“Il Bacio di Giuda” di Joan Fontcuberta, un saggio storico che ha segnato lo spartiacque tra la presunta verità della fotografia e il fake, è stato recentemente tradotto anche in Italia. Déjà vu, il suo ultimo progetto realizzato assieme a Pilar Rosado Rodrigo, dopo essere stato esposto al Festival di Arles, è in mostra fino al 22 ottobre 2022 alla Grenze Contemporary Gallery di Verona. Abbiamo invitato lo studioso catalano a riflettere con noi sullo stato dell’arte e sul ruolo della fotografia nel racconto del reale.
Simone Azzoni: Perché non possiamo più fidarci della fotografia?
Joan Fontcuberta: Il problema è che abbiamo sollevato la questione della fiducia nella fotografia e non nel fotografo. Il linguaggio non ci dà mai garanzie in questo senso; al contrario, è costrittivo perché incapsula il modo di esprimere l’esperienza. Oggi comprendiamo che, anche supponendo che la fotografia sia neutra, l’accento dovrebbe ricadere sul soggetto.
Dall’edizione del ’96 del Festival di Arles dedicata al dubbio e al disincanto, come è cambiata oggi la fotografia rispetto alle sue potenzialità di modificare i comportamenti di chi guarda?
L’evoluzione della fotografia l’ha portata al collasso della sua impalcatura ideologica, che in sintesi poggiava su valori di verità e memoria. Ma la cosa più importante è l’educazione visiva del pubblico attuale, in gran parte “nativo digitale”, che ha familiarizzato con la malleabilità dell’immagine e ha privato la fotografia della sua aura sacrosanta. Con i telefoni cellulari la fotografia è diventata un linguaggio che usiamo con naturalezza.
La fotografia mente per istinto e per natura, quindi dovrebbe essere a tutti gli effetti considerata arte, eppure quanta fatica a farla entrare nel sistema…
Sin da Duchamp, l’arte non ha mai smesso di porsi problemi. Oggi la pratica artistica non persegue più uno scopo di originalità ed espressione, ma si espande in domini deliberatamente anti-artistici e senza dubbio la fotografia ha contribuito a questo stato di cose. Bisogna stare molto attenti. A me piace la nozione duchampiana di “inframince”: l’arte più genuina è caratterizzata dalla sua leggerezza: con il solo fatto di parlarne, già scompare.
Il sistema contemporaneo, come dimostra lei ne Il Bacio di Giuda, quando parla dell’uso che fanno i dittatori dell’immagine, distrugge la possibilità della fotografia di documentare.
Lo verifichiamo quotidianamente con l’attuazione diffusa di postverità e fake news. Negli anni ’30, quando emerge l’idea di fotografia documentaria al servizio di programmi di emancipazione sociale, autori come Margaret Bourke-White si chiedevano già se si potesse andare oltre la propaganda, se l’obiettività non fosse altro che un mito naïf e quindi dovesse semplicemente prevalere il mettersi al servizio di una “buona” causa.
Il patto di veridicità è stato tradito, ma non pare ce ne siano altri all’orizzonte. Cosa ne pensa?
I patti durano finché persiste una sintonia di interessi tra coloro che li hanno sottoscritti. Viviamo in un’altra epoca. Potremmo dire che la benda che copriva i nostri occhi è caduta, ma la realtà è che i protagonisti di oggi hanno bisogno di altri accordi, meno dogmatici.
Tutti sappiamo che la fotografia si può manipolare, ma perché non riflettiamo sulla manipolabilità della fotografia?
La fotografia ha natura proteica ma molte convenzioni culturali ce l’hanno presentata come una trascrizione letterale della realtà, unica, inamovibile. La fotografia è stata vittima di un certo autoritarismo intellettuale. Oggi ogni bambino che gioca con i filtri di Instagram sa che la fotografia è malleabile e ride della sua presunta letteralità.
Ci potrebbe fare un esempio di un uso buono della fotografia e di uno cattivo?
Per questo bisogna verificare la corrispondenza tra l’intenzione e il risultato. Spesso, purtroppo, possiamo solo indovinare quale fosse l’intenzione. Ad esempio, la foto di Pete Souza di Obama, Hillary Clinton e l’intero gabinetto di crisi della Casa Bianca che guarda su un monitor come un commando delle Navy Seals assassina Bin Laden. Se l’obiettivo di quella foto era quello di fare da tappo a informazioni visive complete, è stato raggiunto ed è stato un buon uso. Se l’intenzione era quella di fornire informazioni trasparenti e democratiche, è stato un uso improprio.
Il contesto dà verità alla fotografia, come dimostrano ad esempio i suoi esperimenti sui Musei Naturali, nei quali espone accanto a manufatti scientifici immagini asolutamente “fake” che rimandano a creature mostruose. Si può togliere il contesto e lasciare la fotografia senza immaginario o si può solo metterlo in discussione?
Tutte le foto sono in attesa di un (con)testo. La fotografia in sé è un mix astratto di forme, colori e texture, che acquisiscono significato per noi solo quando accediamo ai “metados” forniti dal contesto. Decontestualizzare una fotografia è un atto surreale simile a “objet-trouvé”, come hanno dimostrato Mike Mandel e Larry Sultan con il loro libro “Evidence”.
Si potrà ancora parlare di bella fotografia o sarà necessario convertire il giudizio sulla sua funzione?
La qualità di solito si riferisce al dominio dell’estetica, ma per me è più importante la funzione: come usiamo le immagini e a cosa servono. Genericamente potremmo dire che servono a negoziare i nostri modelli del reale e quindi contribuiscono a forgiare i nostri giudizi. Mi piace sostenere una fotografia “senza qualità” per non distrarci dagli aspetti formali, tattici e parlare invece di scopi ed effetti, cioè aspetti strategici.
Sarà ancora possibile giocare pulito con le immagini? Smascherare il potere e qualche prepotenza? Una resurrezione dopo un bacio di tradimento?
La mia speranza è cercare di eliminare e rigenerare le immagini. La chiave, tuttavia, sta nella cultura visiva del pubblico, nell’incoraggiare atteggiamenti reattivi e non sottomessi. Noi produttori di immagini abbiamo una responsabilità in questo senso, dobbiamo contribuire a promuovere un pensiero critico.
Info:
Joan Fontcuberta y Pilar Rosado, DÉJÀ-VU, 2022, courtesy the artist and Grenze Contemporary Gallery
Joan Fontcuberta y Pilar Rosado, DÉJÀ-VU, 2022, courtesy the artist and Grenze Contemporary Gallery
Joan Fontcuberta y Pilar Rosado, DÉJÀ-VU, 2022, courtesy the artist and Grenze Contemporary Gallery
Joan Fontcuberta y Pilar Rosado, DÉJÀ-VU, 2022, installation view at Grenze Contemporary Gallery
È critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine presso l’Istituto di Design Palladio di Verona e Arte contemporanea presso il Master di Editoria dell’Università degli Studi di Verona. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. È direttore artistico del festival di Fotografia Grenze. È critico teatrale per riviste e quotidiani nazionali. Organizza rassegne teatrali di ricerca e sperimentazione. Tra le pubblicazioni recenti Frame – Videoarte e dintorni per Libreria Universitaria, Lo Sguardo della Gallina per Lazy Dog Edizioni e per Mimemsis Smagliature nel 2018 e nel 2021 per la stessa casa editrice, Teatro e fotografia.
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