Rizzuto Gallery ospita la personale “Narrativa” dell’artista palermitano Francesco De Grandi, nome di punta della pittura contemporanea e docente di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo. La mostra – visitabile fino al prossimo 24 febbraio – propone un articolato percorso espositivo da cui emerge parte di un metaforico DNA, appartenente a una genealogia epica e corale con miti e archetipi della storia Occidentale. Dall’antica tradizione biblica, mitologica e leggendaria viene fuori il racconto pittorico di De Grandi che svela e testimonia, custodisce e celebra, in modo ieratico e solenne, storie sacre e brutali, come l’opera che racconta lo scuoiamento dell’apostolo San Bartolomeo. Inoltre, i suoi quadri propongono visioni di alberi, scorci, riferimenti mitologici di sangue e carne senza fornire alcun giudizio. In questo aspetto, la pittura di De Grandi è in larga parte unitaria e non lascia spazio a nessun ragionamento manicheo o moralistico poiché essa è carne e anima al contempo, pelle e terra, sogno e reale, dolore e gioia, apnea e afflato.
Nilla Zaira D’Urso: Da dove deriva la scelta di titolare la tua mostra “Narrativa”?
Francesco De Grandi: I motivi sono due: il primo è legato al fatto che credo nell’utilizzo di una pittura narrativa, che, fino a poco tempo fa, era quasi vista con fastidio perché l’idea di un racconto era una sorta di tabù dal punto di vista pittorico. Quindi, all’interno del mondo intellettuale-artistico si è creduto che la pittura non dovesse più rappresentare perché l’idea pittorica di una narrazione visiva – dall’ora del giorno al tipo di luce, dalle trame di un vestito e a tutto il resto – è stata considerata con accezione negativa. Questa riflessione, nello specifico, è stata la prima motivazione che mi è venuta in mente quando ho scelto il titolo, perché per me “narrativo” non ha un significato negativo. La seconda è legata al fatto che tutti i quadri in mostra appartengono a delle narrazioni. Inoltre, visto che nella mostra sono presenti narrazioni mitologiche, evangeliche e leggende, l’idea di usare un termine che comprendesse questi due aspetti mi ha convinto e sono arrivato alla scelta di un simile titolo. Infine, vi è anche un altro riferimento, legato alle narrazioni contemporanee, dove appunto il racconto per immagini è tra le cose meno reali che esistano, la pittura conserva invece la peculiarità di essere reale, presente e vera nonostante racconti mondi immaginari.
Nel presentare la mostra hai dichiarato che «la pittura conserva ancora una forma di onestà», cosa intendi con la parola “onestà”?
Io credo che quando si guarda un quadro è come se chi lo ha dipinto, in qualche maniera, sia totalmente nudo e non si possa nascondere davanti allo sguardo dell’osservatore. Questo pensiero è molto potente e presente in qualsiasi lavoro. Non a caso molti analisti, specialmente quelli infantili, utilizzano il segno come strumento di indagine, in quanto il disegno possiede un canale diretto con l’inconscio, con l’intimità e con quello che veramente noi teniamo il più nascosto possibile. Invece, con la pittura questo velo scompare, e tutto emerge. Tutto ciò è abbastanza inchiodante e, non a caso, lo spiego spesso ai miei studenti dal momento che vivono il giudizio con grande angoscia e, soprattutto all’inizio, non capiscono il motivo di un sentimento così forte. Spiego anche che quello che fanno ha a che vedere con la propria identità e profondità, pertanto è necessario abituarsi a smuovere spesso le nostre corde più sensibili.
Nei tuoi quadri si evince un atteggiamento chirurgico, opere prive di ogni forma di giudizio. Come fai a essere così oggettivo e neutrale davanti a scene cruente?
