Non è più il tempo dell’infuocato dibattito sul confronto, nonché sull’eventuale osmosi, tra le culture dominanti e quelle a suo tempo definite “subalterne” così come analizzato da Gramsci, poi ripreso da Carlo Ginzburg nei suoi testi seminali. Tuttavia, dopo l’abbuffata degli anni Settanta, letteraria e musicale più che altro, ecco riaffacciarsi un quesito caro a una certa frangia d’artisti: è credibile, alla luce dei giorni nostri, un ripescaggio spurio della cosiddetta cultura folk in modo da poter coltivare un cortocircuito con la sensibilità contemporanea?
Se in precedenza, a partire da un nebuloso passato, vigeva una stretta distinzione tra la cultura delle classi dominanti e la cultura materiale, pagana, agraria, già figure come Rabelais e Bruegel, facili esempi, hanno dimostrato che non sempre si tratta di un percorso a senso unico dall’alto verso il basso, e che il conto del dare e dell’avere non è poi così scontato (illuminanti al riguardo le pagine de L’Antirinascimento dello storico dell’arte Eugenio Battisti). Allo stesso modo possiamo dire che esiste oggi vita su Marte, vita al di là dello stile internazionale che pare dominare il mondo dell’arte contemporanea. Sorta di razzismo sovranazionale intento a perorare una dieta che esclude il diverso da sé, che esclude l’eros, il colore e tutto quanto appare in grado d’esprimersi senza il ricorso a sfiancanti didascaliche, indispensabili a condurre per mano il fruitore e, nella peggiore delle ipotesi, a illustrare la più risibile delle trovate.
Meno convenzionale appare, allora, l’opzione di cavalcare la tigre di un meticciato da dosare in forma d’antidoto, si fa per dire, all’Arte povera brasiliana, al Minimalismo aborigeno, al Concettuale metodista. Antidoto da pescare ciclicamente – si pensi, tanto per fare qualche esempio, all’islamico Matisse, all’africano cuore di tenebra di Picasso, alla “Trilogia della vita” di Pasolini per quel che riguarda il cinema e, per venire ai giorni nostri, ai fantasmagorici totem di Aj Fosik – nei meandri dell’etnologia, antidoto da ricercare nel nocciolo duro del folklore, sacro o profano, non ancora del tutto vanificato dal turismo. Certo, non mancano gli artisti portati al sincretismo, al mélange culturale, sennonché gli artisti capaci di coltivare simili “piaceri sovversivi”, simili vocazioni sensibili al folklore (e, casomai, a quel tanto di decorazione che ciò può comportare) sono stimati alla stessa stregua di zingari dell’arte, sdegnati e tenuti a distanza di sicurezza in base all’ahimè sempreverde interdetto dell’architetto Loos, caso emblematico, secondo il quale “l’ornamento è delitto”. Strano ma vero, ancora ai giorni nostri tutto ciò che concerne il folklore e l’ornamento nei campi alati dell’arte viene salutato come qualcosa di trascurabile.
Significativa di contro la mostra What Wonderful World a cura di Pierluca Nardoni e Claudio Franzoni, attualmente in corso presso la fondazione Magnani di Reggio Emilia, che analizza il tema dell’ornamento a partire dal punto di vista antropologico senza perdersi in pregiudizi, e significativa la lettura del saggio Il fantasma del decorativo della critica d’arte Giuliana Altea.
Ragion per cui in un momento in cui il presente non ci mette granché, bastano poche ore, a trasformarsi in passato tanto vale rifarsi a qualcosa di stratificato nel tempo che in qualche misura meriti di tornare agli onori della cronaca artistica (male che vada – per i più temerari e “digital sciamanici” – in forma di archaic revival sulle orme di Terence McKenna). E questo qualcosa può essere la quintessenza di un folklore in grado di riaffermare “la mitologia degli uomini con un passato”, di tramandare una tradizione che è anche “tradimento”, come afferma l’antropologo Marino Niola, giacché è soltanto in virtù del tradimento – non della rispettosa filologia identitaria – che la tradizione mitico-folklorica può sperare di rivendicare un ruolo. Di dire la sua attraverso gli occhi tecnologici del presente o, chissà, attraverso una sorta di futurismo archeologico o, a scelta, di archeologia del futuro.
Le testimonianze sono di varia provenienza, dall’eros perturbante di Vettor Pisani alla ricerca performativa della giovane Armenia, ma anche alla dimensione ludica di Felice Levini e al repertorio di chi scrive e ha lavorato sui bucrani erotizzati. Ma se si guarda al meridione qualcosa di simile accade pure per gli addobbi, a metà strada tra il sacro e il profano agrario, che improntano i primaverili carri e buoi (traccas) in occasione dei festeggiamenti dedicati a Sant’Efisio, a Cagliari. E, dulcis in fundo, come non pensare a certi video musicali che rivisitano il folklore bulgaro a cura degli australiani Dead Can Dance o, spulciando dalle nostre parti, alle Canzoni della Cupa dello svisciolato Vinicio Capossela?
Bruno Benuzzi
Info:
L’eresia del folklore
con opere di: Armenia, Bruno Benuzzi, Felice Levini, Vettor Pisani
MLN GLR
Palazzo Gnudi
via Riva Reno 77
Bologna
info: cariello13@gmail.com
Armenia, Sebastiane Vattienti, 2020, performance, ph Lucia Adele Nanni
Bruno Benuzzi, Rabelaisiana, 1975, teatro-performance
Vettor Pisani, Santa Teresa del frigorifero, 2004, ph courtesy Studio Vigato
Bruno Benuzzi, Posatoio digitale eco Parsi, 2018, tecnica mista su legno, cm 82 x 125, ph courtesy Millenium Gallery
is a contemporary art magazine since 1980
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