«L’ente che guarda è qualcuno che sta nel mezzo attraverso cui guarda e non può trarsene fuori», [1] scriveva il filosofo Emilio Garroni a proposito della condizione dell’osservatore nei confronti dell’opera d’arte. La frase evoca lo stato d’impossibilità, quasi d’impotenza, che mescolato al senso di inadeguatezza caratterizza l’incomprensibile stordimento intellettivo generato dalla vista dell’opera, eppure così incredibilmente piacevole. La condizione umana è la condizione interna del guardare: impreparati ci interroghiamo per sentirci «gli enti che siamo nel mondo in cui siamo» [1]. L’attraversamento del medium mediante lo sguardo evocato da Garroni è inteso come una forma di assorbimento reciproco tra l’ente-spettatore e l’ente-opera ed è una delle potenzialità maggiori di un linguaggio in particolare: la pittura.
Attualmente a Roma in una casistica di dieci autorevoli gallerie tra quelle che rappresentano le nuove generazioni, se ne contano due che espongono pittori; in altrettante troviamo un ibrido di pittura e altri materiali, nelle restanti tutt’altro. È un’immagine che, nonostante non consideri la moltitudine di spazi indipendenti – ‘artist run-space’ – nati negli ultimi anni, dimostra una lampante presa di posizione istituzionale del gusto oltre che del mercato. Nel prenderne atto non vi è un intento nostalgico piuttosto il bisogno di riflettere sul medium pittorico alla luce della sua scarsa frequentazione romana. Necessario farlo da un punto di vista diverso rispetto a quello fondato sull’unanime tirannia del digitale o sul naturale decorso tecnico e dunque implicitamente creativo. Siamo inoltre d’accordo nel constatare che il sistema sociale-economico in cui viviamo produce inevitabili e molteplici effetti, tra cui l’appiattimento del gusto artistico sullo standard della domanda di mercato o il favoreggiamento di una tendenza – il ‘trend’– a scapito delle altre. Il tentativo da fare è cercare di tornare indietro alle radici della teoria estetica sull’immagine.
C’è un filo rosso che da Aristotele a Kant [2] conduce alla comprensione del naturale processo di immaginazione in atto nell’uomo. Per Aristotele la phantasìa registra di volta in volta le percezioni che riceviamo dall’esterno e attraverso il lavoro del nous – ’intelletto – le rielabora in rappresentazioni – phantasmata – che edificano la memoria, immagini fantasma perché di oggetti e sensazioni al momento non presenti. È in questo senso che la tela appare il luogo migliore dove si palesa il ‘libero gioco di immaginazione e intelletto’, come invece Kant dirà molto tempo dopo, definendo abilmente la condizione ultima ed esistenziale dell’opera d’arte. Sia per l’artista e sia per lo spettatore il quadro è un’arena di possibili esperienze. L’operazione di mescolamento mnemonico, immaginativo e sensoriale rende costantemente possibile in un dipinto di qualsiasi genere si voglia, uno scambio istintivo umano e al contempo primordiale, come un riconoscimento olfattivo tra simili, l’artista e l’osservatore.
