All’inizio del secolo scorso, più precisamente nel 1908, Wilhelm Worringer pubblica Astrazione ed empatia (Abstraktion und Einfühlung), un testo chiave per la teoria dell’arte dell’intero Novecento e concepito originariamente come tesi di dottorato (discussa solo l’anno precedente). Al suo cuore giace la contrapposizione degli opposti principi di empatia (o Einfühlung, termine coniato dallo psicologo tedesco Theodor Lipps) e di astrazione. Mentre l’adesione al primo polo segnala, il più delle volte, l’apertura fiduciosa nei confronti del reale, la scelta di affidarsi al suo contrario è, prevedibilmente, il sintomo di una certa ritrosia verso ciò che ci circonda.
Se da un lato Worringer può scrivere che «la precondizione per la spinta all’empatia è un felice rapporto panteistico di confidenza tra l’uomo e i fenomeni del mondo esterno», allo stesso modo «la spinta all’astrazione è il prodotto di una grande inquietudine interna ispirata all’uomo dai fenomeni del mondo esterno», la risultante di «un immenso orrore spirituale per lo spazio». In quello stesso anno, Henri Matisse completa La stanza rossa, un capolavoro assoluto che, oltre a guadagnarsi i dovuti onori, e un posto in tribuna d’onore nella storia dell’arte universale, gioca da subito la parte del guastafeste, mettendo a dura prova un impianto teorico fresco di stampa.
Nel dipinto, oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, Matisse inquadra un ambiente domestico, una camera che, abitata da una figura femminile e rispondente a una prospettiva appena accennata, funge in realtà da pretesto per un’esibizione sfacciata del colore. Lo spazio del quadro è lo spazio del colore, un rosso convincente, sicuro, che mangia palmo palmo, consumandola, ogni fuga in lontananza, stroncando sul nascere la minima ipotesi di profondità; il tema vegetale e floreale, che rompe la monotonia del rosso invadendo con più toni d’azzurro la tovaglia stesa e la parete di fondo, completa la trama bicroma di un pattern che si prende tutta la scena, scrivendo l’equazione di coincidenza tra pittura e colore. Già Maurice Denis, a fine Ottocento, scriveva come «un dipinto, prima di essere un cavallo di battaglia, una donna nuda o un qualsiasi aneddoto, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori assemblati in un certo ordine».
Pur varie nello spessore di pennellata, nel catalogo tonale e nella consistenza della pasta, anche le prove pittoriche di Anne Buckwalter (1977) e Sinéad Breslin (1989) sembrano condividere, oltre che una certa temperatura emotiva e alcuni espedienti narrativi, il ricorso al pattern come costante formale. Le due artiste, nate rispettivamente a Lancaster (Pennsylvania) e Limerick (Irlanda), sono le protagoniste di In Between Times, doppia personale allestita, dal 18 aprile al 2 giugno 2023, negli spazi della home gallery di Andrea Festa in Trastevere. Accompagnata da un testo critico di Gaia Bobò, la mostra riunisce tredici pezzi di recente fattura (tutti eseguiti tra il 2022 e il 2023), dove l’adozione di una trama regolare a supporto della narrazione svela, nell’inequivocabile pulizia ottica di Buckwalter come nelle accensioni patetiche e materiche di Breslin, le medesime angosce: «Per entrambe le artiste – scrive Gaia Bobò – questo dispositivo ritmico coincide con una promessa di ordine, che tuttavia sembra formulata con la sola intenzione di vedersi tradita: la sua ripetitività ossessiva diviene un piano psichico di confronto costantemente destabilizzato da intromissioni interne».
Con Buckwalter, le nervature del legno e i disegni delle carte da parati portano il ricordo della Pennsylvania – la stessa Pennsylvania di pittrici come Becky Suss – e della pratica famigliare dell’intaglio, mettendosi al servizio di una quotidianità e di un decoro solo apparente. Negli arredi un po’ kitsch della provincia, sotto i vasi portafiori e i centrini di pizzo, infatti, i cassetti nascondono l’offensiva sessuale e gli strumenti del mestiere: parrucche colorare, finti falli, guanti; gli specchi e i quaderni offrono corpi nudi e ignari; alle pareti, immagini erotiche, e tra la polvere e i rifiuti anche un preservativo. Al centro dell’indagine di Buckwalter, poi, anche una riflessione sui dispositivi di visione e sui codici di accettazione sociale. L’idea di finestra come diaframma e poi come perimetro in cui il pubblico sconfina del privato, risale agli anni Settanta e agli scritti di Dan Graham: «Ciò che è raffigurato nella finestra rappresenta, per coloro che sono al di fuori, il codice della privacy pubblicamente accettato» (Video Architecture Television, 1979).
Altre, invece, le fonti della più giovane Sinéad Breslin: van Gogh – di cui aveva un poster in camera, da bambina – o ancora Peter Doig, Chantal Joffe, David Hockney e Philip Guston, per citarne solo alcuni. Come i maestri di una pasta più corposa, pittori dell’eccezione alla regola, anche Breslin, scrive Gaia Bobò, si allontana dall’esattezza geometrica per piegare il ritmo al «calore di un gesto pittorico che nega in sé ogni irreale pretesa di rigore». Una strategia opposta, dunque, antitetica a quella di Buckwalter: se quest’ultima cerca nella «pittura adamantina», nell’ossessione di pulizia e nei tempi lunghi del Realismo Magico la strada per l’inchiesta esistenziale, la prima trova riparo nell’immediatezza esecutiva, nell’espressione istantanea e istintuale di un sovraccarico emotivo, tentando di scacciare l’incombenza del malessere che cade in spiaggia e nelle pause yoga, quei tempi morti, quei “tempi di mezzo” in cui si abbraccia, non senza un po’ di timore, la piena densità dell’esistenza.
Info:
Anne Buckwalter, Sinéad Breslin. In Between Times
18.04 – 02.06.2023
Andrea Festa Fine Art
Lungotevere degli Altoviti 1, 00186 Roma RM
Laureata in Scienze dell’Architettura alla Sapienza di Roma, con diploma di master in Arte contemporanea e Management presso la Luiss Business School, attualmente lavora come stagista e project manager presso Untitled Association. Diplomata in Fotografia e Critica d’Arte a Bologna, attualmente porta avanti i suoi progetti personali ed è parte del team del progetto culturale Forme Uniche.
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