Venti scatti inediti, in bianco e nero, realizzati fra Algeria, Inghilterra, Indonesia, Islanda, Australia, Stati Uniti e Russia, raccolti tra il 1964 e il 1984, indagano le primissime sperimentazioni espressive di Wim Wenders, fotografo e regista di fama internazionale e gigante del cinema tedesco contemporaneo. La mostra e il catalogo, realizzati a cura di Simone Azzoni (Asolo, 1972), critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE di Venezia e presso l’Istituto di Design Palladio di Verona, sono l’occasione per riflettere sulla storia recente, e sull’importanza di ascoltare la voce di luoghi che, seppur geograficamente distanti fra loro, conservano una comune identità nel racconto di Wenders.
Giulia Russo: Quando e come è nata l’urgenza di esporre e raccontare questi due decenni chiave di Ernst Wilhelm Wenders nella mostra “Early Works: 1964-1984”?
Simone Azzoni: Dirigo – assieme a Francesca Marra – da sette anni il Festival Grenze Arsenali Fotografici e ogni anno è un’urgenza della manifestazione trovare lo scalino giusto per crescere in sottigliezza e puntualità estetica. Il progetto di Wenders risponde a questo bisogno: attraversare con crudeltà il mistero delle esistenze: ricchezza, miseria, disperazioni, luci non previste.
Per questa settima edizione di Grenze Arsenali Fotografici – Festival Internazionale di Fotografia ha quindi lavorato in continuità con i precedenti appuntamenti? E perché rispolverare proprio questi due decenni giovanili di Wenders, data la vastità dell’opera del fotografo, attore, sceneggiatore e regista?
Ogni anno cerchiamo un nome che parli al grande pubblico. Ancora non era uscito nelle sale italiane Perfect Days ma Wenders era già nei miei desideri. Mi interessava aggiungere un tassello al suo vasto mosaico creativo per dare la possibilità a chi conosce i suoi film di entrare nel suo modus operandi. Questi scatti non hanno il destino museale dei grandi formati a colori che molti conoscono, ma sono un diario intimo propedeutico alla costruzione del set.
Mi ha colpito molto una dichiarazione rilasciata dall’autore nell’intervista riportata nel catalogo. Cito testualmente: «Qualsiasi quadro, fotografia o immagine cinematografica inizia con lo stesso elemento di base: una cornice vuota. Questa cornice vuole essere riempita e chiede di essere definita: cosa c’è dentro e cosa resterà per sempre fuori?». Le giro la domanda: cosa c’è dentro Early Works: 1964-1984?
C’è l’attesa dell’imponderabile, il mistero di una incongruenza, il silenzio in ciò che può accadere. La sospensione narrativa di una svolta.
Mi sembra che il filo rosso che lega gli scatti presenti in questa mostra sia la presenza-assenza dell’autore con la specifica, e dichiarata, volontà di lasciar parlare i luoghi, in sua vece. Come è stata costruita la selezione delle immagini?
Il filo rosso è la curiosità che attraversa i paesaggi facendone diario e memoria emotiva. È stupirsi dell’incontro con dei potenziali incipit. È affidarsi al nostro innato desiderio di raccontare storie per trovare in ogni cornice condensati tutti gli elementi che ne faranno parte.
In tal senso sembra che la volontà di Wenders sia quella di lasciare in eredità a ciascuno di noi la possibilità di tradurre il suo linguaggio. A proposito del rapporto con lo spettatore, in seguito alle dichiarazioni rilasciate dall’autore durante la vostra lunga conversazione, lei che idea si è fatto dell’opera di Wenders? Prevale la necessità di raccontarsi – attraverso “le cornici” – o di ascoltare?
Assolutamente di ascoltare, di scavare nelle parole, di scolpire i dettagli che costituiscono il linguaggio perché sia perfetto.
In questi paesaggi, spesso desolati, che sembrano inghiottire una piccola umanità, è possibile rintracciare anche dei riferimenti al (suo) cinema recente, penso per esempio all’ingombrante solitudine vissuta dal protagonista di Perfect Days – che citava prima – raccontata anche grazie alle note di Lou Reed e Nina Simone: l’importanza di esplorare nuovamente oggi quella sensazione di sconfinata nostalgia, è un modo per ricollegarsi indirettamente anche ad alcuni fatti di drammatica attualità?
È un modo per uscirne attraverso la bellezza. Un metabolismo meditativo che, sgombero da ciò che appare, sonda l’invisibile del dettaglio, della presenza angelica che eccede alla storia e ai suoi drammi.
Si riferisce a qualche dato storico specifico della nostra epoca?
Mi riferisco alle macerie che lasciamo nelle distruzioni continue degli ambienti e delle persone. Quelle rovine campeggiano negli scatti di Wenders e sono un’eredità da cui ripartire. Sono un punto intermedio tra il già e il non ancora. Ripartire dalle rovine, portandoci dentro il loro peso nel tempo.
Nel corso di questi anni di studio e di ricerca avrà certamente raccolto moltissimi preziosi ricordi che l’hanno condotta a nuovi spunti e a importanti riflessioni verso terre inesplorate. In seguito allo scambio di vedute che ha avuto con Wenders, mi può dire quale sarà la gemma più lucente che custodirà nella sua personale Wunderkammer?
Il suo sguardo rigoroso e severo quando – in attesa dei miei balbettii teorici – attende la parola “giusta”.
Giulia Russo
Info:
Wim Wenders. Early Works: 1964-1984
a cura di Simone Azzoni
14/09 – 15/10/2024
Festival Internazionale di Fotografia di Verona, VII edizione
Grenze Arsenali Fotografici
Spazio Il Meccanico
Via S. Vitale, 2/B, Verona
www.grenzearsenalifotografici.com
Giulia Russo è autrice e assistente editoriale digital per Juliet, con cui collabora dal 2017. Più di recente è stata contributing editor su temi culturali per diverse riviste, con approfondimenti critici, dedicati ad artisti emergenti e alle nuove frontiere della contemporaneità. Laureata in Storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma, si specializza in Visual Cultures e pratiche curatoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera. Di base a Milano, con qualche fugace incursione tiberina, adora ascoltare storie che ogni tanto riscrive.
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