Percepisco il mio lavoro in modo scisso: potrei affermare di essere contemporaneamente molto empatico, ma anche lucido e controllato. Ricordo che ogni artista, nel momento in cui deve realizzare un’opera, utilizza una determinata tecnica e deve pertanto detenere il controllo di questo strumento rimanendo lucido, anche se al tempo stesso vive un’emozione forte che vuole trasmettere quasi rischiando di perdersi. Penso che questo valga per tutti gli artisti: arriva un’emozione grezza, poi la si governa, e qui è necessario essere presenti a sé stessi con un livello di consapevolezza con cui si può procedere a lavorare. La consapevolezza poi va allenata e può diventare anche uno stile di vita. Per allacciarmi alla tua similitudine, direi che sono come un chirurgo che entra in sala operatoria, consapevole e distaccato quando dipingo. Credo tuttavia che ci sia anche un ragionamento terapeutico in questo distacco. Onestamente, quando lavoro a un quadro, il mio unico problema è risolvere le questioni tecniche espressive che vanno di pari passo e questo impone una presenza, una consapevolezza.
A proposito della pittura come strumento di conoscenza, se Leonardo usava il disegno per indagare la realtà, tu usi il mezzo pittorico per indagare e conoscere il mondo dagli archetipi per declinarli e portarli nel reale. Mi incuriosisce capire cosa pensi del “reale” del nostro mondo?
Penso che il nostro sia un mondo molto complesso e questa complessità vuol dire dipanare la matassa, giocarsi la partita. Non credo negli slogan, nelle semplificazioni, al contrario, cerco sempre di trovare la complessità perché questa caratterizza la nostra esistenza e, soprattutto, impone uno sguardo. Forse, l’essere pittore è frutto di questo sguardo perché la pittura ha i suoi tempi, che non sono quelli della contemporaneità, sono tempi di riflessione, di meditazione, attese tecniche. Per questo dico che la pittura è uno strumento di indagine che riesce a restituire la complessità delle cose, a indagarne le sfaccettature. Viviamo in tempi estremamente complessi, che vanno dipanati e compresi nella loro complessità e non ridotti a slogan o semplificazioni.
Hai anche dichiarato che «miti, leggende, novelle siano arrivate a noi attraverso la testimonianza e il racconto. Che hanno attraversato il tempo e lo spazio e sono ancora urgenti e capaci di creare mondi». Che cos’è per te l’“urgenza”?
Urgenza è fare della propria esistenza un modo per arrivare a essere consapevoli del proprio posto nel mondo: individuarsi e di conseguenza rintracciare le singole urgenze che io credo siano insite in ognuno di noi. Queste urgenze sono una sorta di dono, se la vogliamo mettere sul piano spirituale. Sono un corredo e un compito da associare a un senso di divinità o sacro. Questo corredo è la forma del nostro corpo e l’urgenza è quella cosa che ci permette di individuare questo altro – il sacro appunto – e assecondarlo, coltivarlo. Per esempio, nella cultura cristiano-occidentale c’è il potentissimo archetipo del “dono” descritto nella Genesi: il donare un giardino meraviglioso e dire all’uomo di nominare ogni cosa e di governarla. Bisogna andare alla radice delle cose e intercettare questo dono perché se non lo facciamo sarebbe come tradire noi stessi e non individuarsi. L’urgenza diventa “quel lampo” in cui si individua il proprio compito e il dono è il portarlo a termine. Per esempio, non ricordo un momento in cui ho deciso di mettermi a dipingere, l’ho sempre saputo. Comunque, è stato difficile individuarmi e questo è stato motivo di grande lavoro, sofferenza, strade sbagliate, tentativi, fallimenti. Altro esempio è quando lavoro a un quadro e so perfettamente di poterlo perdere da un momento all’altro, come se fosse sull’orlo del fallimento. In questo momento sto lavorando a un quadro e mi sono accorto di aver sbagliato e di dover ripensare ad alcuni passaggi. Ho tenuto a precisare questo per dire che la mia ricerca non ha trovato compimento, ma è sempre in divenire, sapendo anche di lavorare accanto alla potenziale perdita del quadro.
A proposito di “perdita”, affrontiamo il tuo rapporto con la parola “morte”.
