Nel 1941 Jacques Gelman, ebreo russo fuggito dalla rivoluzione d’ottobre, incontra e sposa a Città del Messico Natasha Zahalkaha e due anni dopo commissiona a Diego Rivera il ritratto della moglie sancendo così l’inizio di una profonda amicizia e di una collezione che riunirà le opere dei più grandi artisti messicani del periodo. La mostra presentata a Bologna da Arthemisia Group a cura di Gioia Mori ripercorre le vicende culturali e politiche della Rinascita Messicana attraverso le opere della raccolta Gelman ottenute in prestito dalla Fundación Vergel di Cuernavaca. Il filo conduttore è costituito dalla storia d’amore tra Diego e Frida Kahlo e dalle loro frequentazioni con gli altri artisti che gravitavano attorno alla ricca coppia di mecenati che costruirono la propria fortuna come produttori cinematografici di film comici.
Il percorso espositivo si apre con una serie di ritratti di Natasha Zahalkaha tra cui spiccano quelli eseguiti da Diego e Frida: mentre il primo la dipinge avvolta in un elegante abito da sera che si apre a corolla sulle gambe riecheggiando la forma delle grandi calle che la circondano, la seconda interpreta l’affascinante signora bionda come una diva hollywoodiana dallo sguardo pensoso che ben introduce la sua attitudine analitica e introspettiva. Il confronto evidenzia quanto la concezione artistica di Frida fosse antitetica rispetto a quella del marito: se Diego nei quadri da cavalletto affronta le stesse tematiche popolari delle sue opere monumentali vincolando l’arte a una precisa funzione sociale e politica, Frida contrappone all’epopea collettiva post rivoluzionaria una poetica lirica e intimistica che incarna l’allegria malinconica dell’anima messicana.
I coniugi Rivera esibirono ostentatamente la loro fede comunista ma ebbero un’identità politica controversa: nel 1937 ospitarono nella Casa Azul Leon Trockij e la moglie Natalja ma qualche tempo dopo Diego fu sospettato di far parte del complotto stalinista che aveva orchestrato il primo attentato al leader russo e dovette fuggire negli Stati Uniti, il Paese capitalista per eccellenza dove aveva ottenuto successo e denaro per i suoi murales che ne contestavano l’etica economica. Allo stesso modo Frida presenziava assieme al marito alle manifestazioni dei lavoratori messicani utilizzando il proprio corpo in performance ante litteram, come quella documentata dallo scatto di Florence Arquin in cui l’artista indossa il busto di gesso decorato con la falce e il martello, ma il suo stile di vita che non disdegnava le comodità borghesi veniva spesso preso di mira dalla stampa internazionale.
La linfa più autentica della sua arte risiede invece nelle sue dolorose vicende personali, il grave incidente stradale che da giovane compromise irrimediabilmente la sua salute e il tormentato rapporto con Diego, la sua ossessione più totalizzante in un’altalenante succedersi di ripicche, tradimenti e riconciliazioni. Il suo corpo martoriato dalle operazioni e dagli aborti è al centro di una serie di opere in cui Frida impagina se stessa come se fosse il soggetto di una tavola anatomica, disegnando i propri organi malati (la colonna vertebrale spezzata, il ventre sterile e il piede fasciato) in un visionario naturalismo in cui le vene a vista e i cordoni ombelicali diventano espedienti narrativi e simbolici. La minuziosa analisi dei dettagli scandisce ogni tappa dell’accettazione di un destino votato all’espiazione che trova senso nell’espressione artistica vissuta come unica forma di riscatto possibile.
Il nucleo più intenso delle opere presenti in mostra è incentrato su una serie di autoritratti in cui Frida inscrive la propria biografia interiore elaborando il proprio mito nell’intersezione tra il culto di se stessa e la celebrazione della sua terra nativa. Il suo abbigliamento folcloristico è una precisa dichiarazione d’identità e un manifesto ideologico attraverso il quale restituisce integrità e dignità all’immaginario messicano per esportarlo in Europa e nel Nord America in una metaforica colonizzazione inversa. Adorna di fiori e di vistosi monili come una divinità atzeca, si dipinge circondata da oggetti e animali che diventano feticci e attributi delle sue abitudini e delle sue vicende personali. Così bambole e scimmie alludono al suo irrealizzabile desiderio di maternità esplicitando al tempo stesso con l’eloquenza dei loro sguardi gli stati d’animo della padrona, mentre le sue intricate acconciature diventano richiami d’amore indirizzati a Rivera come nell’Autoritratto con treccia in cui i capelli formano il simbolo dell’infinito per sancire l’ineluttabilità del loro legame. Impietosa nel descrivere se stessa, nei quadri ingentilisce i lineamenti di Diego restituendo la sua visione interiore oppure ne trasfigura le sembianze trasformando in idolo il suo pensiero fisso come avviene ad esempio in L’abbraccio amorevole dell’Universo dove l’unione di Frida e del suo sposo caratterizzato da strane sembianze infantili appare al centro di un amplesso cosmico.
Un’ampia sezione fotografica fa da contrappunto alle opere pittoriche mettendole a confronto con lo sguardo dei numerosi fotografi che documentarono la vita della celebre coppia e che trovarono in Frida la propria musa ispiratrice. Questi scatti, oltre a fornire appassionate testimonianze della loro intensa relazione e della tenacia con cui Frida affrontava le sue infermità fisiche stravolgendole in bellezza, costituiscono un’ulteriore conferma della sua innata attitudine a ritualizzare la propria immagine ufficiale per impersonare l’eroina culturale che il suo popolo aveva bisogno di acclamare. Mettendo in scena la sua difficile esistenza in un inestricabile intreccio di ricercatezza estetica, intelligenza comunicativa e disarmante introspezione, Frida sembra precorrere la vocazione al comportamento e all’icona che qualche anno dopo la sua morte avrebbe stravolto i canoni estetici più tradizionali in un’irripetibile connubio con una pittura raffinata e popolare al tempo stesso. A riprova della perdurante influenza del suo stile e del suo linguaggio creativo, la mostra si conclude con una selezione di opere realizzate in tempi recenti da artisti e stilisti che si sono ispirati alla sua leggendaria figura reinterpretandone alcune suggestioni in chiave contemporanea.
La collezione Gelman: arte messicana del XX secolo.
Frida Kahlo, Diego Rivera, Rufino Tamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga
a cura di Gioia Mori
19 novembre 2016 – 26 marzo 2017
Palazzo Albergati
Via Saragozza 28, Bologna
Frida Kahlo a Coyoacán. Foto di Gerardo Suter
Diego Rivera, Paesaggio con cactus, 1931, The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation, Cuernavaca © Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México D.F. by SIAE 2016
Frida Kahlo, Autoritratto con treccia, 1941, The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation, Cuernavaca © Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México D.F. by SIAE 2016
Frida Kahlo, L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xolotl, 1949, The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation, Cuernavaca © Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México D.F. by SIAE 2016
Frida Kahlo, Autoritratto con scimmie, 1943, The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation, Cuernavaca © Banco de México Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México D.F. by SIAE 2016
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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