Quella di Dora Garcìa è una ricerca nel suo più vasto ideale connotativo, innescata per la conoscenza dei processi determinanti che si intrecciano nella visione della realtà antropologica. Una ricerca attiva, uno studio volitivo, denso di una programmazione coordinata ed al contempo aleatoria, che si addentra nello scandaglio delle relazioni continue tra individuo fisico e lo spazio a sé circoscritto, determinato da forme strutturali della società quali l’istituzione, la politica, l’educazione, il ruolo, il linguaggio, la condivisione. Scavando la realtà dell’ essere umano nelle varie applicazioni, l’uomo ‘adattato’, forse non più cosciente, consapevole, della realtà, lo vuole ricondurre alla re-esperienza di un sentimento denominatore di appartenenza di co-abitazione e di co-esperire.
Quella di Dora è un’intenzione, come già rimarcato, relative ad un bisogno di comprensione e risoluzione, per sempre dispiegata alla variabile della natura dell’individuo, che per dunque converge in un infinito percorso sperimentale e forse mai possibilmente appagabile.
L’artista spagnola, ramifica la propria operazione facendo utilizzo di numerosi mezzi e forme espressive, dal video, alla scrittura, alle installazioni ed in particolare modo alla performance, le quali erige a traduttori di tonalità concettuali, per concernere nell’apertura ad un idealismo oggettivo, per il superamento di un solipsismo mentale e corporale, finalizzato alla riappropriazione di una condizione comune . Influenzata dalla stesse metodologie, funzioni e forme ideali si trova affine a lavori di artisti concettuali come Dan Graham, od al pensiero esistenzialistico di indagine di Antonin Artuad legato alle narrative del lato più profondo dell’essere ‘marginale’, implica le stesse necessità analitiche alla dimensione propria del suo lavoro artistico.
Legata ad una funzionalità di interazione, di reversibilità, di esistenza e di possibilità, la sua azione è viva, richiedente di partecipazione attiva, di una messa in gioco, ri-creare un ambiente, un tessuto di relazione organico, privo di sensi di giudizio, inibizioni dettate da pre-stabilizzazioni culturali, invitando tramite una sorta di rituale ad una ‘ri-generazione’ come effetto di comprensione sensoriale.
Instaura dialoghi aperti, vissuti dove i temi presi in analisi alleggiano in molteplici argomentazioni utilizzando il medium dell’arte per aprirne quesiti relativi ad essa o come strumento veicolatore; le metodologie dei meccanismi in relazione, nella sua funzione pubblica, coordinatrice, educatrice e lo fa tramite l’ausilio del mezzo dell’individuo, conducendo a nuove narrative, a nuovi interrogativi per visualizzare le varie prospettive che la sua realtà incarna. I suoi limiti, le sue soglie, i suoi spiragli.
Se i suoi ambienti, le sue performance, diventano dimensione di dischiusone verso l’atto dell’esperire e del pensare, il ragionamento diviene comunione, l’interazione, l’emblema di salvezza.
Istituisce, al contempo, gli stessi luoghi di mediazione nei quali investigare la concatenazione di reazioni reciproche di influenza fra artista, opera, fruitore e spazio.
Questo elemento per lo più viene a mostrarsi nei lavori di Dora, come nella performance ‘L’ inadeguato’, presentata al Padiglione della Spagna durante la 54. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, ove l’opera diviene spettacolo, dunque un interrogazione anche fra la soglia della finzione e della rappresentazione, dove arredi scenici sono oggetti con fine narrativo e la forma che rispecchia una sensazione di precarietà, instabilità, transizione, la quale stessa diviene emblema del rifiuto della mostra statica espositiva e della figura dell’artista come monolite. Il Padiglione diviene quindi opera teatrale che porta il gioco dei ‘ruoli pubblici-di connessione-ed incidenti’ del quotidiano, elevando a soggetto di argomentazione temi sociali e politici come, nel caso, il senso di inadeguatezza, come soglia di disagio e non appartenenza, nelle sue sotto-forme e misure.
L’arte, dunque, come beneficio della società poiché implicata come pretesto benigno giostrato dalla tangente di concordanza, fusione, collegamento per l’affronto di argomenti correlati al sé, al sé di una moltitudine ed al sé di una struttura, dalle considerazione socio-politiche, storico culturali, nonché di carattere filosofico e letterario.
