Al Teatro Argentina di Roma è andato in scena in due giornate il nuovo spettacolo ideato da uno dei protagonisti dell’arte contemporanea mondiale. Parla del Belgio di ieri e di oggi in una chiave festosa, stravagante, estetica.
La supremazia indiscussa dell’immagine – oggetto ideale ha perso ormai da tempo ogni simbolismo per divenire unicamente la moneta di scambio di una conoscenza che è irrimediabilmente veicolata dalla natura dell’immagine stessa. Nel tempo ancora imprevedibile dell’ipermoralità come risposta usata nella maggior parte dei casi dall’osservatore nell’approccio alle arti contemporanee, stupisce trovare un prodotto artistico che riesca oggi a scardinare questo sistema con la regola d’arte di cui è fatto. È riuscita nell’intento l’ultima opera teatrale di Jan Fabre andata in scena in occasione di Roma Europa Festival 2017 in due giornate (30.09 e 1.10) presso il Teatro Argentina; è Belgian rules/Belgium rules. Il titolo è un gioco di parole che nella doppia valenza della parola ‘rules’ condensa i dettami del popolo belga (“le regole belga”) e il principio identificativo di esso (“il Belgio regna”).
Jan Fabre racconta il Belgio, i suoi abitanti, la sua cultura, i suoi ideali mediante un bombardamento visivo di quattro ore di piccole pièces teatrali apparentemente slegate tra loro che diventano nella mente dello spettatore quadri immaginativi di situazioni tipiche senza alcuna narrazione. Non è un racconto conseguenziale né tanto meno cronologico poiché motivi contemporanei si fondono ad altri più remoti (come in una delle numerose danze in costumi tradizionali ma con sottofondo di hit disco del momento). La scena è un susseguirsi di riferimenti pungenti, ammiccanti, ironici che usando alcuni clichés della cultura e della storia belga (la birra come l’opera di Jan Van Eyck come il calcio) dipingono un ritratto del paese che niente ha a che vedere con quello che in un’opera del genere potrebbe essere un intento nazionalistico.
Il tema seppur centrale non può non divenire che il sottofondo dell’esuberante visione fabreana del Teatro, nonché dell’arte in generale. Sul palco è un trionfo gioioso che celebra in ogni scena/immagine il corpo nel suo naturale entusiasmo fisico e fisiologico grazie alla presenza di quadretti dove l’estenuante esercizio o la nudità sessuale e sfacciata sostituiscono il carattere provocatorio con la naturalezza. I liquidi del corpo si fondono con la birra costantemente presente sul palco, la fanfara della musica e della danza con la riflessione culturale, storica e politica, cosicché la risposta morale del fruitore già assuefatto oggigiorno alla pornografia dell’immagine di cui la realtà è satura, non può non piegarsi all’ovvietà di un’opera d’arte divenuta totale.
L’opera di Fabre è una costruzione teorica ed estetica che asseconda l’imperante cultura dell’immagineconoscenza,
ma diversamente, tramite una bellezza palpabile, la alimenta. Il pensiero va subito al precedente spettacolo dell’artista: Mount Olympus che due anni fa presso lo stesso teatro romano riusciva in un’impresa memore del fervore originario del teatro dell’antichità, portando in scena uno spettacolo sullo spirito della tragedia greca della durata di ventiquattro ore, come fosse un anacronismo dionisiaco. Laddove risulta ormai superfluo ogni teorico sconvolgimento della forma a favore della scomposizione dell’opera secondo la legge sacra del post-moderno che ancora miete vittime – o dovremmo dire martiri?- è tuttavia da considerarsi un compimento eroico quello di proporre un’opera che non indifferente agli estetismi della forma è allo stesso tempo costruttrice di un nuovo e per i nostri tempi bisognoso, ordine teorico sulle arti. Passa di sottofondo ma non inosservata infatti l’opinione di Fabre sul teatro, sul mondo dell’arte oltre che sulle contraddizioni del suo paese, ed essa è non priva di statements lapidari e apocalittici. Tutto nelle vesti di un ibrido ma puro prodotto fuori dai generi.
Solo l’artista poteva rompere in un modo tale ciò che rimane oggi della distinzione tra teatro e performance, opera d’arte visiva e non, producendo un unico effluvio di artisticità. Belgian rules/Belgium rules scardina ancora una volta l’obsoleta moralità a cui il teatro d’avanguardia (Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, il duo Beck- Malina; solo i nomi che non possono non essere citati) aveva già assicurato morte certa. Lo fa attraverso una modalità estetica costruita come solo l’artista avrebbe potuto fare sintetizzando alla perfezione quel principio che spinse Grotowski a dire nel 1989- in occasione di una conferenza, descrivendo l’apice della fase di sperimentazione del suo Laboratorio: «È stata la Festa: umana, ma quasi sacra, legata ad un “disarmarsi” reciproco e completo».
Giulia Giambrone
Jan Fabre, Belgian rules ©Wonge Bergmann
Jan Fabre, Belgian rules ©Wonge Bergmann
Jan Fabre, Belgian rules ©Wonge Bergmann
Jan Fabre, Belgian rules ©Wonge Bergmann
Jan Fabre, Belgian rules ©Wonge Bergmann
Giulia Giambrone (Roma,1994) ha conseguito la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea con una tesi in Estetica. Segue da anni il lavoro di Luigi Ontani al quale ha dedicato il saggio Luigi Ontani in Teoria. Filosofia, Estetica, Psicoanalisi nell’opera e nell’artista (Alpes Ed., Roma 2019). È stata intern presso Peggy Guggenheim Collection (Venezia) e La Galleria Nazionale (Roma). È curatrice tra Roma (Fondamenta Gallery) e Venezia (Spazio Norbert Salenbauch). S’interessa principalmente del rapporto tra filosofie e arti contemporanee.
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