dimostrato continuità di forma e contenuti, conquistando un proprio spazio soprattutto fuori dai confini nazionali, in Festival e rassegne importanti.
Info:
Francesca Leoni e Davide Mastrangelo fondatori e direttori di Ibrida Festival. Courtesy Leoni & Mastrangelo, photo by Consuelo Canducci
AMERICAN REFLEXXX, SIgne Pierce, 2013 (USA)
Fran Orallo, Death dance, 2018 (UK)
Sofia Braga, I stalk myself more than I should, 2019 (ITA)
Mara Oscar Cassiani, Justice, 2019 (ITA)
Devis Venturelli, Monumento, 2010 (ITA)
Shir Handelsman, Recitative, 2019 (IL)
Marina Fini, Tree Temple, 2014 (USA)
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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