Rilevante è la documentazione e la letteratura nel lavoro di Garcìa, che le propongono motivi di ri-elaborazione, con uno sguardo retro-attivo, il quale come sussurro, confluisce alla gnòsis e per questo profondamente legata alla funzione del linguaggio, come strumento che determina, che raccoglie ed include, come traduttore e creatore,come medicina o simbologia, o come creazione di un irreale, traduzione di un’interiorità o emblema di una ‘società’.
Questo è quello che per lo più era nell’intento dell’opera-video ‘The Joycean Society’(2012-2013), dove la produzione e la condivisione di conoscenza, ottenuta tramite la devozione alla gnoseologia di un gruppo di lettori abituali che da oltre trent’anni rilesse lo stesso libro (Finnegans Wake di James Joyce), il cui l’ intento finalizzate era la costante ri-lettura, decostruente e proponendo contemporaneamente una riflessione, sull’atto stesso, sulla ripetizione, su una nuova rilettura significante delle parole e del libro stesso.
Dora Garcìa, Ulysses
Dora Garcìa, Golden sentence (Il y a un trou dans le réel), 2005-2014
Dora Garcìa, The inadequate, Spanish Pavillon, Venice Biennale, 2011
L’attività della lettura in condivisione, l’interscambiabilità fisica di idee, pensieri, senza reticenza o disagio, determinati dalla dimensione artistica, che permette perché dimensione parallela, giustificata. Tutto è accettato, tutto è connaturato, nulla è estraneo. Gli stessi personaggi da lei identificati e pre-scelti rispecchiano tipologie di personalità di ‘escluso’, marginale, non-canonico individuo, per una brama di riconciliazione biologica, per un senso di familiarità e similarità ad un’idea di studio di una sotto-cultura, tema molto sentito dall’artista.
Abbiamo colto l’occasione, dunque, di porre alcune domande all’artista Dora Garcìa.
L’impiego del linguaggio nei tuoi lavori, impersonifica una sorta di medium riconciliatore, in funzione di portare lo spettatore ed il fruitore a ri-vivere, tramite un reminiscenza, una condizione umana, un ritorno all’originale sentimento di comunione, ad una riconciliazione ed un’ auto-coscienza. Come vive lo spettatore questa sua richiesta di partecipazione?
Certo, esiste senza alcun dubbio il desiderio di formare comunità, intenzionali comunità di transizione, grazie alle quali, durante la percezione del lavoro viene a crearsi un ‘senso di ‘appartenenza’ fra gli spettatori. Credo sia comune a tutti i lavori artistici: coloro che leggono Joyce, coloro che apprezzano Félix González Torres, colore che si dedicano alla visione di ‘Breaking bad’- esiste sempre questo sentimento di ’sotto-cultura’ che apprezzo molto- ed attraverso il mio lavoro, sono certamente e costantemente alla ricerca di coloro che condividono una’ certa’ sensibilità con me, sono alla ricerca di affinità; Ed il linguaggio è uno degli strumenti, come se fosse lo strumento ideale per l’identificazione di una sotto-cultura- noi condividiamo un linguaggio, pertanto apparteniamo assieme ad una realtà. Non intendo parlare per chiunque, o di essere compresa o apprezzata da ognuno- penso sia impossibile e non lo trovo neanche interessante- così intendo cerco di ‘identificare’ o meglio ‘creare’ il mio pubblico tramite il mio lavoro.
Il tuo intento personale ed universale di ottenere tramite questa tua ricerca antropologica nei tuoi lavori, suscita quasi una sorta di necessità di soffermarsi un secondo, suggerito anche dalla lunghezza del tempo impiegato dalla realizzazione. La performance nel tuo lavoro non assume la valenza di happening qui ed ora e finito, ma di co-presenza-esperienza-vissuta. Che ruolo ha la fisica concretezza di un individuo nei tuoi lavori? Dunque l’arte riesce ancora ad avere un’importante influenza sulla sfera sociale?
Questo è assolutamente giusto. L’idea non è quella di ‘venire e guardare a questo’, ma di ‘venire ed aggregarsi’. Come Kaprow, credo nella ‘sparizione’ del pubblico; credo siamo tutti parte dell’esperienza, e coloro che vengono per partecipare sono stessi protagonisti di coloro che, al contempo, gli stanno aspettando. Ho sempre pensato ad un ‘essere con qualcuno’, condividere lo spazio con loro, non richiedendo molto in cambio, in una fonte di guarigione e fiducia, un compenso di fiducia.
