Il titolo della 18esima biennale di architettura “Il laboratorio del Futuro” e la scelta della ghanese Lesley Naa Norle Lokko nel ruolo di curatrice, che ha indicato l’Africa come il laboratorio del futuro, hanno acceso le speranze per un cambiamento di direzione dal consueto percorso retorico e di museificazione che caratterizza da anni la biennale veneziana. Sfortunatamente anche questa volta, come si era già visto nel caso della 59esima esposizione internazionale d’arte nel 2022 curata da Cecilia Alemani, l’identità sessuale ed etnica del curatore non garantisce di per sé valide alternative e proposte innovative capaci di contrastare la politica clientelistica ed elitaria perseguita dalla presidenza. Lesley Lokko attraverso un approccio compromettente con la politica espositiva di “arte in vetrina” ha dato vita a una esposizione narcisistica e astratta, rifiutando un impegno discorsivo con la realtà, perdendo così l’occasione di usare la propria posizione di leadership in maniera attiva e propositiva.
Il percorso espositivo dell’attuale biennale nel suo complesso offre una lettura didascalica e rinuncia a offrire alternative costruttive e punti di vista attivi. Si tratta in maggioranza di una raccolta di testimonianze a favore della salvaguardia dell’ambiente tradotte in un grande grido di disperazione per un pianeta che appare avviato verso il caos dopo essersi liberato dai propri abitanti. La curatela nel suo complesso risulta indecisa, per non dire confusa, con risultato un potpourri di proposte spesso ripetute e sovrapposte. I partecipanti vengono lasciati navigare a vista, affidati prevalentemente alle capacità dei singoli curatori. In controtendenza alla debolezza curatoriale di Lokko si incontra una serie di lavori dinamici a livello concettuale e di progettazione, ma anche testimonianze di opere realizzate con cura, grazie alle capacità progettuali, organizzative e realizzative di noti studi architettonici arrivati da varie parti del mondo.
L’esposizione dei Giardini, che di consueto rimane condizionata dalle scelte nazionali, offre pochi progetti che riescono a uscire da tesi puramente astratte e autocelebrative. Una voce dinamica con intenzione interattiva arriva dal padiglione tedesco, rimanendo però intrappolata nei limiti di una protesta statica e ripetitiva. Delude il padiglione dei paesi nordici, che fallisce il suo obbiettivo di offrire una continuità storica dell’architettura sostenibile e rispettosa verso l’ambiente, precipitando nel folclore. Altrettanto fuori luogo risulta l’attraente presenza del padiglione britannico il quale, malgrado la qualità estetica del suo contenuto, fatica ad allinearsi con il concept della biennale e a offrire al visitatore valide chiavi di lettura. Emerge invece il padiglione ungherese con Reziduum – The Frequency of Architecture che, pur presentando un esempio museale concreto e riuscito, evita l’effetto celebrativo attivando invece un rapporto dialettico con lo spettatore. Una nota positiva la offre il padiglione giapponese con Conversazione sull’architettura da amare, che propone un’architettura capace di avviare un’armoniosa simbiosi tra l’uomo e il proprio ambiente, uno spazio che invita a scoprire un percorso vario e multiforme e a provare sensazioni dirette. Il team curatoriale sfrutta l’intero spazio del padiglione generando intrecci cromatici e intense alternanze di luci e ombre in maniera gioiosa.
All’Arsenale, malgrado l’accumulo casuale delle innumerevoli presenze che faticano a costruire forme di simbiosi e di solidarietà espositiva, si rileva una serie di operati degni di attenzione, tra cui ricordiamo la composizione concettuale e simbolica del padiglione cileno Moving Ecologies, connotato da una fragile raffinatezza che rimanda alla protezione e al ripristino ecologico. Scavalcando ammassi di detriti, ricostruzioni di palestre, mercatini delle pulci e rappresentazioni pop di supermercati, tutte espressività cariche di richiami più che espliciti all’arte povera, pop, land e concettuale espressi in maniera esaustiva nel corso degli ultimi decenni, emerge l’installazione intitolata Co-Living Courtyard, dello studio ZAO / standardarchitecture del cinese Zhang Ke. Si tratta di progetti architettonici concepiti come progetti di vita comune e condivisa, laboratori organici di coesistenza e di dialogo costruttivo con il tessuto urbano ospitante. Diversa ma altrettanto interessante è la presenza dello studio sudafricano Kate Otten architects che espone tra i singoli practitioner l’opera Threads dove si narra in maniera graziosa e altrettanto profonda il rapporto intimo tra la terra e il suo contesto ambientale. Sul concetto della continuità tra passato, presente e futuro si allinea anche il padiglione dello stesso paese sudafricano con Moving Ecologies, che si sviluppa in una sequenza tripartita indagando sulla convivenza tra l’architettura e il suolo ospitante in chiave storica, etnografica, politica e culturale, proponendo delle soluzioni socio-spaziali tenendo in considerazione i cambiamenti climatici e le diversità e disuguaglianze a livello economico e sociale.