Nel catalogo della mostra Mixing it up: Painting today (2021) presso la Hayward Gallery di Londra, Ralph Rugoff evidenzia la capacità della pittura come «collaborative undertaking»; «painting offers an invaluable forum for exploring intersections of individual and collective identities» [3]. L’esperienza pittorica ci rende capaci di interfacciarci con la natura di soggetti che conoscono proprio in ragione di quello scambio sensoriale e diretto che avviene per immagini – astratte o figurative che siano – mediante l’esercizio dello sguardo. La pittura ci rende consapevoli perché guardando ci ri-conosciamo a causa di un meccanismo di arricchimento evidente: «painting through illuminating our restless wrestling with meaning and meaninglessness, can help us to become slightly more astute in our own role as ‘subjects’». [3] La stratificazione semantica creata dal segno pittorico è inoltre il ricordo di un gesto estremamente umano. Persino sulle tele di Mondrian o sul perimetro del Rosso di Rothko [4] l’uomo si palesa: la pittura non consente nascondimenti. In questo senso l’opera d’arte può esemplificare l’esperienza in genere laddove vige quella estetica, concetto valido per ogni opera che possa dirsi tale in virtù della tipologia di esperienza che produce. E anche per questo la pittura prova la possibilità di un incontro con l’altro permeabile al nostro io: «every painting is composed from a collection of distinct moments, each of which might accomodate slight shifts in perspective or thinking».[3]
L’immagine e il segno veicolano connessioni possibili, corrispondenze tra soggetti e oggetti apparentemente privi di relazione. Ciò orienta inevitabilmente il discorso sul fare pittura alimentando il dialogo già contemporaneo tra figurazione e astrazione, dove l’impasse da superare non è l’apparente e ormai stantio contrasto tra le due ma la scoperta di un loro contatto reciproco che sia stimolante per l’osservatore. Il che implica una pittura coerente con la fine del solipsismo emotivo del pittore, una pittura aperta sul mondo, una pittura che genera illimitatamente tipi di conoscenza diversificata attraverso il duplice criterio del segno e del suo contenuto tematico [5]. Avventurarsi in considerazioni che confermano l’impossibilità della pittura di esaurirsi come genere artistico sono utili solo parzialmente a interpretare il clima romano di attuale sfiducia nei suoi confronti e la conseguente prevaricazione del concettuale, declinato in molteplici forme, tecniche e linguaggi.
Sempre a Roma accade spesso che gli artisti frequentino l’espressione pittorica mediante uno o più materiali di supporto, quasi a volere rafforzare o garantire un potenziamento del gesto pittorico. Contrariamente tuttavia, ci sono artisti che vi ripongono in modo assoluto la propria identità. È il caso di Pietro Moretti, artista romano di nascita ma inglese di formazione che ha recentemente trasferito il suo studio a Roma. Pietro è un pittore a trecentosessanta gradi. Utilizza principalmente l’olio e l’acquerello, quest’ultimo a volte aperto all’eventualità di traslarsi sulla tela. La sua ricerca indaga la relazione con l’altro singolarmente e nelle dinamiche di gruppo; stati d’animo e atmosfere private sono amplificate sensorialmente dal colore per diventare simboli di archetipi emotivi collettivi e risonanti di espressività. La presenza materica è viva nei dipinti di Pietro, il gesto volutamente visibile imprime alla narrazione uno sviluppo immaginativo fluido e corporeo grazie all’alternarsi di figure a zone informi dense di strati di colore, dove i contorni figurativi della scena si perdono e si ritrovano continuamente. Per l’osservatore è una riappropriazione di intimi fantasmi; innumerevoli rappresentazioni della realtà si palesano: la tela è una finestra sull’esperienza sensibile del mondo concreto, fisico, tattile.
Abbiamo parlato con Pietro Moretti di pittura oggi alla luce di alcuni temi affrontati qui per arricchire l’esito delle considerazioni fatte, nella speranza che stimolino, per quanto possibile, la riflessione su un linguaggio artistico incredibilmente vivo.
Giulia Giambrone: Se dovessimo definire uno ‘stato della pittura’, quale sarebbe secondo te ad oggi? Che potenzialità ha come medium che gli altri non hanno?
Pietro Moretti: Penso che ci sia molta pittura al momento e diversificata. Nel mio caso mi aiuta sia a interrogarmi su come il visibile sia stato e possa essere immaginato con questo specifico linguaggio, sia perché credo abbia dei limiti, delle caratteristiche peculiari che trovo particolarmente stimolanti. Mi incuriosisce e mi piace che la pittura si leghi al corpo quasi inevitabilmente, che sia una reazione diretta ai suoi gesti, focalizzando l’attenzione sulla tattilità delle cose, sulla fisicità della vita. Inoltre penso che abbia tempi diversi rispetto agli altri linguaggi: a differenza di un film o di un brano musicale, la pittura non finisce; si può guardare un quadro quanto si vuole, per secondi o per ore. Questo presuppone un modo di volgere lo sguardo alle cose molto diverso. Infine mi piace l’apparente semplicità del fare pittura: in fondo non si tratta d’altro che di materia applicata su un supporto; ma questa è anche la sua complessità, penso. Per me è un esercizio quotidiano d’attenzione volto al saper pensare attraverso il fare.
