Ho avuto il piacere di incontrare e intervistare Toxic, un graffitista newyorkese, che mi ha stupita con racconti incredibili che mi hanno condotta nel ghetto del South Bronx degli anni Ottanta, dove lui stesso è cresciuto. Con l’immaginazione mi ritrovo lì, tra i detriti e le macerie della periferia, percorro la 149° Strada e la Third Avenue. Lì si trova Fashion Moda, il luogo di ritrovo creativo dei nuovi writers che fu poi chiuso nel 1993; era il cuore della cultura hip-hop, dove crebbe il graffitismo, erano i tempi dei muri e dei treni completamente dipinti. Il graffitismo è una manifestazione sociale e culturale giovanile di pittura murale che nacque negli anni Settanta come parte della sottocultura presente nei ghetti newyorkesi – quest’ultima conosciuta come hip-hop. La massima espansione del graffitismo avvenne però negli anni Ottanta, più precisamente nel South Bronx, grazie all’avvento dello spray. Una rivoluzione che vide per la prima volta l’ingresso di artisti neri in un sistema artistico prima esclusivamente bianco. Un cambiamento derivante da giovani di origini diverse dall’aria sbeffeggiante e gentile, i nuovi kids di New York – come li definiva Francesca Alinovi. Per la prima volta la strada, e dunque la vita, entrarono ufficialmente nel sistema dell’arte. Un’arte che parla, urla, si ribella. Un’arte pubblica, per tutti. Proprio qui, a Fashion Moda, Toxic (uno dei kids) organizzò la sua prima mostra. Era il 1982, aveva 17 anni e questo fu solo il punto di partenza del suo percorso. Nato nel 1965 nel South Bronx, il suo vero nome è Torrick Ablack. Toxic, come la maggior parte dei bambini di lì, gioca a basketball e va sullo skateboard. In quel 1982 esplodeva di creatività ma ancora non sapeva che avrebbe cambiato la concezione dell’arte e della cultura insieme a nomi come quelli di Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Andy Warhol, Madonna e i Rolling Stones.
Bianca Furbatto: Hai iniziato a fare graffiti all’età di 13 anni con A-One e Kool Koor con i quali sei entrato nella crew di Rammellzee Tag Master Killers, com’è iniziato tutto?
Toxic: Ho incontrato A-One quando avevo tra i nove i dieci anni, eravamo vicini di casa e spesso facevamo skateboard insieme. Tramite lui poi sono diventato amico di Koor. Abbiamo così iniziato a graffitare nel nostro quartiere: il South Bronx. In quegli anni avevo iniziato anche a fare DJing e breakdancing, i graffiti però mi piacevano di più, mi davano più soddisfazione, adoravo dipingere. A-One mi ha sempre sostenuto e spinto molto, è infatti stato lui a presentarmi Rammellzee che ci ha poi introdotti nella crew Tag Master Killer.
Perché, durante l’infanzia, ti hanno dato il soprannome “Toxic Battery”?
Quando io e il mio amico Crave eravamo piccoli, giocavamo sempre a basket. Lui una volta mi disse: «Oh man, giochi come se avessi delle toxic betteries», e io gli risposi: «Che cavolo significa?». Quel giorno ci siamo messi a giocare da mattina a sera, non-stop, e così sono diventato “Toxic Battery”, anche se, dopo tutte quelle ore, ero distrutto e non avevo più energie. Da lì nasce la tag: “Toxic”.
Insieme con A-One, Koor, Rammellzee e la sua teoria artistica basata sul Futurismo Gotico eravate in guerra a combattere contro il linguaggio e il controllo. Qual era il vostro obiettivo?
