Tra il 7000 e il 3500 a.C. in Europa vigeva un’organizzazione sociale matrilineare caratterizzata dall’eguaglianza tra sessi e dalla sostanziale assenza di gerarchia e autorità centralizzata. L’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas (1921-1994) aveva coniato per identificarla il termine “gilania”, nato dalla combinazione delle radici greche gy (donna) e an (uomo). Attraverso migliaia di rilievi archeologici su vasi, statuette e suppellettili preistoriche, la studiosa aveva individuato un catalogo di 45 segni ricorrenti, solitamente interpretati come decorazione, e li aveva riletti come elementi di un linguaggio comune alle popolazioni governate con questo sistema. Nel saggio Il linguaggio della dea Gimbutas rifletteva sulle correlazioni tra queste grafiche, formalmente ispirate alla natura e al corpo, e la cultura basata sul ciclo vita-morte-rigenerazione di cui erano espressione. In particolare, la studiosa riscontrava un concetto generalizzato di fecondità intesa come terra, scambio, movimento – quindi non identificata univocamente con la sfera femminile – e una conseguente visione onnicomprensiva della dea, non solo idolatrata come ancestrale genitrice ma anche come apocalittica distruttrice. L’importanza politica della donna nell’organizzazione della società e la parità tra i sessi trovavano fondamento in questa arcaica mitologia e venivano ribadite dal linguaggio segnico, originato dalle varie combinazioni del medesimo segno base “V” (becco di uccello stilizzato o rappresentazione pubica). Tra il 4300 e il 2800 a.C. tale sistema sarebbe stato soppiantato da un’altra cultura neolitica, quella dei kurgan, una bellicosa società androcratica e patrilineare arrivata a cavallo dal bacino del Volga. Questo radicale cambiamento culturale portò alla progressiva obliterazione del precedente sistema di segni, che perse la valenza di linguaggio e riuscì a sopravvivere in uno stato latente come pattern decorativo, tramandando sino ai nostri giorni l’inconscio residuo di quell’antica civiltà così insidiosamente diversa dai nostri stereotipi.
Il progetto ZigZag Protofilosofia (2017-in corso) di Ivana Spinelli, attualmente protagonista della mostra Contropelo a GALLLERIAPIÙ, nasce dal suo incontro casuale con l’archeomitologia di Marija Gimbutas in occasione di una ricerca per una residenza in Sardegna e dalla fascinazione per il potenziale filosofico di questa civiltà Neolitica esclusa dalla Preistoria ufficiale. La scoperta che quel mondo arcaico fosse molto più evoluto e sfaccettato delle categorizzazioni in cui veniva abitualmente semplificato, suscita nell’artista l’idea di riportarne i segni nel presente con l’intento di sperimentare come si possano inserire nel nostro linguaggio e quali conseguenze epistemologiche e cognitive potrebbero innescare. Specificatamente, la forte connessione vita-segno-natura che caratterizza le grafiche preistoriche postula una logica ciclica totalmente diversa dal sistema di pensiero binario che ha improntato per secoli la riflessione analitica occidentale e che oggi rivela i suoi limiti nell’incapacità di comprendere nelle proprie categorie rigidamente oppositive un mondo fluido in costante ibridazione. La sistematica esclusione degli esseri animali e vegetali dall’ambito filosofico ha eretto un’artificiale barriera ideologica che ha atrofizzato le nostre capacità di adattamento e di scambio con il “diverso” e che oggi, sgretolata dall’evidenza, ci lascia vulnerabilmente esposti al deflagrare dell’alterità.
Il viaggio nello spazio e nel tempo di Ivana Spinelli in cerca di collegamenti con quel tipo di pensiero parte dunque dal recupero dei segni che ne sono il sintomo e il germe, la cui prima fase consiste in un paziente esercizio grafico fondato sulla ripetizione e sulla composizione in tavole e quaderni. La pratica amanuense permette all’artista di appropriarsi di quei segni antichi, di introiettarli nel proprio bagaglio espressivo e di apprendere/immaginare per via intuitiva una lingua di cui ancora non esiste un’interpretazione precisa. Tra tutti i segni catalogati da Marija Gimbutas ne sceglie poi uno, lo zigzag formato dall’accostamento di due “V”, il più antico pittogramma associato all’acqua, e lo traduce in diversi linguaggi artistici per esplorare come gli scarti semantici tra queste trasposizioni suggeriscano ulteriori e non univoci incrementi di senso.
