La nascita ufficiale del movimento femminista, che intrecciava temi sulla questione femminile e sull’antischiavismo, la si può far risalire al 1848, anno del Congresso sui diritti delle donne, a Seneca Falls (New York), sebbene già in precedenza, in ambito illuminista, ci siano state delle avvisaglie di dibattito in questo senso. Le prime battaglie furono per l’allargamento del diritto di voto, a cui seguirono la richiesta del diritto all’istruzione e alla parità tra uomini e donne nel codice civile. In questo senso l’epicentro di queste battaglie fu la Gran Bretagna: è qui che nel 1865 nasce il primo comitato per l’estensione del diritto di voto, sebbene per affermare questo diritto poi ci siano voluti decenni. Tanto per capirci la Gran Bretagna concede il suffragio alle sue cittadine solo nel 1918, gli Stati Uniti nel 1920, mentre le donne italiane e francesi dovranno aspettare addirittura fino al secondo dopoguerra.
In tempi di femminismo di ritorno, di #MeeToo, oltre che di consolidamento dei diritti naturali, sociali e di autodeterminazione, è bene segnalare una mostra proposta dal Kunstmuseum Wolfsburg e che, nel raccogliere le testimonianze di decine e decine di artiste provenienti dai quattro angoli del mondo, propone tutta una serie di lavori indubbiamente incentrati su tematiche scomode o di genere o di denuncia o, più semplicemente, coniugate prevalentemente secondo un’ottica femminile.
Si va da nomi che in Occidente sono già conosciuti, come José Galindo e Pipilotti Rist, fino ad autrici inedite o a collettivi, come Nacional TROVOA e Pacific Sisters. Mancano del tutto dei nomi troppo consolidati (e forse non del tutto allineati o troppo legati allo star system) come Barbara Kruger e Jenny Holzer, autrici che comunque, con i loro statements, avevano fatto della denuncia delle strutture e storture socio/linguistiche un loro obiettivo primario.
La frase che è posta in esergo (a mo’ di proclama) di questa iniziativa è della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, ed è tratta dal libro “We Should All Be Feminists” (Dovremmo essere tutti femministi, Einaudi Editore, 2021).
Eccola: “Yes, we want all people to have the same rights and opportunities! Yes, we want to use art to raise awareness and to enable sustainable and effective encounters! Yes, we want to contribute to equality and to encourage and empower people who are marginalized or affected by discrimination. And yes, the world would be a better place if we were all feminists”.
Certo, ne siamo tutti convinti (in Occidente, più o meno, sembriamo esserlo); il punto nodale è un altro: c’è tutta una parte del mondo dove la democrazia non esiste e dove le donne sono, diciamo, con un eufemismo, maltrattate, ma diciamo anche, che sono private del diritto primario di libera scelta. E andiamo pure a fondo, ricordando i non pochi casi delle figlie uccise dai padri o dai fratelli (fattacci accaduti all’interno di famiglie di immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo e accolti da un Occidente permissivo e buonista) perché non volevano accettare il matrimonio combinato o perché volevano agire e comportarsi con una libertà che non è contemplata in quelle culture arcaiche, conservatrici e patriarcali. Ma ricordiamo pure quello che succede in Afghanistan o in Iran, dove le libertà primarie di studio e di vestire secondo un proprio gusto personale sono del tutto negate e chi cerca di opporsi ne paga le conseguenze, anche in maniera definitiva, e cioè letale.
Quindi, questa iniziativa, iscritta sotto il titolo “Empowerment”, è di certo lodevole, perché il Kunstmuseum Wolfsburg, nel mettere insieme cento artiste provenienti da cinquanta paesi, ci offre uno sguardo globale sul pensiero e sulle istanze (coniugate in forma estetica e politica) delle donne di tutto il mondo. Parlare, scrivere, mostrare, evidenziare queste indiscusse disuguaglianze (per non dire evidenti repressioni delle pulsioni individuali) fino alle istanze di relazione con un ambiente migliore e non contaminato è non solo lodevole, ma anche necessario, un atto dovuto da parte dell’Occidente che, anche grazie al pensiero illuminista, in questi ultimi secoli ha fatto dei progressi verso i diritti di ogni individuo, al di là di sesso, razza e religione di appartenenza. Eppure, sappiamo bene, che la lotta non è mai conclusa: non solo in alcune porzioni dell’Occidente ci sono istanze di un ritorno all’indietro (si vedano i numerosi tentativi di porre limiti sull’aborto che vanno contro la libera scelta della donna), ma nel mondo extra-occidentale non solo le donne vengono spesso messe ai margini o guardate con sospetto od oppresse (e finanche uccise), anche altri generi finiscono nel mirino degli oligarchi del pensiero unico: si pensi alle persone omosessuali, trans*, inter e queer. Insomma, una sommatoria di diritti negati, spesso negati con la violenza o con il sopruso.
