“The cyborg is a creature in a post-gender world; it has no truck with bisexuality, pre-oedipal symbiosis, unalienated labour, or other seductions to organic wholeness through a final appropriation of all the power of the part into a higher unity […]” (Donna Haraway, ‘A Cyborg Manifesto’, 1985).
Lili Reynaud-Dewar si interroga con la volontà di trasferire un’analisi approfondita di significato e significante del concetto stesso di identità, citando ed inspirandosi al Cyborg Manifesto di Donna Haraway, dichiarazione dell’idea di superamento della condizione e configurazione binaria mentale dell’uomo occidentale, aspirante ad ‘ideale’ di essere prevaricante di una natura, amalgama tra macchina, organismo, finzione e realtà. Una considerazione del corpo non più solo cadavere, né animale, né macchina e nemmeno mannequin, secondo i modelli del corpo baudrillardiani, ma addensamento di tutto ciò per un superamento dei connotati restrittivi dell’uniforme del corpo.
Condannato a perenne posizione centrale, il corpo, causa di conflitti generati simbologicamente dal dualismo, concerne la nostra società occidentale sin dalla decurtazione cartesiana, e divenuto fulcro di esempio stesso del pensiero impiegato nella mostra dall’artista.
Tomba o veicolo di conoscenza, il corpo da sempre si instaura come emblema di possedimento o d’essere, di accettazione o modificazione, simbolo o natura. Da qui, la sua centralità, dettata dal riconosciuto ed inevitabile antropocentrismo, il quale declina visioni influenzate da sovrastrutture create dall’intelletto umano.
Discriminazioni razziali, un dispregio di genere, una manifestazione di appartenenza ad un sottogruppo.
Costruzione, costrizioni, influenze, dogmi, stereotipi, dettami culturali, razziali, sessuali e politici, prigione e sofferenza.
“To recapitulate, certain dualism have been persistent in Western traditions; they have all been systemic to the logics and practices of domination of women, people of color, nature, animals – in short, domination of all constituted as others, whose task is to mirror the self. Chief among these troubling dualism are self/other, mind/body, culture/nature, male/female, civilized/primitive, reality/appearance, whole/part, agent/resource, maker/made, active/passive, right/wrong, truth/illusion, total/partial, God/man.” (Donna Haraway, ‘A Cyborg Manifesto’, 1985)
In “TEETH, GUMS, MACHINES, FUTURE SOCIETY” il corpo si declina e si svela nella sua ambivalenza di forza e sensibilità, reattività e vulnerabilità, instaurando ed elevando ad emblema simbolico i denti, ossa svelate ma nascoste, metafora ed immagine di un tramite, fra un dentro ed un fuori, dimensione pubblica e privata, individuo e società.
Suggestionata, in particolare modo, dall’osservazione dell’impiego da parte della radicata e rinascente sub-cultura hiphop protratta sin dagli anni Novanta, di modificazioni estetiche di essi, tramite un mascheramento dei denti, uno scudo, un’ applicazione metallica, quali i ‘grills’, segni di emancipazione culturale e dimostrazione di status sociale. Impiega e decontestualizza gli stessi sotto forme scultoree esposte, nucleo e parossismo degli effetti di un controllo e trasformazione del corpo sociale, per una demagogia del corpo politico.
Lili Reynaud-Dewar, inoltre, geolocalizza ed identifica come luogo principale d’osservazione di questi processi, Memphis, Tennessee, indagando la dialettica dell’identificazione dell’individuo nell’ ambiente e nella società, riscontrando interesse in momenti storici legati a questa comunità, realtà pregna, perno e fulcro di incrostate e reprimenti ostilità discriminatorie.
La totale denuncia di intrecci di stereotipi dettati da inclinazioni che costruiscono oppressioni, opposizioni, intolleranze, differenze tra individui in una scala gerarchica che sfociano in movimenti e simboli di liberazione.
La mostra si rivela in una forma attiva e multidisciplinare, tramite un processo di reviviscenze sensoriali totali ed attraverso l’impiego di molteplici elementi mediatici. Un’atto performativo di rivestimento del proprio corpo di materia argentea, come una sorta di ‘rituale simbolico’, come desiderio di ‘impersonificazione’ e ‘assimilazione’ di un corpo-nuovo, il ‘Corpo Cyberg’;
Le lotti razziali per i diritti civili di Memphis, l’attentato a Martin Luther King Jr. il Sanitario Strike, la nascita della cultura musicale afroamericana, si riflettono visivamente in uno schermo; imponenti, pannelli riportano gli statements del Manifesto della Haraway, elementi di implicazione performativa, la musica Noise come malattia accomunante, come denominatore di un vissuto di empatia esperito momentaneamente, sintomo di violenza del corpo sensibile.
Attraverso un’azione artistica la quale concerne una dimensione di compresenza collettiva, solita dell’artista, si instaura per un ‘processo di traumatizzazione’, per ri-esperire un evento: “fare finalmente i conti con il passato, essere finalmente traumatizzati o non opporsi al trauma” (Günther Anders, Dopo Holocaust 1979, 1979), come desiderio di ricreare una memoria collettiva e storica.
La mostra ha inaugurato il 27/01/2017, alla presenza dell’artista, a Museion, come seguito di una collaborazione dapprima iniziata, in occasione della mostra “Soleil politique” curata da Pierre Bal-Blanc, entrata a far parte della collezione stessa e che porterà a compimento un’approfondimento sull’arte performativa, tramite un’azione coinvolgente ed opere inedite.
Vanessa Ignoti
Lili Reynaud-Dewar, TEETH GUMS MACHINES FUTURE SOCIETY, exhibition view, Museion 2017. Courtesy of Clearing, New York, Brussels; Kamel Mennour, Paris; Emanuel Layr, Vienna and the artist. Foto Marina Faust
Vanessa Ignoti (1993) laureata presso le Accademie di Belle Arti di Venezia e in seguito di Milano, rispettivamente in Decorazione e Cinema e Video, ha attraversato un percorso di studi e di interesse dall’editoria alle Nuove Tecnologie. Con esperienza nella gestione ed organizzazione di mostre e progetti d’arte, concentra il proprio interesse sulla comunicazione e la teoria dell’arte.
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