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La nascita della condizione postmoderna nelle arti visive: il pensiero 1972-1979

Cercare di capire le dinamiche, i momenti cruciali e le riflessioni fondamentali di un periodo di cui c’è ancora molto da approfondire sul piano estetico come gli anni Ottanta, è un atto imprescindibile per comprendere meglio l’articolazione artistica del presente e deve necessariamente passare attraverso l’analisi di quelle basi teoriche che, dal decennio precedente, ne vanno a costituire le condizioni di sviluppo. Infatti, già sul finire degli anni Settanta, le dialettiche concettuali avevano perso incisività a causa di una saturazione del lessico e di una quadratura critica disomogenea poiché, a queste date, sotto l’etichetta di concettuale si andava ormai a indicare un territorio piuttosto vasto e ben poco di preciso. Inoltre, ne determinò l’ordinaria obsolescenza un atteggiamento incoerente nei confronti del mercato, da sempre considerato inviso e ostile dagli artisti concettuali che, tuttavia, avevano commercializzato ogni possibile bozza, fotografia, ritaglio di giornale e testimonianza del loro operare ma, in ogni modo, senza raggiungere mai la piena soddisfazione del sistema dell’arte e dei suoi attori. Difatti, parte del successo – a livello sovranazionale – del cosiddetto Neoespressionismo, accezione anche questa decisamente onnicomprensiva con cui si indica un generalizzato recupero dell’immagine e dell’esercizio pittorico, si deve proprio a un collezionismo che esattamente in quel contesto, stava riscoprendo il piacere della pittura vera e propria, forse anche sull’onda dei valori neoconservatori che il sopraggiungere di questa cronologia portava con sé. Basta pensare che dopo il fenomeno degli Hyppies e delle contestazioni, negli Stati Uniti si afferma il reaganismo e la moda vanagloriosa degli Yuppies, mentre in Europa, dove con le Brigate Rosse e la banda Baader Mainhof la lotta politica era degenerata in terrorismo, superata la crisi petrolifera e una volta ottenuti i diritti civili del divorzio, dell’aborto e dell’obiezione di coscienza, la tensione sociale si stemperò a favore di una nuova percezione di benessere piuttosto diffusa. Tuttavia, dilagava nei circoli intellettuali la consapevolezza che ci si trovava di fronte a un nuovo punto di inizio e di esplorazione artistica che, dopo l’azzeramento prima espressivo poi fisico dell’opera d’arte avvenuto nei due decenni precedenti, sentiva il bisogno di riproporsi e riformularsi interrogandosi sul proprio passato, la propria identità, la propria natura e il proprio valore. Come in tutti i momenti di trasformazione, l’arte era giunta al punto di dover fare i conti con se stessa.