Questa iniziativa (che ha lo scopo anche di essere didattica o istruttiva o indicatrice di una via da praticare per migliorare la convivenza tra i popoli e i generi) è accompagnata da una pubblicazione realizzata in cooperazione con la Federal Agency for Civic Education; si compone di 500 pagg (con circa 400 illustrazioni), ed è acquistabile al bookshop del museo al prezzo “politico” di solo 7,00 euro: “Empowerment. Kunst un Feminismen”.
Per non fare torto a nessuna singola esperienza, in maniera ecumenica indichiamo tutte le autrici coinvolte in questo progetto: Ebtisam Abdulaziz, Stacey Gillian Abe, Heba Y. Amin, Maja Bajević, Natalie Ball, Yael Bartana, Mehtap Baydu, Alexandra Bircken, Benedikte Bjerre, Monica Bonvicini, Andrea Bowers, Danielle Brathwaite-Shirley, Candice Breitz, Anetta Mona Chişa & Lucia Tkáčová, Christa Joo Hyun D’Angelo, Susana Pilar Delahante Matienzo, Birgit Dieker, Zehra Doğan, Anita Dube, Anna Ehrenstein, Ndidi Emefiele, Nona Faustine, Keltie Ferris, Regina José Galindo, Ellen Gallagher, Goldendean, Gabrielle Goliath, Jenna Gribbon, Shilpa Gupta, Nilbar Güreş, h.arta group, Hyphen-Labs, Irena Jukić Pranjić, Patricia Kaersenhout, Gladys Kalichini, Šejla Kamerić, Mari Katayama, Yuki Kihara, Seo-Kyung Kim & Eun-Sung Kim, Laetitia Ky, Jakob Lena Knebl, LASTESIS, Kitso Lynn Lelliott, Pixy LIAO, Ann Lislegaard, XIAO Lu, Mary Maggic, Senzeni Marasela, Teresa Margolles, Aline Motta, Shana Moulton & Nick Hallett, Zanele Muholi, Kresiah Mukwazhi, Marina Naprushkina, Wura-Natasha Ogunji, Tanja Ostojić, Pushpamala N, Rosana Paulino, Lisa Reihana, Elianna Renner, Tabita Rezaire, Pipilotti Rist, Boryana Rossa, Mariela Scafati, Berni Searle, Selma Selman, Lerato Shadi, Tejal Shah, Melati Suryodarmo, Elena Tejada-Herrera, Mathilde ter Heijne, Pacific Sisters, Bussaraporn Thongchai, LIN Tianmiao, Wu Tsang, Kawita Vatanajyankur, Leafā Wilson & Olga Hedwig Krause, Anna Witt, Larissa Sansour & Søren Lind, Raeda Saadeh, Shevaun Wright, Ming Wong, LEI Yan, CAO Yu, Mia YU sowie die Kollektive AXA projects, Nacional TROVOA, Njabala Foundation, Sandbox Collective, What the hELL she DOin!
Il progetto è stato curato da Andreas Beitin, Katharina Koch, Uta Ruhkamp, con la partecipazione di Regine Epp e Dino Steinhof.
Roberto Vidali
Info:
AA.VV., Empowerment
10/09/2022 – 8/01/2023
Kunstmuseum Wolfsburg
kunstmuseum.de
Vista parziale della mostra Empowerment, Kunstmuseum Wolfsburg, 10 set 2022 – 8 gen 2023. Photo: Marek Kruszewski, courtesy Kunstmuseum Wolfsburg
Kawita Vatanajyankur, Scale of Injustice, 2021, Video, without sound, © Kawita Vatanajyankur, courtesy of the artist and Nova Contemporary (l’autrice espone nella sezione “The Labour of Care”)
Wura-Natasha Ogunji, Will I still carry water when I am a dead woman?, 2013, single- channel video, 11:55 min, © Wura-Natasha Ogunji, courtesy of the artist, photo: Ema Edosio (l’autrice espone nella sezione “The Labour of Care)
Shilpa Gupta, I live under your sky too, 2004-ongoing, Animated light installation, 487 × 975 cm, © Shilpa Gupta, courtesy of the artist, photo: Kira Barlach (l’autrice espone nella sezione “Planetary Challenges”)
Laetitia Ky, pow’hair, 2022, © courtesy the artist and LIS10gallery (l’autrice espone nella sezione “Protest & Empowerment”)
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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