Incontriamo Matteo Cervone in una Barcellona che si prepara a una caldissima stagione autunnale, tra la biennale nomade Manifesta 15 e la fiera SWAB.Milanese d’origine, Matteo Cervone è in mostra ora con la serie Man in the mirror, all’interno della collettiva #DISCONNECTED presso lo spazio espositivo Hub/Art situato in Carrer del Dr. Trueta 183 e visitabile fino al prossimo 31 ottobre. In questa conversazione Cervone ci parla del suo percorso artistico, di come si è sviluppato e quali sono i progetti futuri. Di una cosa siamo certi: dopo aver letto questa intervista non guarderete più i semafori nello stesso modo!
Greta Zuccali: Sappiamo che il tuo non è un percorso convenzionale. Con oltre trent’anni di esperienza come consulente e project manager in ambito aziendale, che cosa ti ha spinto a decidere di cambiare strada e dedicarti all’arte?
Matteo Cervone: Il percorso è stato graduale. Già dal 2000 ho cominciato a studiare comunicazione visiva e a utilizzare gli strumenti fotografici per raccontare le mie visioni. Nel 2011 ho aperto il primo studio dove però dedicavo un tempo assolutamente residuale rispetto a quello che davo alla mia professione ufficiale. Nel 2018, l’azienda per cui lavoravo ha operato una riduzione drastica del personale, e lì ho deciso di fare il grande salto per il quale, in qualche modo, mi ero preparato già da anni. Il tempo ci dà la possibilità di sperimentare il nuovo. Per me il nuovo è il mondo dell’arte, dove potermi abbandonare all’emozione per trovare nuova ricchezza. Questo mondo è quasi antitetico a quello aziendale, dove contano efficienza ed efficacia e perciò l’emozione spesso deve essere controllata.
Qual è stata la scintilla che ha innescato il tuo interesse per i semafori come soggetto fotografico?
In azienda io mi occupavo di tematiche relative al personale, ai comportamenti organizzativi, alle relazioni capo/collaboratore. Per anni ho fatto il formatore in ambito di cambiamento organizzativo. Quindi il tema relazionale, ovvero gli elementi emozionali, sono sempre stati parte del mio focus professionale. Quando poi ho cominciato a utilizzare il mezzo fotografico, ho continuato a raccontare le persone. Non è un caso che per quasi un decennio mi sia concentrato in prevalenza sugli studi di ritratto e figura, tanto in situazioni “controllate”, quindi in studio, quanto in esterna. Devo ammettere che facevo fatica a far emergere l’emozione, perché il soggetto umano è così espressivo e ricco di messaggi che ho avuto difficoltà a distillare un solo messaggio psicologico o sociale. Ho trovato quindi più facile indagare oggetti comuni cercando l’elemento da cui scaturiva un’emozione imprevista in luogo della comunicazione primaria per cui l’oggetto era stato creato.
Ci spieghi come nasce un progetto? Scegli il luogo dove andare a fotografare in base a idee che hai già in mente o lasci che sia la casualità a guidarti?
È corretto distinguere l’origine dell’immagine dall’origine del progetto poiché i percorsi sono differenti. Le immagini di solito nascono dall’osservazione attenta di ciò che trovo per strada. Mentre viaggio o cammino, se vedo un soggetto che mi colpisce incomincio a prendere qualche appunto visivo, scattando con il cellulare. Studio le inquadrature, lo sfondo, l’illuminazione naturale, come gira il sole, la zona, il traffico. Mi faccio un’idea di quale attrezzatura fotografica portare, e anche dei supporti che mi consentiranno di inquadrare le immagini (scale, mezzi, etc.). Questi possono essere i passi iniziali per avere una foto che poi cattura l’occhio e racconta una storia. Diversa è la nascita del progetto perché, al di là della singola immagine, in esposizione mi piace avere un percorso che accompagni l’osservatore attraverso una serie di stimoli per arrivare a un messaggio finale. Le immagini devono rinforzarsi le une con le altre. Il messaggio finale deve essere più potente della somma delle parti. Il progetto, quindi, nasce nel momento in cui desidero trattare un tema specifico: seleziono e metto in sequenza le immagini esistenti, vado in cerca delle immagini che sono mancanti e recupero materiale dagli archivi dove ho migliaia di immagini già scattate. Spesso, se non mi piace una luce o un taglio, torno nei luoghi originali per scattare nuovamente la foto corretta. Infine, c’è un momento in cui tutte le immagini vengono riviste per dare coerenza cinematografica (colori, contrasti, tagli, etc.).
