Nel 1943 John Cage nel brano intitolato “A Room” componeva un’ambientazione sonora minimalista scandita da pulsazioni metalliche governate da un complesso sistema ritmico che orchestrava il suono emesso da un pianoforte modificato con bulloni di diversa lunghezza, monete e altri materiali soffici, come gomma o stoffa, la cui precisa collocazione tra le corde del pianoforte era dettagliata nello spartito musicale, al pari della nota corrispondente a ciascun elemento. Le sperimentazioni del celebre compositore statunitense da un lato si proponevano come provocazione nei confronti dell’inviolabilità degli strumenti classici e dall’altro aprivano al caso e all’anarchia timbrica composizioni strutturate da proporzioni matematiche ferree. L’apporto di Cage ha rivoluzionato la musica contemporanea con l’eliminazione dell’aspetto soggettivo dal processo compositivo e con la conseguente ridiscussione in senso anti-umanistico dei fondamenti della percezione. La sua era una concezione amplificata e multimediale dell’idea di musica, orientata verso l’irruzione dell’atto creativo nel flusso della vita. Il concetto di sconfinamento del suono in ambiti solitamente connessi ad altre sfere sensoriali e la tensione tra una rigorosa codificazione di procedure improprie e l’incontrollabilità degli esiti poetici che ne derivano sono le colonne portanti anche dell’opera di Jacopo Mazzonelli, giovane artista veronese che non a caso omaggia Cage nel titolo della sua ultima personale, attualmente in corso a Studio G7.
La costante della sua ricerca, di cui questo progetto rappresenta una tappa significativa per la maturità dei riferimenti messi in campo e per la sua capacità di orchestrarli, è la rielaborazione della dimensione sonora intesa come entità integrata, da lui costruita, manipolata e auscultata per esplorare in quali possibili componenti fisiche, mentali e spazio temporali si possa espandere e scorporare il concetto di suono. Al pari del mentore ideale della mostra, anche Mazzonelli fonda il suo processo creativo su un minuzioso lavoro manuale applicato a oggetti di recupero (già dotati in partenza di un’intrinseca connotazione musicale, oppure anche inizialmente privi di una conclamata afferenza a questa sfera), che vengono scomposti e rimontati per scandagliare e restituire in modo tangibile le implicazioni, paradigmaticamente immateriali, della musica. L’artista, applicando una logica stringente ravvivata da un’ironia che non scade mai nel calembour fine a sé stesso, instaura con gli oggetti della sua indagine un rapporto che si potrebbe definire ossimorico. Se da un lato essi vengono trasformati dalle sue azioni negli elementi costitutivi di un linguaggio concettuale, dall’altro mantengono intatta la loro essenza nonostante l’instaurarsi di nuove relazioni semantiche e poetiche, che anzi contribuiscono a focalizzare e rafforzare la loro identità. Le sue opere (sculture, installazioni o performance) sono concepite come meccanismi a orologeria in cui il significato deflagra al momento giusto, indipendentemente dal fatto che si tratti di congegni realmente funzionanti o che il movimento sia il processo mentale di chi, guardando, innesca lo spostamento di senso. A differenza di Cage, che rifiutava con decisione l’intenzionalità espressiva, Mazzonelli instilla nel minimalismo estetico dei suoi lavori delicate sensibilità esistenziali, che trapelano come in sordina per dispiegarsi gradualmente nella contemplazione e nel ricordo.
Emblematica di quest’ultimo aspetto è l’installazione ambientale intitolata “Finis”, dove una serie di rulli per pianola meccanica, privi del rotolo di carta perforata che guidava l’esecuzione automatica del brano musicale, appaiono infitti in una parete della galleria come se fossero i pioli di una scala, che a ogni passo ribadisce l’interruzione evocata dalla stampigliatura della parola latina su ciascuno di essi. Qui l’inevitabile rimando al brano di Cage 4′33”, strutturato in tre movimenti silenziosi per qualunque strumento musicale o ensemble, trapassa in un’idea metafisica di scala infinita (altro archetipo fondamentale, questa volta delle arti plastiche) per poi dilatarsi come suggestione poetica in uno spazio mentale che funziona da cassa di risonanza della forma. Dall’infinita ripetizione della fine si passa all’interminabile prolungamento di una durata inizialmente finita e misurabile in “Le degré zéro”, dove tra due piastre rivestite in acciaio specchiante (i cui spessori dorati ricordano le pagine di un libro) viene teso, grazie a potenti magneti interni, un nastro inchiostrato per macchina da scrivere. Il riflesso dell’iconica striscia bicolore nei due elementi laterali diventa una fuga vertiginosa verso l’infinito, che richiama sia l’idea di pentagramma come linea orizzontale che corre nel tempo e sia la traiettoria di un suono azzerato da un’esecuzione impossibile.
L’assenza di punti di riferimento diventa poi canone in “Antipiano”, preziosa scultura in avorio derivata dalla decostruzione di una tastiera per pianoforte, una porzione della quale è ricomposta in modo tattilmente disorientante annullando il consueto rapporto tra tasti bianchi e neri. Il paradosso è l’anima anche di “Diapason”, oggetto che ingrandisce su scala ambientale lo strumento utilizzato per restituire con precisione il la musicale, qui presentato ingigantito in una tonalità color pastello che mistifica la durezza della pietra acrilica con cui è realizzato suggerendo un’innaturale morbidezza, allusiva più all’assorbimento del suono che alla sua diffusione. Ritorna invece il registro minimale in “Noiseless”, tavola sotto vetro in cui due pagine giustapposte di un album vittoriano per fotografie sono sottilmente alterate da un taglio laser con cui viene isolata al centro una forma circolare, che lo sfasamento della struttura porta a leggere come disco in movimento. L’opera, sintomatica della fascinazione dell’artista per le deformazioni della memoria, enfatizza il carattere architettonico della struttura compositiva attraverso l’assimilazione degli alloggi per le fotografie ormai vuoti alle balaustre dei palchetti teatrali.
Il dialogo tra i lavori in mostra, raffinatamente intessuto di rimandi concettuali, formali e processuali, dimostra come la ricerca di Mazzonelli, pur essendo virtuosisticamente circoscritta a un ambito tematico così settoriale, sia in grado di elaborare suggestioni ad ampio respiro e di raccordarle tra loro con un approccio di stampo architettonico, arrivando a un’organica presa di possesso dello spazio espositivo. E proprio questa nuova attitudine progettuale che aspira alla reciproca integrazione dei lavori all’interno di una visione unitaria della mostra intesa nel suo insieme come ambiente significante è l’aspetto più interessante della recente evoluzione creativa dell’artista.
Info:
Jacopo Mazzonelli. A Room
10/10/2023 – 06/01/2024
Studio G7
Via Val D’Aposa 4A Bologna
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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