Nel discusso articolo The False Promise of ChatGPT[1] pubblicato su The New York Times nel marzo del 2023, pochi mesi dopo che il popolare software di AI era diventato di pubblico dominio, il filosofo, linguista e scienziato cognitivista Noam Chomsky riporta una conversazione tra un’AI e Jeffrey Watumull (direttore del dipartimento di intelligenza artificiale della società Oceanit) incentrata sulle ripercussioni morali di adattare il pianeta Marte alle esigenze umane.
Dopo un lungo scambio di input e risposte evasive, in cui l’AI sembra schermarsi enumerando pro e contro standard sull’argomento, alla domanda diretta sul perché rifiuti di esprimere una propria posizione critica, la chat risponde: «In quanto intelligenza artificiale, sono un modello di apprendimento automatico addestrato su grandi quantità di dati di testo e non ne ho personali esperienze o sentimenti. Non sono cosciente, autocosciente o capace di avere prospettive personali. Posso fornire informazioni e analisi basate sui dati su cui sono stato addestrato, ma non ho la capacità di formarmi opinioni o convinzioni individuali. Anche se posso comprendere e interpretare il linguaggio, non ho l’esperienza soggettiva che hanno gli esseri umani». In questa dichiarazione, non priva di adulazione per ciò che rimane del nostro ormai esangue antropocentrismo, si condensa l’esito di gran parte del sensazionalistico dibattito mediatico dell’ultimo periodo, che tende a far confluire la complessa questione della produzione artistica basata sull’AI nella sempreverde competizione tra umano e artificiale.
Ma non è certo questo il cuore della questione. L’aspetto rivoluzionario che differenzia l’AI dai software tradizionali, dove a uno stesso comando corrisponde sempre la medesima risposta, è che uno stesso prompt, ovvero frase descrittiva utilizzata per suscitare le sue risposte, genera una pluralità infinita di risultati, tra i quali l’utilizzatore elimina quelli che non gli interessano decidendo di tenerne uno, per poi precisare il tiro con ulteriori altri prompt. Si chiama intelligenza, dunque, non perché “comprende” ma perché impara per via di indicizzazione individuando gli elementi comuni alle soluzioni accolte o scartate, allenandosi a proporre risultati sempre più mirati rispetto alle preferenze dell’utilizzatore. Il modo in cui lavora è concatenare le parole che hanno più probabilità statistiche di susseguirsi in un testo: non cerca quindi spiegazioni, non è capace di distinguere il possibile dall’impossibile e di avere una reale visione d’insieme del discorso che sta facendo. Qual è dunque il suo apporto alla creazione artistica? Il fatto di funzionare da motore semantico, fonte di una gamma potenzialmente infinita di frammentazioni, associazioni e ibridazioni, dialogando con le quali l’utilizzatore arriva al risultato da lui desiderato oppure addirittura a un esito diverso dal previsto, ma considerato preferibile.
In tale processo un principio di casualità sembra sostituirsi al nesso di causalità, ma sappiamo che anche la creazione artistica ha un proprio linguaggio, generato da un “pensiero” laterale e trasversale attraverso il quale le cose si strutturano a partire da una causazione complessa, antilineare e talvolta istintiva e a cui il ragionamento logico non potrà mai essere completamente aderente. In questa fase embrionale animata da artisti precedentemente dediti ad altri media che, come molte altre categorie professionali, stanno valutando se e fino a che punto includere l’AI nei loro processi di lavoro, le sperimentazioni più rilevanti sono quelle che provano a scandagliare l’intrinseco funzionamento del mezzo e sulla portata epistemologica delle aporie che è in grado di generare. Non più quindi l’accento sulla sua capacità di imitare il modus operandi umano, ma una focalizzazione sulle discrepanze e sulle incoerenze per scandagliare attraverso un filtro alieno la componente indicibile di un’ispirazione, in cerca di nuovi varchi del pensiero. S’inscrive in quest’alveo la ricerca dell’artista londinese Felicity Hammond, a cui GALLLERIAPIÙ, in partnership con il festival PhMuseum Days, dedica la mostra Deposits. Il progetto espositivo, allestito su impalcature lignee che richiamano la provvisorietà di un cantiere edilizio o di scavo, consiste in una serie di collage digitali nati da un’elaborazione congiunta dell’artista e di un software AI sul tema evocato dal titolo. Le stampe di questa serie mostrano ambientazioni post-umane meravigliosamente inquietanti, in cui un’immagine centrale (misteriosamente coerente nel suo formalismo ibrido che assorbe una miscellanea di referenti) è incorniciata dalle sfasature di molteplici layers sovrapposti, in cui pattern astratti geometrizzanti si mescolano a brani pixelati o lisergici.
L’immaginario messo in campo dall’artista, plasmato da suggestioni provenienti dalla letteratura e dal cinema di fantascienza, allude a un ipotetico futuro in cui la sedimentazione di scarti di produzione nell’ambiente, da tempo in atto nel mare e nel suolo a causa della sovrapproduzione globalizzata, ha preso il sopravvento, generando un nuovo ecosistema di materiali nati dall’ibridazione di componenti artificiali e naturali. Per ipotizzare questo scenario Felicity Hammond ha stimolato l’AI con prompt testuali inerenti a luoghi impattati da processi estrattivi, lasciandosi guidare dalle immagini proposte dal sistema per reperire e assemblare nella realtà elementi somiglianti (come rami d’albero, oggetti sbagliati prodotti da stampanti 3D o reti di recinzione), successivamente allestiti nel suo studio e fotografati come staged still life e poi di nuovo processati tramite elaborazione digitale. In questo ciclo continuo di scambio con l’AI, le immagini da essa generate, trattate come materiali digitali, vengono usate come idee per produrre cose fisiche, a loro volta destinate a proiettare la loro corporeità in una dimensione digitale dove recuperano lo statuto di immagine all’origine della loro esistenza. Il perturbante corto circuito tra questi ambiti istituisce un parallelismo tra data mining e geological mining, suggerendo come i due fenomeni siano interconnessi dal punto di vista politico, economico, tecnologico ed ecologico e come la demarcazione tra l’ambito virtuale e quello fisico non sia più oggi un credibile discrimine ontologico.
Un’ulteriore convergenza è data dal fatto che l’estrazione (nella sua doppia implicazione di ispezione e campionatura degli strati del sottosuolo e di sondaggio degli accumuli di dati che i server continuano a produrre) è utilizzata come metodo per creare fratture significanti, in grado di far emergere il corrispettivo sommerso dell’abuso dei giacimenti sotterranei e del sovraccarico di informazioni, tra loro assimilati. La decostruzione implicita in tale prelevamento, finalizzato a ottenere materiali e dati grezzi, diventa il presupposto per una nuova strutturazione che, portando alle estreme conseguenze la dissoluzione dell’integrità degli elementi iniziali, sembra presagire un universo distopico in cui un vuoto di risorse è colmato da un pieno di codici di programmazione. La bellezza esagerata e inquietante di queste premonizioni fa intuire l’immenso potenziale estetico (specifico e svincolato da canoni umani) dei contributi dell’AI, mentre il rigore metodologico dell’artista e la coerenza della sua esplorazione dimostrano la sfaccettata duttilità del mezzo nell’inserirsi significativamente negli anfratti del pensiero umano.
[1] https://www.nytimes.com/2023/03/08/opinion/noam-chomsky-chatgpt-ai.html
Info:
Felicity Hammond. Deposits
21.09.2023 – 18.11.2023
GALLLERIAPIÙ
via del Porto 48 a/b, Bologna
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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