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Julia Bornefeld. Leda e il cigno nero

Julia Bornefeld. Leda e il cigno nero

Dal 7 ottobre al Gaggenau Hub di Milano è visitabile la personale di Julia Bornefeld intitolata Leda e il cigno nero a cura di Sabino Maria Frassà, terzo appuntamento del ciclo artistico On Air promosso da Cramum e Gaggenau. La mostra è una preziosa occasione per approfondire la poetica dell’artista tedesca, ancora non adeguatamente conosciuta in Italia, nonostante dai primi anni ’90 le siano state dedicate importanti mostre in tutto il mondo e le sue opere si trovino in prestigiose collezioni internazionali. Da sempre Julia Bornfeld intreccia riferimenti biografici e mitologici ai temi del dibattito femminista degli anni Sessanta e Settanta: in questo inedito corpus di lavori, il mito di Leda (l’affascinante regina di Sparta sedotta nel sonno da Zeus trasformatosi in cigno), antico topos della storia dell’arte, confluisce nella più recente metafora del “cigno nero”, elaborata dal filosofo libanese Nassim Nicholas Taleb nel saggio “Il cigno nero – Come l’improbabile governa la nostra vita” (2007), dove dimostra che la storia e le nostre esistenze individuali sono segnate da avvenimenti sorprendenti a cui non riusciamo a dare spiegazione.

La mostra Leda e il cigno nero è composta da alcune sculture in piume nere “storiche” e da una serie di disegni che hai realizzato durante il periodo più cruento della pandemia. Come si è delineato questo progetto e quali difficoltà e suggestioni ha apportato il lockdown al tuo processo creativo?
Vent’anni fa realizzai un ampio lavoro performativo con le piume, che è rimasto nel cuore del curatore Frassà, che mi ha selezionata. È stato strano e bello ritirare fuori dopo anni queste opere anche perché l’ho fatto in un momento difficile come quello della pandemia. Ho quindi non solo riaperto ma ripensato dopo vent’anni a quella performance e al significato del nostro “viaggio”: questa mostra da Gaggenau è quindi stato un momento importante di autoanalisi.  Per me le piume sono come una pelle che permette agli uccelli di volare, sono quindi il simbolo stesso della libertà; una libertà così frustrata durante la pandemia, ben rappresentata da diverse mie opere realizzate con le piume al contrario… piume che non possono più volare. Queste piume – nere, bianche, piccole, dritte e al contrario – sono il miglior modo con cui riesco a immaginare e rappresentare ciò che stiamo vivendo: tanti i sentimenti, non univoci. Ma in fondo la vita non è mai univoca.

Nelle opere esposte la fusione tra il mito antico e la narrazione contemporanea si realizza mediante una particolare iconografia che riesce a essere concettuale e sensuale al tempo stesso: l’imitazione tattile e visiva della natura viene rarefatta da una presentazione frammentaria che concilia elusività e concretezza. Vorresti raccontarci qualcosa a riguardo?
La fusione tra il mito e la contemporaneità è trasversale ai miei lavori e la trovo così vicina a questo ciclo di mostre On-Air che riflette sulla circolarità e relatività del tempo: in tutte le culture si ritrovano le stesse dinamiche e gli stessi “miti”, perché nel nostro inconscio c’è una dimensione universale atemporale, che l’arte permette di raggiungere e comunicare. Molte volte l’universalità delle forme da me rappresentate e realizzate stupisce persino me stessa: è incredibile come in diverse parti del mondo gli artisti giungano contemporaneamente – ma attraverso strade completamente diverse – a rappresentare “forme”, “figure” e sentimenti simili. Queste forme per me non sono mai bidimensionali, ma sempre poli-dimensionali, perciò la “massa” è sempre presente nei miei lavori, anche se è una massa contraddittoria e ingannevole. Come la nostra vita è contraddittoria e illusoria, le mie opere anche enormi, sono quasi sempre leggerissime. La mia arte è fatta di equilibri e di opposti.

La mitologia classica sottintende un ordine costituito basato sulla spontanea sottomissione degli uomini alla capricciosa volontà degli dei che ne determina gli alterni destini, in cui l’orgogliosa tracotanza (hybris) di coloro che tentano di ribellarsi a questa condizione viene duramente punita. Pensi che nella società contemporanea sia rimasto qualche retaggio culturale o emotivo di questi aspetti? 
Più che sull’arroganza, io rifletto spesso sulla violenza. In questa mostra il divino pone diversi dubbi perché è Zeus, la divinità, che ha violentato Leda, l’umanità. Ma la violenza sull’umanità è stata causata dall’arroganza dell’uomo? Il Covid è in qualche modo collegato al fallimento di un capitalismo esasperato che non rispetta né considera più il mondo e la natura che ci circonda? E poi cosa fare di fronte a questa violenza del divino? Come imparare ad accettare il male e la sofferenza che dobbiamo sopportare? L’uomo contemporaneo non riesce a saperlo perché è alla fine assurdamente schiacciato dalla propria intelligenza, scienza e razionalità. L’intelligenza dell’uomo ha forse permesso di renderci soprattutto consci della nostra piccolezza e forse l’uomo è stanco di vedersi piccolo e negare la deità. La reazione fatta di fanatismi e credo aprioristici è altrettanto violenta. Quindi per me il viaggio interiore dell’essere umano oscilla senza risoluzione tra umanità e deità, tra particolare e generale.