Tra i molteplici eventi collaterali ospitati all’interno dei palazzi veneziani, delle strutture museali ma anche in piccoli spazi improvvisati sparsi tra le calli della città, colpisce la vitalità del padiglione di Taiwan con Architecture as on-going details within landscape esposta presso il palazzo delle Prigioni. Superando con successo le dimensioni ridotte dello spazio espositivo il team curiatoriale riesce a presentare un panorama espositivo variegato e multiforme incentrato sul ripristino del tessuto locale portando esempi concreti come le serre nella pianura di Chianan, le piantagioni di tè di Lishan, i rifugi per allevamenti di ostriche al largo della costa di Chiayi, esempi che affrontano con rispetto l’ambiente naturale. L’installazione co-organizzata da Hong Kong Arts Development Council e The Hong Kong Institute of Architects riflette in maniera riuscita la peculiarità della città di Hong Kong che, condizionata dalle ridotte dimensioni del suo territorio, riesce a trasformarsi in maniera continua e creativa. Si presentano soluzioni innovative attraverso tre scale a contrasto che alludono alle trasformazioni territoriali, architettoniche e dello spazio unico attraverso un riuscito convivium disposto ad affrontare le sfide di domani.
Progetti interessanti arrivano da esposizioni “indipendenti” e in particolare dall’European Cultural Center che, pur rifiutando di mettersi in coda per ricevere l’accesso ai progetti collaterali, sono riusciti a capitanare la vernice della biennale. Diversamente dal percorso espositivo del palazzo Mora, contraddistinto da una sciatteria organizzativa e da un casuale accostamento di progetti, l’operato espositivo nel palazzo Bembo offre un riuscito percorso, caratterizzato da coesione stilistica e organizzativa. Si incontrano una serie di felici convivenze espositive che, pur espresse attraverso tecniche, forme e materiali diversi, riescono ad attivare relazioni dialettiche sia tra loro che con i visitatori. Spiccano: l’olandese Julia Janssen con Mapping the Oblivion che cerca di rendere tangibili dal punto di vista artistico le sfide della nostra società in via di digitalizzazione; la sofisticata opera cinese Cave of Cloud carica di simbolismi e di varietà interpretativa che indaga sul rapporto mistico tra l’uomo e il proprio l’habitat; la vitale esposizione Layers di Louise Braverman resa attraverso l’assemblaggio di immagini e di materiali organici che genera un racconto di leggero sapore pop. L’architetto americano ricorre alla metafora dell’albero e delle sue radici che si insinuano nel suolo alludendo alle identità architettoniche che, interconnesse nel tempo, portano alla consapevolezza delle sfumature presenti nella società. Altrettanto riuscite risultano le installazioni allestite dallo stesso centro culturale presso i giardini Marinaressa, dove diverse forme e materiali condividono lo spazio creando un clima di dialogo e di contaminazione. La capanna giapponese che richiama la casa da tè, è una struttura organica, leggera, che garantisce uno spazio intimo e riservato e nello stesso tempo accogliente grazie alle forme di un’architettura flessibile e respirante.
Conclusa la vernice e la campagna promozionale della 18esima biennale di architettura è giunto il momento di sollevare una serie di problematiche che abitualmente non trovano espressione nella critica ufficiale, a partire dall’invasione dell’intero suolo cittadino che incentiva la devastante speculazione immobiliare già presente a Venezia. Malgrado la pervasività della biennale nel tessuto della città, viene escluso qualsiasi coinvolgimento dei residenti, i quali avrebbero potuto avere una partecipazione attiva a partire dalle scuole. Unica eccezione la partecipazione dell’Università IUAV grazie alla gestione dei suoi docenti che hanno sempre collaborato con i vertici dell’apparato politico. Le strategie a favore del mercato finanziario che gestisce quello dell’arte, usando la biennale come vetrina, sono oramai consolidate e vengono ulteriormente potenziate. Restano esclusi dalle corsie privilegiate della mostra le cooperative e i piccoli studi di architetti indipendenti che riescono a trovare spazio soltanto presso le esposizioni parallele in cambio di un cospicuo tributo finanziario, alimentando così un dominio parallelo che potrebbe progressivamente condizionare e addirittura accaparrarsi gli spazi della biennale. Si tratta del serpente che si mangia la coda, ossia di una dirigenza politica complice dell’impoverimento culturale, economico e culturale sia dell’istituzione biennale sia della città, con la prima non disposta a rivalutare e condividere le scelte con la cittadinanza attiva.
Efthalia Rentetzi
Info:
www.labiennale.org/it/architettura/2023
www.ecc-italy.eu/exhibitions/2023archbiennial
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