Esiste una pittura ‘pura’?
Quando ho iniziato il mio percorso di studi a Londra avevo la percezione che la pittura ‘pura’ non potesse essere narrativa, un’idea sviluppatasi penso soprattutto nel secondo Novecento dalla ricerca di un linguaggio pittorico che fosse diverso da quello del cinema, della fotografia o dell’illustrazione. Ricordo un insegnante a cui mostrai i primi quadri figurativi che mi disse di provare a fare dei video. E in effetti all’inizio dei miei studi ho fatto per lo più video e scrivevo brevi storie, ma un giorno dipingendo uno storyboard ad acquerello, mi sono reso conto di quanto fosse per me importante e piena di possibilità la pittura – e di come mi venisse molto meglio dei video – . Nel tempo ho capito che non solo trovo angusta una definizione di pittura chiusa che non sia in dialogo con le altre arti – del resto penso la sua forza sia anche il declinarsi in una molteplicità di forme diverse – ma ho anche realizzato che mi interessa proprio la contaminazione di questa con altre forme: il fumetto, il cinema e la letteratura. La pittura non credo sia narrativa nel senso in cui lo sono questi mezzi espressivi; piuttosto può esprimere la possibilità della narrazione laddove inneschi nell’osservatore la fantasia di una scena, di un’interazione. Anche per questo penso che fare pittura oggi sia interessante: si ha la possibilità di usare un enorme bagaglio storico insieme a quello visivo dei media attuali per chiedersi con quale immaginario vedere il presente.
Che dialettica c’è oggi tra figurazione e astrazione?
Penso sia una tendenza e un tema del momento su cui stanno lavorando molti artisti, forse anche a causa della relazione con il virtuale. Nel mio caso mi interessa pensare alle immagini come un qualcosa in continuo dialogo mediante lo sfaldarsi, il disfarsi di esse e il loro delinearsi in una forma riconoscibile. Mi affascinano le loro incongruenze, le zone in cui vi è una perdita della figurazione: come quando si cerca di ricordare un’immagine e ci si rende conto che ci sono parti di essa che rimangono zone d’ombra inconoscibili. Credo che in queste discrepanze, in questi limiti del visibile, vi sia il potenziale per manifestare le stranezze del quotidiano, il suo riflesso mutevole mediante il quale è possibile interrogarsi su come ciascun oggetto sia condizionato da un immaginario precostituito di rappresentazioni. Mi piace che in un dipinto si vedano i pentimenti, gli strati accumulatesi nel tempo. In questo senso penso al corpo umano e al volto come un insieme di superfici, di forme in bilico e in continuo processo di formazione. E l’uso di linguaggi astratti mi sembra colga meglio del figurativo i moti interni delle persone poiché arriva più direttamente alla corporeità, alla fisicità delle cose. Per me sta diventando sempre più importante enfatizzare e tentare di mostrare le fragilità, l’imbarazzo e le incoerenze del corpo, soprattutto in un periodo in cui mi sembra vi sia una crescente alienazione dal corpo, nata anche dalla pretesa di poterlo controllare, di poter sfuggire alla sua precarietà e da ciò, mi pare, scaturisca anche tanta vergogna per esso e su di esso.
Nelle tue opere spesso ricorre il tema episodico e assistiamo a vere e proprie scene di gruppo. Che ruolo gioca qui la narrazione?
La mia ricerca inizia spesso pensando a come può funzionare la narrazione in pittura immaginando le scene che dipingo come una sorta di sequenza raggruppata: un insieme di elementi che in un’immagine unica possa suggerire la psicologia, l’emozione, la relazione tra le diverse figure/oggetti sulla tela. Per esempio, in uno dei quadri più recenti, Il falò dei gonfiabili, l’immagine nasceva da un racconto in cui durante una notte in spiaggia un gruppo di ragazzi annoiati e smarriti trova il carrello di un venditore ambulante di gonfiabili nascosto dietro una cabina. Se inizialmente vorrebbero rubare i gonfiabili lì presenti, decidono poi, spinti dal loro capetto, di bruciarli cinicamente in un falò. In quest’opera e nella serie di acquerelli che ne è seguita, volevo riflettere attraverso la violenza goliardica di un gesto, sulle dinamiche di un gruppo maschile di adolescenti: l’amicizia, la complicità, il desiderio d’appartenere, l’inadeguatezza, l’alienazione da sé stessi, la ferocia nell’inconsapevolezza dell’altro. Mi piace come la pittura, proprio per la sua impossibilità di essere simile ad un testo, un fumetto o un film, insegni a rivedere ciò che si crede di vedere. Credo che questa ambivalenza di significato la renda più vicina alla vita.