La comunità e la comunione sono parole della stessa origine, condividere è creare comunità, anche se condividi semplicemente il tempo. Scaccia inoltre tutti i ‘consumismi’ che sono inevitabilmente associati alla percezione di un’opera d’arte. Non puoi consumare ciò a cui appartieni, qualcosa che te stesso sta producendo e determinando.
In questo modo, si, il mio pensiero si è sviluppato negli ultimi dieci anno ed ora sono profondamente convinta che l’arte può influenzare la sfera sociale – è un rifugio, un posto di libertà, dove i pensieri possono essere elaborati senza paura.
Nei temi che affronti emerge una sorta di bisogno di ritrovare un bisogno di ‘conoscenza-sensibile’, tramite uno sguardo di analisi verso passati avvenimenti sociali e culturali; ciò è reso possibile da una visione ‘esterna’, oggettiva, di osservatore, di ricercatore. Nella tua prospettiva l’artista ha una funzione ‘documentaristica’, svelatrice, e come nel dato caso, di ricercare quasi una legame con dei ‘casi’ specifici di una struttura della società, quasi far intendere le loro condizioni come, in realtà, denominatori comuni connaturati alla nostra condizioni di individui, inseriti in una società?
Vedo i miei lavori come artista ancora di più che una forma di studio, o ricerca. Primariamente, studio. Voglio capire. Tutto il resto è secondario: la presentazione, l’esposizione, la reazione del pubblico, la carriera (questo avviene davvero all’ultimo!). Coltivo un’attività – quella d’artista contemporaneo – perché mi permette di studiare e capire, senza chiedere immediati risultati, senza essere controllata. In questo studio mi concentro sui casi che in primo luogo mi interessano, perché sono ‘buone’ storie, trame fantastiche, loro ne farebbero eccezionali romanzi, eccezionali personaggi di finzione, ma sono reali: Basaglia, Artaud, Jack Smith, Heiddeger, Masotta, tutti quei ‘uomini che amo’ ( si, per alcune ragioni, sono sempre uomini – ma li vedo come personaggi fargli, sempre, deboli e necessitanti di bisogno, non li considero mai come figure patriarcali o maschio-alpha) – ed allo stesso tempo sono perfetti personaggi per un romanzo, sono al centro di un appassionante ed eccitante momento della storia, che mi permette di capire, non solo un certo aspetto della natura dell’uomo, ma anche un certo sviluppo di eventi che ci colpisce oggi.
Il limite fra finzione e reale è definibile solo contestualizzando il caso. Dove fai incontrare la finzione e il reale? O l’azione inversa?
Credo esista solo finzione, è l’unica parte la quale posso controllare o sulla quale lavorare. La realtà è qualcosa che interrompe la finzione senza essere invitata, con sorpresa, e senza violenza.
Il concetto di ‘definire’ è totalitario, ma nel lavoro dell’artista la coscienza del concetto di spazialità, di limite e di punto d’incontro, diventano punti principali, che necessitano una maturo livello di definizione. Qual’è il massimo punto di incontro fra l’opera/ l’artista /lo spettatore?
Penso facciamo tutti parte di uno stesso ‘continuum’, non esiste opera d’arte senza artista e senza spettatore, non esiste spettatore senza opera d’arte e artista…esistono tre lati dello stesso evento, evento come un qualcosa che è ‘dischiuso’, qualcosa che è dischiuso come ‘verità’ e sono tutti parte di esso, non necessariamente allo stesso tempo, non necessariamente nello stesso spazio, ma sono parte dello tesso evento.
Implicando spesso nel tuo lavoro l’individuo in che equilibrio sussistono casualità e programmazione?
Vedo i miei lavori come studio, e questo studio produce una situazione che può essere intesa come un esperimento. Voglio vedere quello accade. Così creo le condizioni dell’esperimento, una situazione, creo una situazione e prevedo quello che potrebbe accadere e secondo questa proiezione verso il futuro progetto la situazione- come lo script di un film. Ma una volta dato il via, una volta innescata la situazione, è completamente fuori dal mio controllo, e mi diverto molto a sedermi e guardare quello che succede- più si discosta dal piano originale, più mi diverto.
Vanessa Ignoti (1993) laureata presso le Accademie di Belle Arti di Venezia e in seguito di Milano, rispettivamente in Decorazione e Cinema e Video, ha attraversato un percorso di studi e di interesse dall’editoria alle Nuove Tecnologie. Con esperienza nella gestione ed organizzazione di mostre e progetti d’arte, concentra il proprio interesse sulla comunicazione e la teoria dell’arte.
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