Possiamo dire che i titoli siano parte integrante del tuo lavoro?
Il titolo che do all’opera rappresenta il significato che l’opera ha per me ma non lo ritengo assolutamente vincolante anzi, osservando i visitatori delle mie mostre succede spesso che osservino le opere da lontano, senza leggere i titoli. Ritengo che il soggetto debba evocare significati non necessariamente univoci e questa è la forza dell’opera stessa. Riguardo alla genesi dei titoli, tuttavia, devo dire che essendo molto legato alla musica degli anni ‘20, ‘30, ‘40 del secolo scorso, non è un caso che le opere richiamino spesso una canzone o un film, di quel periodo. Mentre penso l’immagine o faccio le operazioni di ritocco, continuo a canticchiare, quindi non so se sia l’immagine che richiama la canzone o il contrario. Come l’opera con il semaforo sciolto che ho intitolato: A qualcuno piace caldo. Ciò che ho scoperto riguardo al titolo finale è che mi piace avere un riferimento che sia comprensibile in italiano o in inglese.
Perché il tema delle relazioni con gli altri può essere rievocato attraverso l’uso di oggetti inanimati come i semafori?
Alle elementari c’era una filastrocca: “Rosso, attraversar non posso. Giallo, intervallo. Verde, chi non s’affretta il passaggio perde”. Quindi il semaforo, nella mia storia personale, nasce proprio come strumento di relazione con gli altri. All’università nel corso di Filosofia della Politica viene indicato come esempio di contratto sociale: la capacità di limitarci (il rispetto del rosso) è legata alla garanzia dei nostri diritti (la certezza di poter passare con il verde). E quanto cambiano i rapporti sociali (e le relazioni) quando in un incrocio il semaforo è spento (si crea l’ingorgo). Infine, proprio come le persone, i semafori sono numerosissimi. Appaiono tutti simili, visti nell’insieme. Ma, come le persone, sono tutti diversi se presi singolarmente e osservati nel loro contesto specifico.
Avvicinarsi al tuo lavoro significa anche scoprire il mondo che si cela dietro a questi strumenti di segnaletica stradale. Ci racconti qualche curiosità relativa ai semafori?
La cosa che più mi ha colpito, quando ho cominciato, è che immaginavo di esaurire la ricerca in pochi scatti: questo è il verde, questo è il rosso… Punto. Invece ho notato che in Italia, ogni Comune – e ne abbiamo più di diecimila – compra i semafori da una ditta diversa. Perciò le lanterne, le frecce, le bici, gli omini, possono sembrare tutti uguali, ma in realtà hanno delle differenze anche molto marcate. La ricerca più divertente riguarda quelli che io chiamo i “Frankenstein”. Sono semafori che sono il frutto di riparazioni (da due semafori rotti se ne ricava uno sano) e lì si trovano cose davvero insolite: omini ribaltati, modificati con il nastro isolante, dipinti a mano o con lampadine sbagliate… Si vede davvero di tutto! Quando poi ho cominciato con l’estero… Si è aperto un mondo!
Nella mostra ora in corso a Barcellona dal titolo #DISCONNECTED viene trattato il tema paradossale di una società iperconnessa che tuttavia sperimenta la solitudine più che in passato. Come si inserisce, in questa mostra, la tua serie Man in the mirror?