Quando vivi a New York, ti rendi conto della differenza tra il crescere nel Bronx o a Manhattan. A livello sociale ed economico, ma non solo. Realizzi che anche il linguaggio è diverso: noi nel Bronx parlavamo uno slang che le persone di Downtown non capivano. In quegli anni, da ragazzini, andavamo a scuola per imparare l’inglese. In quel momento realizzi però che le parole in inglese sono usate per controllarti. Più sei intelligente e sfrutti il linguaggio a tuo favore, più cose puoi ottenere. La conoscenza, insieme al linguaggio possono essere usati come armi. Le parole sono i proiettili. Da qui deriva l’atteggiamento futuristico, di distruzione e annientamento nei confronti di un linguaggio controllato. Rammallzee usava le lettere armate ed era il master del gangsterismo artistico. Attraverso la nostra arte abbiamo quindi voluto creare un nuovo linguaggio libero.
L’origine del gangsterismo artistico di Rammallzee si trova negli indovinelli medievali. In che modo il medioevo è collegato alla vostra ricerca?
All’epoca guardavamo i codici miniati medievali, e Rammallzee andava a studiare i testi originali alla Biblioteca di Bryant Park, all’incrocio tra la 42° Strada e 5° Avenue. Di questi ci interessava il capolettera, lettere mascherate da immagini, a metà tra parole e figure. Come le lettere nascoste dei codici medievali, anche noi le volevamo nascondere e proteggere. Volevamo equipaggiarle con armi del nostro tempo: i missili. Quindi, ogni nostro graffito era in realtà una lettera armata, e ognuno di noi rappresentava una lettera: A-One la A, Koor B-One la B, io Toxic C-One la C. Io poi rappresentavo anche le lettere: O, G e Q, che dovevo difendere. Così facendo abbiamo dato vita a un nostro alfabeto attraverso i graffiti.
Difendere da cosa?
Dal controllo del linguaggio.
Hai incontrato Jean-Michel Basquiat nel 1982, puoi raccontarmi il vostro primo incontro? Quanti anni avevi?
Al tempo avevo sedici anni. Si trattava di un sabato sera del 1982 quando, spinto da A-One arrivo alla discoteca The Roxie, sulla 18° strada a Downtown. Durante la serata, avevo voglia di una pausa dalla musica così vado fuori e inizio a fumare. Di fianco a me c’è un ragazzo che non conosco, gli passo qualche tiro e iniziamo a parlare: «Mi chiamo Jean-Michel, ho 21 anni» mi dice. Poi rientriamo e iniziamo a ballare, balliamo tutta la sera. Si allontana per un momento poi torna, mi allunga una birra e mi dice: «Guarda, questo è il mio indirizzo, faccio una festa la settimana prossima, vieni». La settimana successiva ero indeciso se accettare l’invito o meno, alla fine decisi di andare. Arrivato alla festa vedo alcune limousine insieme a tantissima gente. Entro, ed erano tutti lì, i grandi graffitisti, i miei idoli: Fab 5 Freddy, Futura, Dondi. Inizio a capire che Jean è un artista, e che il graffitismo stava diventando sempre più grande e conosciuto. Da quella sera è poi nata una vera amicizia, è infatti stato Jean-Michel ad avermi spinto all’interno del sistema dell’arte. «Devi fare i quadri!» mi diceva, e io gli rispondevo: «Faccio i treni!», «Ma come fai a mangiare con i treni? Tu devi dipingere! Trasferisci quello che fai sui treni sulla tela».
Eravate molto amici! Anche le tele di Basquait lo dicono: sei presente in molte delle sue opere!
Certo, era mio fratello!
Ho sentito il singolo “Beat Bop”, prodotto da Jean-Michel nel 1983 per Rammallzee e K Rob. Jean ha dipinto la cover del vinile originale e per questo il singolo è tra i dischi rap più preziosi al mondo.