Prima di tutto, tengo a precisare che mentirei se parlassi di un atteggiamento sereno nei confronti della morte. È la carogna che aleggia su tutte le nostre esistenze: il “domandone” che ci facciamo tutti continuamente e, anche se non ce lo facciamo in maniera conscia, è comunque “ciò” che spinge a cercare. In questo senso, la pittura per me è un ottimo veicolo, che mi permette di indagare una serie di temi, per la maggior parte a sfondo sacro legato alla cultura occidentale – sebbene il sacro sia stato bandito dall’arte contemporanea negli ultimi trenta anni e più. Effettivamente, in pittura il sacro è stato un grande tabù, ma il teatro e il cinema lo hanno affrontato, basti pensare a Pasolini, mentre nelle arti visive è ancora un terreno vergine.
Invece, rispetto al quadro in mostra legato alla storia dell’apostolo San Bartolomeo, la scelta di rappresentare la scena in cui viene scuoiato dai pagani da dove deriva?
Due motivi: il primo perché San Bartolomeo è il patrono di Ustica, dove ho la casa e ho passato i pomeriggi più felici della mia esistenza e ogni 25 agosto viene festeggiato. Il secondo motivo è legato al fatto che San Bartolomeo – proprio per il suo martirio – è stato iconograficamente molto rappresentato da tanti altri artisti. E poi, fin da ragazzino, guardando tutte queste rappresentazioni medievali dei martiri, San Bartolomeo ha sempre colpito la mia immaginazione.
In chiusura, ti chiedo sia una tua riflessione conclusiva sia di fare un’associazione tra un ritmo musicale e la tua pittura.
Mi viene in mente una riflessione sul valore dell’utopia: noi dobbiamo poter coltivare l’utopia, se non la coltiviamo non ci muoviamo, senza di essa non ci saremmo mai evoluti. Io so benissimo che filosoficamente, da artista, posso concepire un simile ragionamento e sollevare una forma di giudizio sempre attuale su “vittima e carnefice”. Personalmente, osservo questo fenomeno così come è e, allo stesso tempo, mi rendo conto che la società va inesorabilmente avanti, ma l’ingiustizia mi fa sempre rabbia. Non è un caso se nel mio lavoro c’è un atteggiamento di presa di posizione rispetto a certe tematiche. Nel quadro in mostra “Succubi e supplizi” è rappresentata la messinscena del “potere” che cambia la casacca e agisce sempre in una maniera, e chi ne paga le conseguenze sono sempre gli stessi: i puri, i poveri. Anche qui, parafrasando Italo Calvino de “Il cavaliere inesistente”, si può guardare il quadro come fosse una meta-narrazione, totalmente immaginaria, ma che parla di noi. Oppure, “Il signore delle mosche” è un’altra opera che si riferisce sia al romanzo di William Golding, sia al film del regista Peter Brook. Ma anche in questo caso, riporto quell’atrocità ambivalente e potente, narrata da Golding, che ha come protagonisti dei ragazzini. Infine, per risponderti, rispetto alla musica, se restiamo sul classico, associo la mia pittura alla composizione “Suite scita” di Sergej Sergeevič Prokof’ev perché credo che la mia pittura sia molto russa e legata a compositori come Bartók e Stravinskij nonostante quest’ultimo sia troppo intellettuale. Ma mi riconosco nell’esperienza musicale del Novecento dove era molto presente questa commistione tra tradizione musicale da una parte, e apertura verso un nuovo modo di fare musica dall’altra.
Nilla Zaira D’Urso
Info:
Francesco De Grandi, Narrativa
12/12/2023 – 24/02/2024
Rizzuto Gallery
via Maletto 5, 90133 Palermo
rizzutogallery.com
Attraverso l’arte sente l’esigenza di accostarsi sempre di più alla natura, decidendo di creare una residenza artistica sull’Etna come un “rifugio per l’arte contemporanea” per artisti e studiosi. Nasce così Nake residenza artistica. Vince il Premio Etna Responsabile 2015. Nel 2017, è invitata nella Sala Zuccari, Senato della Repubblica, come critico d’arte. Scrive per artisti italiani e stranieri. Curatrice del primo Museo d’Arte Contemporanea dell’Etna e del progetto “Etna Contemporanea”.
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