C’è stata una fortunata connessione perché l’idea delle immagini del trittico Man in the mirror nacque più di un anno fa: ero in auto, a ridosso dell’incrocio e, sbirciando da sotto il semaforo, mi sono accorto delle immagini ribaltate che si proiettavano sui paraluce. Una fortuna perché questo fenomeno è evidente solo poche ore al giorno e solo con i paraluce lucidi! A Milano con gli idrocarburi, i paraluce si opacizzano parecchio perdendo questo effetto. Quando è stato presentato il tema della mostra #DISCONNECTED è scattato l’elemento progettuale. I social media, ma in realtà tutto il mondo online, sono i contemporanei “specchi di Biancaneve” ove cerchiamo rassicurazioni sul nostro essere perfetti, cioè giovani, ammiccanti e privi di difetti.
Quali progetti hai per i prossimi mesi?
A novembre presenterò a Paratissima il nuovo progetto visivo, che si conclude proprio con il trittico Man in the mirror e che, a eccezione del trittico, presenta tutti semafori rossi. Si intitola: Un-Perfect e racconta le emozioni che ci fanno sentire inadeguati. Una volta, quando si viveva nei paesi, tutti quanti sapevano chi aveva le mani bucate, chi passava troppo tempo al bar, chi faceva troppo il “galante” con le signore. Queste imperfezioni caratteriali in realtà fanno parte della persona nel suo complesso. Con questo progetto, gli omini dei semafori ci mostrano le loro imperfezioni e ci invitano se possibile a fare pace con le nostre. Perché questa ricerca di perfezione ci appesantisce nella quotidianità. Un-Perfect in esposizione a Paratissima prevede anche un’installazione interattiva con il pubblico, su cui sto lavorando in questi giorni. Questo è il progetto più vicino, nel tempo. A dicembre ci sarà un altro momento importante: la presentazione dei miei lavori nel CAM Catalogo di Arte Moderna (ex Bolaffi) di Cairo Editore.
Info:
#DISCONNECTED / Collettiva
Hub/Art
Carrer del Dr. Trueta, 183, at Interface Iberica, 08005, Barcelona
21/09/2024 – 31/10/2024
Visite su appuntamento: hello@hub-art.org
https://hub-art.org/disconnected
matteocervone.it
Consulente d’arte e curatrice specializzata in arte moderna e contemporanea. Con una laurea in giurisprudenza e un Master in Art Market Management, ha fondato lo spazio espositivo Hub/Art a Milano nel 2017. Attualmente vive tra Milano e Parigi dove collabora con gallerie e spazi dedicati all’arte contemporanea.
Sonia
13 Ottobre
E’ veramente sorprendente quanto queste immagini di omini finti e stilizzati svelino non solo le fragilità degli esseri umani in carne e ossa (“Dream of Rain”) e della società in cui vivono (“Vite Parallele”), ma anche i loro sogni di libertà (“Palla Lunga”). Non sono né un’esperta di fotografia, né di arte moderna e quindi giudico il lavoro di Matteo Cervone solo per l’impatto emotivo che ha su di me e per il forte messaggio sociale che veicola. Pubblico però poesie e trovo che questi scatti abbiano una forte connotazione poetica per la capacità di sintesi e di comunicazione che dimostra di avere il loro autore. Mi ritrovo anche nell’utilizzo del titolo non come apposizione forzata, ma come parte integrante dell’opera in quanto chiave di lettura e di interpretazione.
Veramente bravo!
Federico
16 Ottobre
Non è facile rappresentare il senso del contemporaneo. Ritengo il progetto di Matteo Cervone interessante perchè, attraverso il linguaggio universale del semaforo, si giunge ad una narrazione che tocca temi altrettanto universali. In quell’omino rosso, giallo o verde c’è tutta la nostra esistenza con le contraddizioni con cui conviviamo ogni giorno, nel nostro tempo.