Daniele Capra è una di quelle rare figure di curatore e critico che si impegna ancora e molto a favore dell’artista, sia esso una nuova leva o meno. Una caratteristica importante che, non solo in Veneto, egli porta avanti con professionalità e serenità in un mestiere così sfaccettato come quello del professionista nel mondo dell’arte.
Vorrei far capire chi sei, ma non vorrei riassumerlo io. Come lo faresti tu, descrivendoti con il titolo di un’opera d’arte?
Sono un critico e un curatore indipendente, militante, però, nella modalità di condurre le mie scelte. Da un lato mi occupo solo di progetti in cui credo e, dall’altro, provo a costruire un sodalizio umano e intellettuale con le persone con cui scelgo di lavorare. Per quanto posso, cerco di non farmi abbagliare dalle ideologie, dal mercato o dalle mode e mi sforzo di guardare verso dove nessuno guarda. Onestamente penso che non vi siano criteri indubitabili e univoci per la valutazione degli artisti attivi nel nostro tempo presente. Si può solo agire in forma comparativa, impegnandosi quindi a esercitare il pensiero critico e andare in profondità. Dovendo scegliere un lavoro direi perciò Entrare nell’opera di Giovanni Anselmo. Entrare nell’opera è l’unica strategia che ti permette di cogliere la verità di un lavoro o la modestia abilmente nascosta dalle chiacchiere e dal glamour.
Di recente, in una rivista di settore, la figura del curatore è stata definita «al tramonto». Tu cosa pensi in merito?
Ho impressioni differenti. Curatori come Carolyn Christov-Bakargiev, Charles Esche, Thelma Golden, Massimiliano Gioni o Hans Ulrich Obrist sono delle vere e proprie star che stanno sulla bocca di tutti. A mio avviso, dei curatori c’è bisogno nella nostra società, che ha sempre più necessità di costruzioni articolate, intellegibili e di mediazioni tra opera e spettatore, i quali sempre più spesso condividono, senza saperlo, un orizzonte di solitudine individuale o identitaria. Inoltre, è necessario che il pensiero proposto sia critico, ambizioso, che tenti di fornire degli strumenti interpretativi rispetto al flusso indistinto in cui siamo immersi.
Esiste un luogo che tu identifichi come l’inizio del tuo percorso e del tuo lavoro?
Ho curato la prima mostra, una personale di Laura Zicari, per Trieste Contemporanea, allo Studio Tommaseo, una dozzina di anni fa. Sono grato a Giuliana Carbi e a Franco Jesurun, ormai scomparso, per avermi spinto a scoprire quella che era una vocazione di cui non ero ancora consapevole. Ho lavorato poi a oltre una decina di progetti in quello spazio, che è speciale per me perché mi dà la sensazione di sentirsi casa propria, nonostante la sua struttura architettonica con la scala nel mezzo continui a sfidarmi.
Come ha influito la pandemia sul tuo lavoro?
È stata una iattura. Mostre e progetti cancellati, finanziamenti pubblici persi, mesi di vita nell’incertezza. E poi pochi spostamenti, meno studio visit e timore nello stare insieme nella stessa stanza. Ma nel complesso penso che abbia lasciato meno tracce di quanto di potrebbe immaginare, se non la consapevolezza della fragilità del nostro sistema relazionale e culturale. E poi, nella conduzione del lavoro si sono privilegiate forme d’incontro online, anche se sono, nel complesso, asettiche e impersonali. Nonostante tutto abbiamo bisogno di vederci e discutere di persona.
Il pubblico andrebbe formato o intrattenuto all’interno di una mostra?
In generale pensiamo alla formazione e all’intrattenimento come a due categorie inconciliabili, ma in realtà una buona mostra prevede entrambi gli aspetti, poiché le due cose vanno coniugate all’intelligenza. La situazione più stimolante avviene quando degli aspetti apparentemente d’intrattenimento conducono, anche in forma inattesa, a contenuti significativi.
Cosa trovi di interessante, se qualcosa ci fosse, nelle cosiddette «mostre blockbuster»?
La cosa che più mi colpisce è l’elevata capacità comunicativa e il marketing di eventi di questo tipo. Vi è spesso l’abilità di trasmettere un racconto popolare a cui si contrappone quasi sempre una mediocrità delle costruzioni scientifiche. Uno spreco incredibile. Si radunano in un luogo delle opere, talvolta anche di peso, ma in realtà non c’è alcun reale motivo per farlo, a parte le possibilità di guadagno degli organizzatori e il consenso politico. Qui da noi la cultura non mette al centro il cittadino, ma il visitatore, considerato come un turista con una capacità di spesa. I contenuti non sono importanti. La cultura sta diventando, troppo spesso, solo un instrumentum regni.
Cosa consiglieresti a un giovane che volesse intraprendere il tuo stesso percorso professionale?
Di vedere le mostre nelle gallerie e negli spazi pubblici, di fare visita agli artisti negli studi, di leggere contributi di qualità e di non credere a tutto quello che viene raccontato. E poi suggerirei di avere una buona formazione internazionale, che è funzionale ad aprire il proprio sguardo e a maturare una rete di relazioni. Inoltre, consiglierei di scrivere e riscrivere, che è una grande scuola per capire ciò che si ha visto e ciò che si è fatto, le articolazioni del pensiero, gli inganni dell’apparenza.
Tu sei uno dei curatori più attenti ai giovani artisti. In Italia, nelle mostre all’interno degli spazi museali, c’è carenza di opere di giovani artisti, com’è invece pratica consolidata negli altri Paesi. Credi che sia una questione culturale, sociale o semplicemente una mancanza di coraggio?
Mancano delle politiche culturali ben strutturate a sostegno dell’arte tout court. Francamente, a mio avviso, nelle mostre museali dell’ultimo ventennio a essere sottorappresentati sono stati i mid-career italiani, mentre penso che ci sia stato spazio per i giovani artisti. Anzi, penso ci sia stata una forma di giovanilismo deresponsabilizzante. Artisti, anche molto bravi, scelti casualmente in quanto carne fresca e poi abbandonati. Inoltre, credo che i nostri musei dedichino poco spazio agli italiani e troppo ad autori che provengono da Paesi in cui c’è già un sostegno istituzionale e di mercato. Gli Stati competono tra loro anche culturalmente e noi, nel complesso, siamo debolucci. Non voglio sembrare nazionalista però, alla fine, promuoviamo spesso coloro che hanno spalle più grosse delle nostre!
Info:
Daniele Capra, foto Fratelli Calgaro
Extra Ordinario Appello, 2020, vista della mostra, Vulcano, Venezia Marghera, foto Nico Covre
Reagents, 2019, vista della mostra, Complesso dell’Ospedaletto, Venezia, foto Nico Covre
Point of Interrupted Departures, 2019, vista della mostra, Arsenale, Venezia, foto Boris Cvjetanović
Massimo Spada, Pavistil, 2021, vista della mostra, Conegliano
Artista e curatore indipendente. Fondatore di No Title Gallery nel 2011. Osservo, studio, faccio domande, mi informo e vivo nell’arte contemporanea, vero e proprio stimolo per le mie ricerche.
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