Clare Lilley – responsabile della sezione open air Frieze Sculpture Park di Frieze Art Fair – quest’anno ha avuto la funzionale idea di anticipare l’apertura dell’esposizione al 5 luglio e di chiuderla l’8 ottobre come la Fiera, incrementando l’interesse per l’arte pubblica fruibile anche dai frequentatori occasionali del suggestivo English Garden, più numerosi nella stagione estiva. Tra l’altro questa edizione ha avuto più espositori (24) della precedente e la curatrice, avendola basata soprattutto sulla produzione datata, ha potuto scegliere opere collaudate. Di conseguenza è prevalsa la staticità monumentale e si è avvertita la mancanza di opere materializzate con nuove tecnologie e ideazioni più sperimentali. Il che ha rassicurato quanti apprezzano particolarmente sculture museali. Le prescelte appartenevano a importanti gallerie, collezionisti e istituzioni che hanno sponsorizzato le operazioni attuative. Ovviamente sono state privilegiate quelle che avevano un dichiarato legame con la natura e che, per ragioni logistiche, provenivano specialmente dal Regno Unito. Lungo il percorso la mutevole luminosità, derivante dall’andirivieni del sole, faceva risaltare aspetti diversi degli artefatti.
La Marlborough Fine Art di Londra aveva prestato una tipica opera di Magdalena Abakanowicz (artista polacca scomparsa alcuni mesi fa, sopravvissuta all’invasione nazista della nazione d’origine), costituita da una figura umana in bronzo, senza testa e senza mani, davanti a una misteriosa ruota a pale fisse che simboleggiava la “storia che ‘schiaccia’ e il potenziale ciclico del rinnovamento”. Rasheed Araeed (Grosvenor Gallery, Londra) era presente con una struttura geometrica in metallo dai colori del “Summertime”; Reza Aramesh (Leila Heller Gallery, New York/Dubai) con la metamorfosi di uomo dalla testa di caprone che tenta di liberarsi dai legami esistenziali; Miquel Barceló (Acquavella Galleries, N.Y.) con un umoristico “Grand Elephandret” in posizione verticale (alto 25 metri, già esposto nell’Union Square di New York), dalla proboscide conficcata nel suolo e il corpo testurizzato in cui l’artista ha valorizzato le qualità sensibili della materia come nei suoi dipinti tattili. Anthony Caro (Annely Juda Fine Art, Londra) ha combinato materiali da cantiere, ispirandosi alla mitologia scandinava degli Elfi, sui quali Goethe scrisse una ballata musicata da Schubert. L’opera di John Chamberlain (Gagosian Gallery, Londra) era un nodo dall’iconografia pop con enormi chiodi in alluminio brillante color rosa, inutilizzabili a causa del loro intreccio; quella di Tony Cragg (Holtermann Fine Art, Londra) una lucente scultura in-forme avviluppate (già ad Art Basel 2015). Michael Craig-Martin (New Art Centre, Salisbury e Gagosian, Londra) aveva un’elegante silhouette di carriola in acciaio verniciato di rosso; Urs Fischer (Gagosian, Londra) lo scheletro deposto da una “Invisible Mother” su una sedia poggiata sopra una vasca rotonda trasformata in finta fontana; Gary Hume (Sprüth Magers, Berlino e Marthew Marks, N.Y.) il solitario e inespresso… germoglio di marmo scuro dall’essenzialità brancusiana; KAWS (Perrotin, Parigi) l’ironico Mickey Mouse disneyano (alto sei metri) che ricordava il “Pinocchio” di legno esposto nello stesso luogo nel 2013; Takuro Kuwata (Alison Jacques, Londra e Salon 94, N.Y.) due totemiche ceramiche dai palesi rimandi esotici, con applicazione di materie cromatiche; Alicja Kwade (kammel mennour, Parigi) una grande pietra reale e il suo doppio virtuale, generato dall’illusione ottica di un diaframma specchiante (ambiguità naturale/artificiale che attraeva gli osservatori). Mimmo Paladino (Waddington Custot, Londra) – unico italiano – si distingueva dal contesto con una realizzazione introspettiva ben riconoscibile, formata da tre sfere di bronzo brunito con arcaici ‘disegni’ tridimensionali. L’italo-scozzese Eduardo Paolozzi (Pangolin, Londra) era riproposto con la possente figura del dio romano Vulcano, ‘edificato’ fondendo elementi metallici. Jaume Plensa (Ruinart Champagne, gruppo LVMH) aveva un busto scultoreo costruito con raffinato groviglio di segni e lettere in acciaio inossidabile (omaggio al monaco benedettino Dom Thierry Reinart che iniziò a produrre champagne, poi industrializzato da un suo discendente); Thomas J Price (Hales Londra/N.Y.) tre teste votive su piedistallo che, stando a distanza, si schivavano; Peter Regli (Lévy Gorvy, Londra) un infantile pupazzo di neve in marmo nero con il corpo formato da tre palle. La Sadie Coles HQ di Londra aveva impiantato un albero di bronzo smaltato di Ugo Rondinone, reso anemico dall’algida luce lunare, in attesa di rivegetare, che richiamava quello color ruggine dagli innesti meccanici di Ai Wewei, collocato nel giugno scorso in Domplatz di Basilea nell’ambito di Art Parcours. Di Sarah Sze (Victoria Miro, Londra/Venezia) c’era una poetica e leggera amaca che cullava delicati ‘petali’ ricamati; dello statunitense Hank Willis Thomas (Ben Brown Fine Arts, Londra) la “Colonna infinita”, eretta con 22 palloni da football di resina verniciata, in ossequio allo sport più amato dagli inglesi; di Bernar Venet (Blain | Southern, Londra) la ‘dinamica’ installazione sul prato di ineguali elementi ad angoli acuti rivolti verso il cielo. Il cubo bianco cucito di John Wallbank (Arcade, Londra), in fibra di vetro e altri materiali, si confrontava con il verde smeraldo circostante. Infine, la Bowman Sculpture di Londra aveva portato una testa umana, dalla fisionomia classicheggiante, ricavata da una roccia vulcanica dall’inglese Emily Young.
Anna Maria Novelli
Bernar Venet, “17 Acute Unequal Angles” 2016, Steel Corten (courtesy Blain | Southern Gallery, London)
Takuro Kuwata, “Untitled” 2016, porcelain, stone, glaze, pigment, steel, gold, lacquer (courtesy Alison Jacques Gallery, London and Salon 94, New York)
John Chamberlain, “FIDDLERSFORTUNE” 2012, colored aluminium (courtesy Gagosian Gallery, London)
(Photos by Luciano Marucci)
Anna Maria Novelli è stata docente, ricercatrice di storia locale, coordinatrice di “Laboratori di creatività iconico-linguistica” in applicazione dei metodi di Bruno Munari e Gianni Rodari. Ha collaborato a periodici di pedagogia, poesia e arti visive, musicologia, cultura varia. Nipote del musicista e musicologo Giovanni Tebaldini, dirige il Centro Studi e Ricerche a lui intitolato e gestisce il sito in progress www.tebaldini.it, partecipa all’organizzazione di manifestazioni sul nonno, tiene relazioni in convegni, segue la realizzazione di edizioni e tesi di laurea. Fa parte della giuria del Premio “Pier Luigi Gaiatto”. Con il marito Luciano Marucci ha condotto inchieste tra arte e sociologia e ha pubblicato libri. Attualmente scrive per “Juliet” (a stampa e on line) e sta lavorando sui carteggi di musicisti attivi tra Otto e Novecento. Per approfondimenti consultare la sezione “Area Novelli” del sito www.lucianomarucci.it.
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