Pensa che prima di produrre “Beat Bop”, Jean era in viaggio a Los Angeles. All’epoca Basquiat era fidanzato con Madonna e lei viveva a casa sua a New York. Una sera, io e due miei amici siamo andati a trovarla. Abbiamo improvvisato una jam session: io alla batteria, Madonna alla tastiera e il mio amico al microfono. Abbiamo poi preso il giradischi di Jean-Michel e abbiamo iniziato a registrare. Jean ha poi ascoltato la cassetta, gli è piaciuta e ha deciso di voler registrare “Beat Bop”. In quegli anni eravamo immersi in una creatività pazzesca!
Che differenze noti con il mondo dell’arte di oggi?
Oggi il mondo dell’arte è molto più individualista e competitivo. Una volta ci aiutavamo a vicenda, era un continuo scambio con altri artisti, che oggi non percepisco più. È buffo perché con A-One, Rammellzee, Dondi e Basquiat eravamo tutti amici: «Oh man, devo finire questa cosa, mi vieni ad aiutare?» «Sì!» «Ehi man, ho finito il blu» «Ce l’ho io, vieni a prenderlo!». Pensa che una volta Bruno Bischofberger, importante mercante d’arte, voleva comprare un’opera di Basquiat. Jean-Michel gli ha detto: «Io non le vendo nessun quadro se prima non compra un’opera di Toxic». Mi trovavo lì in studio con Jean e Bruno, ma ero ancora indietro: con il phone ad asciugare il quadro! Avevo finestre spalancate e ventilatori per cercare di fare in fretta. Era così, eravamo tutti fratelli, ci aiutavamo. Invece gli artisti che conosco adesso non hanno questo spirito, ora la mentalità è: «Questo collezionista è mio, questa galleria è mia».
Nel 1984 hai partecipato alla mostra “Arte di Frontiera: New York Graffiti” a Bologna, creata da un progetto di Francesca Alinovi. Tu avevi 19 anni, che impatto ha avuto questa esposizione sulla tua carriera?
Negli anni prima della mostra Francesca Alinovi veniva da Bologna a trovarci, quando noi stavamo ancora nel Bronx. Francesca era fantastica, super cool, con questi capelli sparati! Noi avevamo 18 anni, lei 35 circa.
Perché dici che era super cool?
Perché quando ci veniva a trovare sembrava una di noi. Stava con noi nel Bronx a fumare e bere tutti insieme. Poi una sera ci ha detto: «Voglio organizzare una mostra a Bologna con voi giovani artisti delle New Wave!». Questa mostra ha introdotto me, Keith Haring, Basquiat, Rammellzee e A-One in Europa e nella sfera istituzionale dell’arte. Dal ghetto eravamo arrivati in un museo. Quella mostra ha cambiato la mia vita ed è solo grazie a Francesca.
In quegli anni voi graffitari newyorkesi esponevate spesso in Italia: Basquiat ha presentato una mostra a Modena nel 1981, nel 1984 inaugura “Arte di Frontiera” a Bologna, anche Rammellzee in quel periodo lavorava con la Fondazione Studio Carrieri Noesi, in Puglia. Che correlazione c’era tra l’arte del ghetto newyorkese e l’Italia?
In quell’epoca l’Italia apprezzava molto la nostra arte, era davvero interessata a quello che facevamo. I grandi collezionisti, per esempio Moschino, giravano con noi artisti. In Italia c’era un altro tipo di considerazione, c’era un terreno fertile di alto livello.
Negli anni Ottanta hai vissuto e fatto parte di una scena artistica che oggi si studia nei libri. Qual è la rivoluzione che sta avvenendo oggi nell’arte e dove si trova?
Non sono molto aggiornato sulla scena contemporanea, negli ultimi dieci anni sono un po’ uscito dal giro. Ora vivo qui nella mia casa in campagna! Oltre alla scena newyorkese ho però vissuto anche quella parigina, che è sempre molto interessante. Oggi, tuttavia vedo che si è spostato tutto su internet e che il marketing sta iniziando a contaminare l’arte.
Bianca Furbatto
Info:
Toxic
is a contemporary art magazine since 1980
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