Fino agli anni Settanta nei grandi stabilimenti industriali l’immagine ufficiale dell’azienda era affidata a un gruppo di fotografi, ritoccatori e litografi interni che documentavano minuziosamente i processi produttivi e il lavoro coordinato degli operai. Questi autoritratti di fabbriche celebravano orgogliosamente la rivoluzione industriale e l’inarrestabilità di un progresso che sembrava aver sostituito ai ritmi lenti della natura il passo accelerato della macchina e la sua instancabile efficienza.L’uomo, ingranaggio subordinato ma ancora indispensabile, pagava con il sudore della fronte il proprio tributo alla modernità, soggiogato da una concezione piramidale del lavoro che si rispecchiava nella verticalità delle ciminiere fumose alla conquista del cielo. La rivoluzione high-tech del terzo millennio e le nuove tecnologie dell’informazione hanno ancora una volta mutato la civiltà occidentale riformandone ulteriormente i parametri di spazio e di tempo: in un’economia basata su servizi sempre più immateriali, la fabbrica tradizionale –buia, sporca, inquinante- sembra essere stata sostituita da una nuova tipologia di stabilimento, lo showroom, concepito come spazio espositivo fortemente teatralizzato. Nell’era post-industriale le aziende tendono a decentrare e nascondere la catena produttiva a migliaia di chilometri di distanza, rimuovendo in remoti entroterra del mondo le sue antiestetiche conseguenze, come l’inquinamento e lo sfruttamento intensivo di risorse naturali e umane.
Pressoché scomparsi i fotografi interni alle imprese, oggi la documentazione dei vari aspetti del colossale universo della produzione è affidata sempre più spesso agli artisti, che con le loro immagini affrontano i temi della tecnologia, del paesaggio urbano e della società globalizzata testimoniando le conseguenze dei più recenti cambiamenti epocali. Con la mostra Industria, oggi visitabile fino al 6 settembre nella Photogallery del MAST, il curatore Urs Stahel mette a confronto i punti di vista di 24 artisti-fotografi che negli ultimi anni si sono interessati ai processi produttivi e al loro legame con la società, componendo un affresco sfaccettato e critico delle complesse dinamiche che li governano.
L’utopia del lavoro automatizzato e “chirurgico” appare ad esempio negli scatti che Olivo Barbieri ha realizzato all’interno degli stabilimenti Ferrari a Maranello, ambienti chiari a luminosità diffusa ravvivati da piante assimilabili a una città ideale avulsa dal tempo e protetta dagli incidenti del caso da un invisibile principio ordinatore. Carlo Valsecchi e Vincent Fournier fotografano gli impianti produttivi contemporanei come artificiali paradisi fantascientifici dove la perfetta coreografia di macchine e robot autosufficienti sembra aver definitivamente liberato l’uomo dalla fatica rendendo superflua la sua stessa presenza. Diametralmente antitetiche a queste immagini d’immacolati deserti sincronizzati in un eterno presente automatizzato, le testimonianze fotografiche del cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” dove si sono trasferiti gli imbarazzanti retrobottega delle fabbriche-vetrina occidentali. Ad van Denderen, Sebastião Salgado e Jim Goldberg documentano le condizioni di lavoro spesso disumane della manodopera a buon mercato che si accalca nei fatiscenti capannoni delle zone povere del mondo, permettendo al sistema post-industriale occidentale di sussistere ostentando la propria innaturale correttezza formale.
Il collegamento tra questi due mondi avviene grazie a una complessa organizzazione logistica che garantisce il flusso ininterrotto di merci e materie prime con ogni tipo di mezzi di trasporto: Henrik Spohler materializza i non-luoghi di provvisorio approdo dei beni in transito come surreale sospensione della vita in suggestivi paesaggi post-human. I destini del nostro presente si decidono in lussuose e asettiche sale riunioni dove i consigli d’amministrazione prendono le decisioni che contano attorno a emblematici tavoli del potere: Jacqueline Hassink ritrae queste stanze vuote, enfatizzando la fredda autorità che irradiano. Brian Griffin invece nei suoi ritratti di manager e dirigenti analizza gestualità e forme esteriori dell’autorevolezza in una galleria di effigi intense, carismatiche e profondamente ironiche.
Ogni cambiamento epocale lascia dietro di sé vuoto e rovine, come i grandi stabilimenti dismessi che ingombrano le ex aree industriali del pianeta: Vera Lutter ne descrive alcuni con gigantesche immagini stenoscopiche che sembrano catturare la lenta progressione del disfacimento e l’oscura imponenza della maestosità trascorsa. Jim Goldberg si concentra invece sul degrado di popolazioni ridotte in ginocchio dal disastro economico, mentre Edward Burtynsky orchestra atmosfere rarefatte da fine dei tempi documentando la riconversione delle petroliere e delle navi da carico come nebbiosi cimiteri a cielo aperto.
Ancora abbandono e macerie nel filmato di Simon Faithfull con cui si conclude il percorso espositivo: la videocamera esplora il villaggio fantasma di Stromness, stazione per la lavorazione del grasso di balena nella Georgia Australe in disuso da decenni. Macchinari, edifici e attrezzature inutilizzate tentano di resistere alle condizioni climatiche avverse come per rallentare l’inesorabile cancellazione della presenza umana, mentre una colonia di elefanti marini è tornata ad abitare disinvoltamente questi spazi sottratti alla natura suggerendo una poetica ipotesi di redenzione.
Info: Industria, oggi. Fotografie contemporanee dalla collezione MAST
14 maggio- 6 settembre 2015
MAST gallery // Bologna, via Speranza, 42
Brian Griffin, Jonnie Turpie, Digital Director, Società di produzione Maverick Television, Birmingham, Inghilterra. Pigment print © Brian Griffin
Vera Lutter, Centrale elettrica di Battersea, II, 3 luglio, 2004. Unique silver gelatin print © Vera Lutter, Courtesy of the artist, New York
Trevor Paglen, COSMOS 2084 in Draco (Oko [“Occhio”] russo, Satellite per gli avvistamenti a distanza), C-print © Trevor Paglen, Courtesy Galerie Thomas Zander, Cologne
Jacqueline Hassink, The meeting table of the Board of Directors of Assicurazioni Generali, Venice, Italy, 9 September 2010, from the series The Table of Power 2, 2010/2013. C-print © Jacqueline Hassink
Carlo Valsecchi, #0078 Dalmine, Bergamo, 2008/2013. C-print © Carlo Valsecchi
Jim Goldberg, Vlad #1 (silo boy), Ucraina, dalla serie Open See. Dye diffusion transfer print and ink © Jim Goldberg, Courtesy of the artist and Pace/MacGill Gallery, New York
Vincent Fournier, Robot Kobian #1 (Laboratorio di Takanishi), Università Waseda, Tokyo, Giappone. C-print © Vincent Fournier
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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