Si percepisce più largamente, sullo sfondo delle succitate vicende, come la storia sia priva di una finalità prestabilita, facendo così crollare l’imperante pensiero fenomenologico dell’idealismo storico hegeliano che per tutta la prima metà del Novecento aveva veicolato il sorgere e le dichiarazioni d’intenti estetici delle avanguardie storiche, a favore di una rivalutazione del pensiero di Friedrich Nietzsche e della sua concezione storica, dove il susseguirsi degli eventi non è più la manifestazione programmata dello Zeitgeist (spirito del tempo), ma un immotivato e necessario eterno ritorno dell’identico. Tale principio, in aggiunta, ben si sposava con la ciclicità con cui si è mossa la storia dell’arte di tutto il XX° secolo, sempre compressa fra gli istmi inconsistenti di fasi dalla grandissima sperimentazione e momenti di ritorno all’ordine. Osservazione che trova la sua validità anche all’interno degli argini cronologici e disciplinari dei tre decenni che hanno fornito le basi estetiche e anticipato il sopraggiungere di quello in questione, dove la straordinaria libertà esecutiva e espressiva dell’informale – primo vero linguaggio globale dell’arte contemporanea – venne prima freddamente immobilizzata dal Minimalismo (se vogliamo un moderno ritorno all’ordine) che rivalutò il valore delle qualità formali e fisiche del manufatto artistico, per divenire poi oggetto di un processo che si potrebbe dire inverso, ovvero quello di smaterializzazione innescato dalla forte sperimentazione praticata delle tendenze concettuali, per poi tornare, all’alba del segmento temporale qui considerato, alla riscoperta della pittura prima e dell’oggettualità poi. Si andava affermando, così, una visione generale decisamente poco fiduciosa nei confronti dell’uomo e della storia, che si rispecchiava anche nella rilettura del pensiero contingentista di Émile Boutroux, oltre che in quello di filosofi contemporanei. In anticipo con i tempi, infatti, furono il post-strutturalista Gilles Deleuze e all’antipsichiatra Fèlix Guattari, i quali con la pubblicazione nel 1972 de L’Anti Edipo – il primo dei due testi del corpus Capitalismo e Schizofrenia – individuarono con lucida chiarezza molti dei fenomeni sociali e culturali che si stavano delineando in quel frangente e che avrebbero avuto un loro riscontro anche nelle modalità di propagazione dell’esperienza artistica. Termini come “pensiero nomade” e “deterritorializzazione”, da loro introdotti, ben coglievano l’indefinibilità verso cui la società si stava orientando e come questa si stesse quindi decostruendo, causando la perdita delle identità, delle specificità locali e configurandosi pertanto sempre di più come un “dispositivo” – secondo Deleuze un sistema di linee in disequilibrio fra loro – dalla diramazione a “rizoma”, quindi seguendo un’orizzontalità pluridirezionata che non prevede gerarchie. Tale presa di coscienza nei confronti della caduta degli idoli della modernità, con l’avvicinarsi degli anni Ottanta, si nutre di un ulteriore contributo fondamentale per sciogliere gli aspetti più complessi del momento, come è stato quello di Jean Francois Lyotard il quale, con la pubblicazione nel 1979 de La Condizione Postmoderna: rapporto sul sapere, inaugura il decennio definendo – appunto – il concetto di Postmodernità relativo alle società a capitalismo avanzato, dove, dagli anni Sessanta, si registrano già come venuti meno tutti quei fattori tipicamente modernisti come l’assolutismo, l’utopismo e il finalismo che – come detto – avevano contrassegnato le stagioni creative delle avanguardie storiche, a vantaggio di una rilettura disincantata e relativista della storia dell’arte, svincolandola così da ogni qualsivoglia scopo e appartenenza. A questo si aggiunge il Pensiero debole teorizzato negli stessi anni dall’epistemologo Gianni Vattimo insieme a Pier Aldo Rovatti, il quale, constatata la caduta dell’idea di centralità nella storia e nelle comunità umane, argomenta il sorgere e il proliferare di localismi e particolarismi fino a prima sottaciuti dalla monoliticità di un pensiero unico e monotonale, che non comprendeva al proprio interno l’eccezione rappresentata dalla diversità. Si passa così, da una visione di univoca integrità monocorde dettata da un principio omologante, a una polifonica, segmentata e polisemica.

In corrispondenza a ciò, nello scenario artistico internazionale, in quello italiano e di riflesso anche nel campo della critica militante, si assiste a una parcellizzazione e frammentazione delle coniugazioni estetiche, causata da un atteggiamento linguistico eclettico e piuttosto versatile nell’attingere deliberatamente, generando così il fenomeno del Citazionismo, alle sintassi visive del passato – recente e non – senza curarsi molto della loro attinenza storico-culturale. In sintonia così con la pratica della Ripetizione differente concepita sempre da Deleuze, i vari retaggi artistici vengono trattati in maniera decisamente disinvolta, come tasselli i cui abbinamenti non devono necessariamente essere provvisti di coerenza narrativa o filologica. In senso opposto alla modernità, che sulla eco di dettami come “l’ornamento è un delitto” e “less is more” degli architetti Adolf Loos e Ludwig Mies Van Der Rohe, aveva fondato la sua speculazione sull’importanza della razionalità e dell’attinenza metodologica, ciò che risorge dalla sua crisi e dalla capitolazione dei suoi riferimenti, si distingue per la volontà di rivalutare differentemente le proprie capacità linguistiche di cui non è possibile dunque avere una sola soluzione, ma sembra necessario sperimentarle nelle più svariate e azzardate applicazioni, poiché lo stile e il risultato estetico si giustificano da sé. Di conseguenza, di fronte alla continua fusione fra registro alto e registro basso, proprio come sosteneva Lyotard, sembra che “tutto può essere letto in tutte le maniere” e, ricordando il motto di un altro architetto, Bob Venturi, si arriva alla consapevolezza che “less is boring”. Ancora più interessante ed efficace dal punto di vista disciplinare e strettamente storico-artistico, mediante la ricostruzione di un itinerario per tappe espositive e momenti di elaborazione critica, sarà vedere come l’eclettismo creativo derivante da un pensiero tanto vario e pluralizzante, si rispecchi, quasi fino al punto di determinarli, nei modi diffusione e nei contenuti della relativa esperienza artistica.

condizione postmodernaGilles Deleuze and Fèlix Guattari in the 70’s

The philosopher from Turin Giovanni Vattimo is smiling in his studio. Turin, 1980. (Photo by Adriano Alecchi/Mondadori Portfolio via Getty Images)

Jean Francois Lyotard

G.Deleuze and F.Guattari, L’anti-Edipo, Italian edition, 1975


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