La prima traslazione avviene sul piano della scultura, con la creazione di una serie di strutture abitabili e mobili generate dalla reiterazione tridimensionale del segno a zigzag. Ogni scultura è anche una sorta di contenitore atipico, come se fosse una cornice in cui il lavoro sta dentro o dietro: si tratta quindi di corpi che accolgono dentro di sé altro (materiali artificiali e naturali in ambigua relazione), così come il segno contiene il significato senza identificarsi totalmente in esso. Calibratissima è la scelta dell’estetica dei materiali: il legno è in gran parte lasciato neutro con tenui interventi pittorici, mentre le strutture sono modellate e assemblate attraverso un’evidente lavorazione artigianale (in un caso anche animale) che stempera con calibrate inesattezze la serialità dei moduli di base, differenziandoli dalle tante riedizioni didascaliche del design modernista che imperversano negli ultimi anni.
Tra i prototipi scultorei di segno troviamo: Scaletta v^v^v scultura felina (2020), sghemba connessione tra cielo e terra sostenuta da nuvole di ovatta e da gambe protette da calzini di lana, Zig Zag portatile (2019), serpente stilizzato da spalla in cui si annidano trucioli sintetici e piante quiescenti e Meditation place, (2020), lettiga nata dalla moltiplicazione e dall’incrocio della “V” su cui ci si può sdraiare per percepire la circolazione del vuoto. L’idea alla base di questi montaggi di forme ed elementi è quella di relazionare materiali artificiali (rappresentativi della nostra epoca) con una natura a sua volta imitata e ibridata con sostanze contemporanee per scoprire quali forme di complementarietà si possono instaurare e a quali logiche rispondono i nuovi oggetti così creati. La chiave di volta e l’unità di misura di questo processo è la scultura La Dea, segno che guarda e resta v^v^v (2017), ramo di ficus apparentemente secco, rovesciato con le radici in aria e associato a un boa rosa di piuma sintetica. Questa fragile prova di innesto, esposta a tutti i rischi dell’indefinitezza, allude esplicitamente all’esistenza di una società parallela che storicamente abbiamo relegato in uno stato vegetativo equiparato all’inerzia, ipotizzando una comunicazione trasversale tra regni diversi non necessariamente accessibile all’uomo.
La stessa riflessione porta Ivana Spinelli a formalizzare la pittura in sacche-nido in cui i segni disegnati a mano diventano font digitali e poi stencil disegnati in vettoriale, le cui sfumature dialogano con il presente mentre la grafica deriva dalla digitalizzazione dei rilievi archeologici. Anche questi recipienti, imperfetti tentativi di emanciparsi dalla natura pur rimanendo natura, nascono dall’idea di legare tra loro ambiti separati e di sperimentare le sorprendenti implicazioni di questi connubi ipotizzando nuovi modelli di società atipiche. Le opere della serie Testo, rifugio per viventi (2020) sono ferite aperte in cui si raccolgono prelievi naturali e piccoli tesori mimetici che mutuano le loro forme dal regno vegetale o minerale ma sono in realtà riproduzioni in resina degli originali assenti. Niente è definitivo in questi spazi ibridi di convivenza e gestazione, in linea con l’intenzione di dialogare “alla pari” con tutto ciò che la storia ha deciso di escludere dalla propria narrazione. Il cerchio si chiude con l’applicazione generatrice di Zigo Zago Stickers (2018), in cui i segni preistorici rivisitati con colori e stili grafici aggiornati, dopo aver attraversato la scultura e la pittura, tornano a essere un linguaggio istintivo e universale da utilizzare come emoticon nelle chat digitali.
Info:
Ivana Spinelli. Contropelo
a cura di Claudio Musso
23.01 – 28.03.2020
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b, Bologna
Ivana Spinelli, Contropelo, installation view at GALLLERIAPIÙ, 2020
Ivana Spinelli, La Dea, segno che guarda e resta v^v^v, 2017
Ivana Spinelli, Meditation place, 2020
Ivana Spinelli, Testo, rifugio per viventi (2), 2020
Ivana Spinelli, Testo, rifugio per viventi (1), detail, 2020
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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