Ti sei artisticamente formato a Londra e sei appena tornato a Roma. Che impressione hai delle tendenze pittoriche attuali? E di quelle che vedi in città?
C’è tantissima pittura figurativa. Credo sia un momento fertile per la pittura perché c’è una diversa accessibilità ad essa ed una maggiore varietà che non credo prima d’ora così manifesta, dovuta ad uno stravolgimento del modernismo. Da un lato ciò è spaesante. È difficile prendere posizione come pittore per sentirsi appartenenti a una corrente invece che a un’altra. Penso ci sia un grande rimescolamento manierista e ancora post-modernista – ma senza ironia cinica –. Se dovessi indicare delle tendenze, direi che vedo tanta pittura neo-surrealista, tanta pittura geometrica e astratta spesso in dialogo con le nuove tecnologie, tanto fumetto, e recentemente a Londra, mi sembra sia tornata anche una pittura semi-astratta, più materica e sensoriale, e non meno politicamente consapevole (Rachel Jones, Jadé Fadojutimi, Oscar Murillo…). In Italia, soprattutto a Roma, non saprei ancora dire, spero di capirlo nel prossimo periodo. Tuttavia mi sembra ce ne sia tanta anche qui e ho vari amici pittori a Roma, per cui credo che il problema sia piuttosto che non venga considerata come in altre città in Europa, ma questo forse vale per l’arte contemporanea in genere.
Note
[1] E. Garroni (1992), Estetica , Uno sguardo attraverso, Castelvecchi ed., Roma 2020, p.32.
[2] De Anima e Analitici Secondi di Aristotele; Critica della facoltà di giudizio di Kant.
[3] R. Rugoff (2021), Refiguring, in Mixing it up: Painting today, Hayward Gallery Publishing, Londra 2021. In ordine di citazione pp. 11, 16, 8, 6-7.
[4] https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/untitled-red/
[5] H. Lim (2021), https://academic.oup.com/jaac/article-abstract/80/1/31/6412585?redirectedFrom=fulltex
Pietro Moretti, Attimi di mezzo, 2021. Watercolour on paper, 32 x 24 cm
Pietro Moretti, I galleggianti, 2021. Watercolour on paper, 32 x 24 cm
Pietro Moretti, I riflessi del gioco (The Reflections of the Game), 2021. Watercolour and oil on board, 60 x 50 cm
Pietro Moretti, Il falò dei gonfiabili (The Bonfire of Inf latables), 2021. Oil on canvas, 140 x 150 cm
Pietro Moretti, Il patto, 2021. Watercolour on paper, 32 x 24 cm
Pietro Moretti, La voce dell’asino (The Voice of the Donkey), 2021. Watercolour and oil on canvas, 40 x 60 cm
Pietro Moretti, La cuccagna, 2021, mixed media on canvas, 110 x 100 cm
For all the images: courtesy the artist
Giulia Giambrone (Roma,1994) ha conseguito la laurea in Storia dell’Arte Contemporanea con una tesi in Estetica. Segue da anni il lavoro di Luigi Ontani al quale ha dedicato il saggio Luigi Ontani in Teoria. Filosofia, Estetica, Psicoanalisi nell’opera e nell’artista (Alpes Ed., Roma 2019). È stata intern presso Peggy Guggenheim Collection (Venezia) e La Galleria Nazionale (Roma). È curatrice tra Roma (Fondamenta Gallery) e Venezia (Spazio Norbert Salenbauch). S’interessa principalmente del rapporto tra filosofie e arti contemporanee.
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