Mai come oggi, in quest’epoca confusa tra gli entusiasmi della tecnologia e l’ubiquità telematica, appare necessario riflettere sui pericoli insiti nella violazione del limite (etico, morale, ecologico) e nell’assenza di consapevolezza e di responsabilità. Quale ruolo dovrebbe avere l’arte in questo processo?
L’arte, come nel rinascimento, serve per cercare di far andar avanti il mondo, sublimando tutto il dolore che ci circonda. L’arte è perciò in sé violazione del limite, perché i limiti non esistono. L’arte ci dovrebbe così aiutare a cercare nel divino la gioia e non la motivazione al dolore. L’arte, quella libera e non ossessionata dal commercio, è una forma di pensiero nobile che può fare da collegamento e da ponte nella società. L’arte forse potrebbe addirittura essere il facilitatore per un nuovo ordine socio-economico ma anche antropologico per salvare questa Terra e vivere bene insieme. Utopia? Forse, ma che alternative abbiamo a questa mia sospirata intercomunicazione e fratellanza universale?

Pensi che ci sia ancora qualche equilibrio possibile tra il nostro esasperato individualismo e il mondo che ci circonda? Come rappresenti questi elementi?
Credo proprio che l’egoismo sia stato il problema principale nel dopoguerra. Forse dentro quell’uovo di Leda e il Cigno protagonista di questa mostra si nasconde la possibilità di smettere di essere egoisti. Il capitalismo postbellico non è più sostenibile e i giovani lo sanno e stanno pensando a un mondo sostenibile. Nei miei lavori c’è sempre un equilibrio instabile o inaspettato: il disequilibrio e la compresenza di opposti è una costante del mio lavoro: amo il monumentale, ma anche la leggerezza, il nero e la luce.

La tua arte è molto simbolica. Parlavi prima dell’uovo così presente nel ciclo di opere che dà il nome alla mostra. Lo ritrai e rappresenti sempre come oscuro e inaccessibile. Il suo dischiudersi sarà l’aprirsi di un nuovo vaso di Pandora o il dispiegarsi di inaspettate possibilità?
Grazie a Sabino e a Gaggenau questa mostra è caleidoscopica e carica di racconti: nel mito ho fatto vivere l’oggi, ma anche il mio viaggio personale universale. L’ingresso della mostra l’abbiamo allestito come se fosse una sala d’attesa per il viaggio che è la nostra vita, in cui ci sono infiniti vasi di pandora da cui possono uscire tanto la distruzione quanto la gioia e la speranza. Del resto come accadde alle uova di Leda da un uovo non sai mai cosa nascerà e – da madre posso dirlo – non sai mai cosa diventerà ciò che è nato. Insieme spaventa ma è anche fonte di gioia e stupore continuo. Io non credo in qualità di artista di dover dare risposte. Non mi interessa che sia facile comprendere il senso delle mie opere, perché un senso univoco non c’è. Sono quindi onorata che Sabino mi abbia definita come la “maestra dell’indeterminatezza”, perché ciò che è determinato è una semplificazione umana e non è presente in natura. Io e il mio lavoro viviamo di tutte le contraddizioni del nostro tempo, ma alla fine queste disarmonie, queste contraddizioni e tutte le illusioni si ricompongono in un senso finale in qualche modo imperscrutabile ordinato: l’uovo in questa mostra è così sia simbolo di vita, sia il virus, sia un mortifero spermatozoo nero. Non svelo, perché non lo so nemmeno io, cosa ci sia in queste uova, che ho realizzato con impeto e compulsione. Non ci resta che vivere e scoprirlo, ma bisogna imparare a vivere leggeri con valigie piene di piume e ricordandosi – da tedesca – di portarsi dietro sempre un ombrello…ovviamente di piume!

Info:

Julia Bornfeld. Leda e il cigno nero
a cura di Sabino Maria Frassà
8 ottobre – 13 Novembre 2020
Gaggenau DesignElementi Hub
Corso Magenta 2, cortile interno

Virtual tour: www.vernissage.gaggenau.comunicamedia.it/ledaeilcignonero/virtualtour/

Julia Bornfeld, Senza titolo (Ombrello), tecnica mista, 1999, courtesy Galleria Antonella Cattani contemporary art, Cramum, Gaggenau. Foto ©Francesca Piovesan

Julia BornfeldJulia Bornfeld, Senza titolo (Valigia), tecnica mista, courtesy Galleria Antonella Cattani contemporary art, Cramum, Gaggenau. Foto ©Francesca Piovesan

Julia Bornfeld, Vista installazione “Leda e il Cigno Nero”, courtesy Galleria Antonella Cattani contemporary art, Cramum, Gaggenau. Foto ©Francesca Piovesan

Julia Bornfeld, Senza titolo (Piume V), tecnica mista su monotipiacourtesy Galleria Antonella Cattani contemporary art, Cramum, Gaggenau

Julia Bornfeld, Senza titolo (Uovo II), tecnica mista su monotipiacourtesy Galleria Antonella Cattani contemporary art, Cramum, Gaggenau


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